Con la legge 11 novembre 2011, n. 180, è stato varato “lo statuto delle imprese”, ossia un corpus normativo unitario volto a favorire, nell’ottica della libertà di impresa di cui all’articolo 41 della Costituzione, uno snellimento delle norme vigenti che disciplinano la vita delle imprese e dell’attività imprenditoriale.
L’approvazione di questo importante testo normativo è stata raccomandata dalla comunicazione del 25 giugno 2008 della Commissione europea, intitolata “Una corsia preferenziale per la piccola impresa. Alla ricerca di un nuovo quadro fondamentale per la piccola impresa ( ‘Small Business Act’ per l’Europa)”, la quale ha sottolineato, fra l’altro, la necessità di creare un contesto giuridico, specie in seno al diritto amministrativo, che agevoli l’attività di impresa e il suo sviluppo.
Tre sono i pilastri che, in linea generale, sorreggono l’intero impianto della normativa: la libertà di iniziativa economica intesa quale diritto individuale; la semplificazione delle procedura di natura amministrativistica, unita alla equità; la sussidiarietà orizzontale.
Per quanto interessa la nostra materia andiamo ad esaminare il secondo pilastro.
La linea di fondo è che il pur necessario snellimento delle procedure amministrative, che nell’impianto normativo costituisce forse lo strumento principale per favorire la produttività delle imprese, non deve andare a detrimento di una equilibrata e attenta ripartizione dei benefici che vengono allo stesso tempo concessi alle attività produttive, nell’ottica di una equa distribuzione delle risorse disponibili.
In tale prospettiva, posizione centrale assume il principio enunciato dall’art. 2, comma 1, lettera c), della legge in argomento, il quale si riferisce al “diritto della impresa di operare in un contesto normativo certo e in un quadro di servizi pubblici tempestivi e di qualità, riducendo al minimo i margini di discrezionalità amministrativa.”:
E’ questa una enunciazione che riassume in sé tutti gli intendimenti del legislatore: la certezza del diritto; la qualità dei servizi pubblici di sostegno alle imprese; la riduzione dell’area di intervento autoritativo, riducendo al minimo la discrezionalità amministrativa, pur mantenendo la necessità che lo svolgimento di una attività imprenditoriale debba trovare appoggio in un provvedimento amministrativo, anche se di natura vincolata.
L’obiettivo della semplificazione è perseguito con riferimento a tutti i momenti della vita di una impresa, dalla sua nascita (sono previste misure volte a favorire l’avvio di nuove imprese, in particolare da parte di giovani e donne) al suo svolgimento (con al progressiva riduzione degli oneri amministrativi con rapporti con la PA).
L’art. 9 della legge disciplina i rapporti tra la pubblica amministrazione e le imprese, i quali, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lettera f), debbono essere improntati alla “reciprocità dei diritti e dei doveri”, attuando (lettera d), “ la progressiva riduzione degli oneri amministrativi a carico delle imprese”.
A tali fini vengono enunciati alcuni principi generali volti a informare la concreta attività delle pubbliche amministrazioni nei confronti delle imprese:
a) tutte le pubbliche amministrazioni “informano i rapporti con le imprese ai principi di trasparenza, di buona fede e di effettività dell’accesso ai documenti amministrativi, alle informazioni e ai servizi;
b) l’attività amministrativa deve essere svolta secondo criteri di economicità, di efficacia, di tempestività, di imparzialità, di uniformità di trattamento, di proporzionalità e di pubblicità;
c) le amministrazioni devono ridurre o eliminare gli oneri meramente formali e burocratici relativi all’avvio della attività imprenditoriale e alla insaturazione dei rapporti di lavoro nel settore privato.
Il contenuto dell’art. 9 costituisce chiara attuazione dei principi generali che informano l’attività amministrativa, in primo luogo di quelli dettati dall’art. 97 della Costituzione di imparzialità e buon andamento, ma anche dei principi di efficienza, efficacia, economicità, trasparenza e non aggravamento della attività amministrativa, di cui all’art. 1 della legge 7 agosto 1990, n. 241 sul procedimento amministrativo. Può, anzi, affermarsi che l’intero comma 1 dell’art. 9 costituisce una quasi pedissequa riaffermazione di principi generali concernenti l’attività amministrativa già enunciati nella legge 241/1990.
Anche la possibilità offerta alle pubbliche amministrazioni, relativa al libero accesso alla documentazione presente nel R.E.A. ( Repertorio Economico Amministrativo) - tenuto dalle Camere di Commercio, contenente tutte le notizie relative alla vita della impresa, dalla sua costituzione alla cessazione delle sue attività – previo consenso delle singole imprese, con conseguente impossibilità di chiedere alle medesime dati già presenti in esso, rappresenta una specifica attuazione dell’art. 18 della legge 241/90, che dispone:” sono accertati d’ufficio dal responsabile del procedimento i fatti, gli stati e le qualità che la stessa amministrazione procedente o altra pubblica amministrazione è tenuta a certificare.”.
Altresì, il legislatore, per il tramite dell’art. 9, comma 3, appone un ulteriore periodo al comma 1 dell’art. 10 bis della legge 241/90, ossia che “non possono essere addotti tra i motivi che ostano all’accoglimento della domanda inadempienze o ritardi attribuibili all’amministrazione.”.
L’art. 10 bis della legge 241/1990, introdotto dalla legge 15/2005, prevede che nei procedimenti a istanza di parte il responsabile del procedimento, prima della adozione di un provvedimento negativo, comunichi tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all’accoglimento della domanda. Ricevuta la comunicazione, gli istanti possono, entro i successivi dieci giorni, presentare per iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da documenti. E’ previsto, inoltre, che la comunicazione dei motivi ostativi interrompe il termine legislativo o regolamentare di conclusione del procedimento, termine che ricomincia a decorrere dalla data di presentazione delle osservazioni, oppure trascorsi i dieci giorni dalla data di ricezione della comunicazione.
Esclusa dalla applicazione dell’art. 10 bis sono:
• Le procedure concorsuali;
• I procedimenti in materia previdenziale e assistenziale promossi dal privato e gestiti da enti previdenziali.
La giurisprudenza è intervenuta sovente in tale ambito, chiarendo, in primo luogo, che svolgendo la disposizione in esame un ruolo di garanzia procedimentