Sul giudizio di ottemperanza sono state introdotte alcune novità e modifiche che intervengono sul testo degli articoli 112 e seguenti del codice del processo amministrativo.
La novità più importante che al riguardo, il correttivo introduce è senz’altro l’abrogazione secca del comma 4 dell’articolo 112, norma che aveva introdotto- in modo abbastanza discusso – la possibilità di promuovere per la prima volta, in sede di ottemperanza, la domanda di risarcimento del danno derivante dall’illegittimità del provvedimento amministrativo (oggetto della sentenza da ottemperare).
Come è noto, in sede di esecuzione di una decisione del giudice amministrativo, due sono le possibili voci di danno per le quali il ricorrente può astrattamente rivendicare un risarcimento: il danno derivante dalla illegittimità del provvedimento amministrativo che è stato annullato dalla sentenza da ottemperare; e il danno derivante dalla mancata tempestiva esecuzione o dalla violazione o elusione del giudicato (nonché le somme per interessi e rivalutazione relative al periodo successivo alla emanazione della sentenza). Detto altrimenti: un danno per eventi antecedenti alla sentenza e un danno per sopravvenienze. In entrambi i casi l’accertamento e la liquidazione del danno presuppongono una vera e propria attività di cognizione da parte del giudice: il problema è, allora, l’ammissibilità di tale parentesi di cognizione all’interno di un processo di stampo prettamente esecutivo quale è il giudizio di ottemperanza. Ciò, sullo sfondo del tradizionale insegnamento della giurisprudenza amministrativa, secondo il quale nel giudizio di ottemperanza non sono ammissibili domande nuove rispetto a quelle già proposte nel precedente giudizio di cognizione, posto che il giudice dell’ottemperanza deve limitarsi a eseguire le statuizioni della sentenza rimasta ineseguita, senza poterne aggiungere altre.
In proposito, gli orientamenti precedenti all’entrata in vigore del codice del processo amministrativo erano volti, in prevalenza, a riconoscere l’ammissibilità dell’azione risarcitoria solo per le voci di danno direttamente connesse alla esecuzione della sentenza oggetto di ottemperanza: quindi, solo per i casi di violazione o elusione o tardiva esecuzione del giudicato, nonché per le somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza.
Minoritaria era, invece, la tesi che ammetteva l’azione di risarcimento, in sede di ottemperanza, anche per le voci di danno antecedenti, ossia direttamente legate alla illegittimità del provvedimento amministrativo.
Si ricordi, a tal riguardo, quanto argomentato dalla sezione VI del Consiglio di Stato nel 2002: pur dichiarando, nella specie, l’inammissibilità della domanda risarcitoria in sede di ottemperanza, la spiega solamente sotto la prospettiva del principio del doppio grado di giurisdizione: la cognizione sul risarcimento del danno non può perdere un grado di giudizio sicché, qualora si agisca per i danni di fronte al giudice dell’ottemperanza, tale azione è possibile solo se quel giudice è il TAR (la cui decisione è suscettibile di appello) e non anche se è il Consiglio di Stato, alla luce del principio costituzionale previsto dall’art. 125, comma 2, della Costituzione, del doppio grado garantito alla giurisdizione amministrativa.
Il punto interessante fu, pertanto, che si ammise la possibilità di promuovere autonomamente l’azione risarcitoria in sede di ottemperanza, anche se solo dinanzi al TAR.
Con l’avvento del codice del processo amministrativo si riconobbe successo alla corrente minoritaria appena ricordata. Oltre a prevedere espressamente la possibilità di proporre, in sede di ottemperanza, l’azione di condanna per il pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza, nonché l’azione di risarcimento derivanti dalla mancata esecuzione, violazione o elusione del giudicato, il comma 4 dell’art. 112 cpa dispose che: ”nel processo di ottemperanza può essere altresì proposta la connessa domanda risarcitoria di cui all’art. 30, comma 5”, ossia l’azione di risarcimento, da formularsi in corso di causa, per il danno derivante dalla illegittimità del provvedimento originariamente impugnato. La norma precisava anche che, in tal caso, “il giudizio di ottemperanza si svolge nelle forme, nei modi e nei termini del processo ordinario”: precisazione che Palazzo Spada nel 2011, nel riprendere il precedente del 2002, aveva inteso nel senso che tale domanda risarcitoria è ammissibile unicamente se proposta in primo grado dinanzi al TAR quale giudice dell’ottemperanza e, non anche qualora il giudice della esecuzione sia radicato davanti il Consiglio di Stato, proprio in virtù del principio costituzionale del doppio grado di giurisdizione anche nel processo amministrativo sancito dall’art. 125, secondo comma, Cost..
A seguito del decreto correttivo il legislatore opera una brusca marcia indietro: l’abrogazione secca del comma 4 dell’art. 112 del cpa, espunge dal sistema processuale amministrativo la novità che era stata introdotta sulla scorta dell’indirizzo di pensiero giurisprudenziale minoritario precedentemente riportato. La conseguenza è il ritorno all’antico: nel giudizio di ottemperanza, d’ora in poi, saranno disponibili sole le domande risarcitorie calibrate sulle sopravvenienze al giudicato( rivalutazione, interessi e danni verificatesi dopo il passaggio in giudicato della sentenza da ottemperare), con esclusione della domanda risarcitoria per l’originaria illegittimità dall’atto amministrativo.
E’ opportuno precisare che il decreto correttivo in parola, intervenendo sul comma 3 dell’art. 112 cpa ha inteso consentire che l’azione di condanna possa riguardare anche i danni “connessi alla impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato” e, dall’altro lato, che esse azioni di condanna per il pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi, nonché per i danni verificatesi dopo il passaggio in giudicato della sentenza da ottemperare, possano essere proposte “anche in unico grado dinanzi al giudice dell’ottemperanza”. E’ chiaro il riferimento ai casi in cui l’azione di ottemperanza si svolge dinnanzi al Consiglio di Stato, situazione che si verifica quando la sentenza da ottemperare sia una decisione del Consiglio di Stato che ha riformato una precedente pronuncia del TAR. Diversamente da quanto argomentato dai giudici di Palazzo Spada che, come visto in precedenza, ha reiteratamente affermato la necessità del rispetto del principio costituzionale del doppio grado di giurisdizione in materia processual-amministrativa, incluse le domande risarcitorie proposte in sede di ottemperanza, il legislatore ha previsto la possibilità che tali azioni di condanna siano celebrate anche in grado unico, ossia nelle ipotesi in cui giudice dell’ottemperanza sia il Consiglio di Stato quando da ottemperare sia una sua decisione di riforma di una precedente sentenza del TAR.
Tale disposizione del codice del processo amministrativo (art. 112, comma 3) credo sarà portata fatalmente alla attenzione della Corte Costituzionale per violazione dell’art. 125, comma2, Costituzione.
La stessa decisione dei giudici della Consulta n. 8 del 1982 ha dichiarato incostituzionale la normativa che non consentiva la appellabilità delle ordinanze dei TAR sulla sospensiva, strutturando così un processo amministrativo ontologicamente fondato sul doppio grado di giudizio, qualsivoglia materia esso abbia ad oggetto.
Importante infine la modifica afferente il comma 6 dell’art. 114 che prevede la cognizione del giudice della ottemperanza estesa anche agli atti del commissario, solo però se ad adirlo siano le medesime parti nei cui confronti si è formato il giudicato.
Qualora un terzo si assuma leso da un atto del commissario ad acta dovrà chiedere tutela nel giudizio ordinario e non in sede di ottemperanza.
Il comma 6 specifica infatti: ”gli atti emanati dal giudice della ottemperanza o dal suo ausiliario sono impugnabili dai terzi estranei ai sensi dell’art. 29, con il rito ordinario” (ossia con l’ordinaria azione di annullamento).
Qualche perplessità suscita l’estensione di tale impugnabilità anche agli atti emanati dallo stesso giudice dell’ottemperanza: potrebbe difatti verificarsi lo scenario di una decisione del Consilio di Stato, pronunziata in sede di ottemperanza, che detta misure di esecuzione di un precedente giudicato, che venga impugnata dal soggetto terzo con rito ordinario dinanzi al TAR, determinando un intervento giurisdizionale di un giudice di primo grado nei confronti di un provvedimento adottato da un giudice di grado superiore.
In relazione alle parti del giudizio di ottemperanza il novellato comma 6 precisa che, avverso gli atti del commissario, è ammesso lo specifico rimedio del “reclamo” da proporsi dinanzi allo stesso giudice della ottemperanza nel termine decadenziale di sessanta giorni.
Si tratta della canonizzazione di uno istituto conosciuto nella prassi del processo amministrativo in attuazione del principio secondo il quale l’organo legittimato ad avere cognizione degli incidenti avvenuti in sede esecutiva è il medesimo deputato a dirigere l’esecuzione.
Il reclamo così come configurato dal comma 6 dell’art. 114 così come novellato dalla decreto correttivo, però, si discosta dal reclamo prodotto dalla prassi, semplificandone la disciplina.
La giurisprudenza amministrativa antecedente al codice del 2010 aveva distinto due tipologie di attività poste in essere dal commissario ad acta: quelle di stretta attuazione del comando vincolato del giudice della ottemperanza e quelle caratterizzate dalla natura discrezionale dell’esercizio del potere amministrativo da parte del commissario ad acta.
In questa ultima ipotesi il commissario avrebbe natura di organo straordinario i cui atti sarebbero dunque impugnabile unicamente con rito ordinario, mentre nel primo caso le determinazioni assunte del commissario, in quanto meramente esecutive dei dettami dei giudice della ottemperanza e, pertanto, ascrivibili alla giudicato ed alla sua esecuzione, sono assoggettabili al reclamo dinanzi al giudice della ottemperanza.
La disciplina dettata dal comma 6 dell’art. 114 cpa semplifica nettamente la disciplina in parte qua, prevedendo l’istituto del reclamo difronte il giudice della ottemperanza per entrambi i tipi di attività del commissario ad acta, senza compiere alcun tipo di differenzazione.
Prof. Fabrizio Giulimondi
La novità più importante che al riguardo, il correttivo introduce è senz’altro l’abrogazione secca del comma 4 dell’articolo 112, norma che aveva introdotto- in modo abbastanza discusso – la possibilità di promuovere per la prima volta, in sede di ottemperanza, la domanda di risarcimento del danno derivante dall’illegittimità del provvedimento amministrativo (oggetto della sentenza da ottemperare).
Come è noto, in sede di esecuzione di una decisione del giudice amministrativo, due sono le possibili voci di danno per le quali il ricorrente può astrattamente rivendicare un risarcimento: il danno derivante dalla illegittimità del provvedimento amministrativo che è stato annullato dalla sentenza da ottemperare; e il danno derivante dalla mancata tempestiva esecuzione o dalla violazione o elusione del giudicato (nonché le somme per interessi e rivalutazione relative al periodo successivo alla emanazione della sentenza). Detto altrimenti: un danno per eventi antecedenti alla sentenza e un danno per sopravvenienze. In entrambi i casi l’accertamento e la liquidazione del danno presuppongono una vera e propria attività di cognizione da parte del giudice: il problema è, allora, l’ammissibilità di tale parentesi di cognizione all’interno di un processo di stampo prettamente esecutivo quale è il giudizio di ottemperanza. Ciò, sullo sfondo del tradizionale insegnamento della giurisprudenza amministrativa, secondo il quale nel giudizio di ottemperanza non sono ammissibili domande nuove rispetto a quelle già proposte nel precedente giudizio di cognizione, posto che il giudice dell’ottemperanza deve limitarsi a eseguire le statuizioni della sentenza rimasta ineseguita, senza poterne aggiungere altre.
In proposito, gli orientamenti precedenti all’entrata in vigore del codice del processo amministrativo erano volti, in prevalenza, a riconoscere l’ammissibilità dell’azione risarcitoria solo per le voci di danno direttamente connesse alla esecuzione della sentenza oggetto di ottemperanza: quindi, solo per i casi di violazione o elusione o tardiva esecuzione del giudicato, nonché per le somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza.
Minoritaria era, invece, la tesi che ammetteva l’azione di risarcimento, in sede di ottemperanza, anche per le voci di danno antecedenti, ossia direttamente legate alla illegittimità del provvedimento amministrativo.
Si ricordi, a tal riguardo, quanto argomentato dalla sezione VI del Consiglio di Stato nel 2002: pur dichiarando, nella specie, l’inammissibilità della domanda risarcitoria in sede di ottemperanza, la spiega solamente sotto la prospettiva del principio del doppio grado di giurisdizione: la cognizione sul risarcimento del danno non può perdere un grado di giudizio sicché, qualora si agisca per i danni di fronte al giudice dell’ottemperanza, tale azione è possibile solo se quel giudice è il TAR (la cui decisione è suscettibile di appello) e non anche se è il Consiglio di Stato, alla luce del principio costituzionale previsto dall’art. 125, comma 2, della Costituzione, del doppio grado garantito alla giurisdizione amministrativa.
Il punto interessante fu, pertanto, che si ammise la possibilità di promuovere autonomamente l’azione risarcitoria in sede di ottemperanza, anche se solo dinanzi al TAR.
Con l’avvento del codice del processo amministrativo si riconobbe successo alla corrente minoritaria appena ricordata. Oltre a prevedere espressamente la possibilità di proporre, in sede di ottemperanza, l’azione di condanna per il pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza, nonché l’azione di risarcimento derivanti dalla mancata esecuzione, violazione o elusione del giudicato, il comma 4 dell’art. 112 cpa dispose che: ”nel processo di ottemperanza può essere altresì proposta la connessa domanda risarcitoria di cui all’art. 30, comma 5”, ossia l’azione di risarcimento, da formularsi in corso di causa, per il danno derivante dalla illegittimità del provvedimento originariamente impugnato. La norma precisava anche che, in tal caso, “il giudizio di ottemperanza si svolge nelle forme, nei modi e nei termini del processo ordinario”: precisazione che Palazzo Spada nel 2011, nel riprendere il precedente del 2002, aveva inteso nel senso che tale domanda risarcitoria è ammissibile unicamente se proposta in primo grado dinanzi al TAR quale giudice dell’ottemperanza e, non anche qualora il giudice della esecuzione sia radicato davanti il Consiglio di Stato, proprio in virtù del principio costituzionale del doppio grado di giurisdizione anche nel processo amministrativo sancito dall’art. 125, secondo comma, Cost..
A seguito del decreto correttivo il legislatore opera una brusca marcia indietro: l’abrogazione secca del comma 4 dell’art. 112 del cpa, espunge dal sistema processuale amministrativo la novità che era stata introdotta sulla scorta dell’indirizzo di pensiero giurisprudenziale minoritario precedentemente riportato. La conseguenza è il ritorno all’antico: nel giudizio di ottemperanza, d’ora in poi, saranno disponibili sole le domande risarcitorie calibrate sulle sopravvenienze al giudicato( rivalutazione, interessi e danni verificatesi dopo il passaggio in giudicato della sentenza da ottemperare), con esclusione della domanda risarcitoria per l’originaria illegittimità dall’atto amministrativo.
E’ opportuno precisare che il decreto correttivo in parola, intervenendo sul comma 3 dell’art. 112 cpa ha inteso consentire che l’azione di condanna possa riguardare anche i danni “connessi alla impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato” e, dall’altro lato, che esse azioni di condanna per il pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi, nonché per i danni verificatesi dopo il passaggio in giudicato della sentenza da ottemperare, possano essere proposte “anche in unico grado dinanzi al giudice dell’ottemperanza”. E’ chiaro il riferimento ai casi in cui l’azione di ottemperanza si svolge dinnanzi al Consiglio di Stato, situazione che si verifica quando la sentenza da ottemperare sia una decisione del Consiglio di Stato che ha riformato una precedente pronuncia del TAR. Diversamente da quanto argomentato dai giudici di Palazzo Spada che, come visto in precedenza, ha reiteratamente affermato la necessità del rispetto del principio costituzionale del doppio grado di giurisdizione in materia processual-amministrativa, incluse le domande risarcitorie proposte in sede di ottemperanza, il legislatore ha previsto la possibilità che tali azioni di condanna siano celebrate anche in grado unico, ossia nelle ipotesi in cui giudice dell’ottemperanza sia il Consiglio di Stato quando da ottemperare sia una sua decisione di riforma di una precedente sentenza del TAR.
Tale disposizione del codice del processo amministrativo (art. 112, comma 3) credo sarà portata fatalmente alla attenzione della Corte Costituzionale per violazione dell’art. 125, comma2, Costituzione.
La stessa decisione dei giudici della Consulta n. 8 del 1982 ha dichiarato incostituzionale la normativa che non consentiva la appellabilità delle ordinanze dei TAR sulla sospensiva, strutturando così un processo amministrativo ontologicamente fondato sul doppio grado di giudizio, qualsivoglia materia esso abbia ad oggetto.
Importante infine la modifica afferente il comma 6 dell’art. 114 che prevede la cognizione del giudice della ottemperanza estesa anche agli atti del commissario, solo però se ad adirlo siano le medesime parti nei cui confronti si è formato il giudicato.
Qualora un terzo si assuma leso da un atto del commissario ad acta dovrà chiedere tutela nel giudizio ordinario e non in sede di ottemperanza.
Il comma 6 specifica infatti: ”gli atti emanati dal giudice della ottemperanza o dal suo ausiliario sono impugnabili dai terzi estranei ai sensi dell’art. 29, con il rito ordinario” (ossia con l’ordinaria azione di annullamento).
Qualche perplessità suscita l’estensione di tale impugnabilità anche agli atti emanati dallo stesso giudice dell’ottemperanza: potrebbe difatti verificarsi lo scenario di una decisione del Consilio di Stato, pronunziata in sede di ottemperanza, che detta misure di esecuzione di un precedente giudicato, che venga impugnata dal soggetto terzo con rito ordinario dinanzi al TAR, determinando un intervento giurisdizionale di un giudice di primo grado nei confronti di un provvedimento adottato da un giudice di grado superiore.
In relazione alle parti del giudizio di ottemperanza il novellato comma 6 precisa che, avverso gli atti del commissario, è ammesso lo specifico rimedio del “reclamo” da proporsi dinanzi allo stesso giudice della ottemperanza nel termine decadenziale di sessanta giorni.
Si tratta della canonizzazione di uno istituto conosciuto nella prassi del processo amministrativo in attuazione del principio secondo il quale l’organo legittimato ad avere cognizione degli incidenti avvenuti in sede esecutiva è il medesimo deputato a dirigere l’esecuzione.
Il reclamo così come configurato dal comma 6 dell’art. 114 così come novellato dalla decreto correttivo, però, si discosta dal reclamo prodotto dalla prassi, semplificandone la disciplina.
La giurisprudenza amministrativa antecedente al codice del 2010 aveva distinto due tipologie di attività poste in essere dal commissario ad acta: quelle di stretta attuazione del comando vincolato del giudice della ottemperanza e quelle caratterizzate dalla natura discrezionale dell’esercizio del potere amministrativo da parte del commissario ad acta.
In questa ultima ipotesi il commissario avrebbe natura di organo straordinario i cui atti sarebbero dunque impugnabile unicamente con rito ordinario, mentre nel primo caso le determinazioni assunte del commissario, in quanto meramente esecutive dei dettami dei giudice della ottemperanza e, pertanto, ascrivibili alla giudicato ed alla sua esecuzione, sono assoggettabili al reclamo dinanzi al giudice della ottemperanza.
La disciplina dettata dal comma 6 dell’art. 114 cpa semplifica nettamente la disciplina in parte qua, prevedendo l’istituto del reclamo difronte il giudice della ottemperanza per entrambi i tipi di attività del commissario ad acta, senza compiere alcun tipo di differenzazione.
Prof. Fabrizio Giulimondi
La presente pubblicazione è
depositata alla SIAE e tutelata a sensi della normativa vigente sul diritto d’autore.
Provvederò a citare il giudizio
dinanzi l’Autorità Giudiziaria competente chiunque copi totalmente o
parzialmente il testo senza il mio consenso preventivo.
Fabrizio Giulimondi
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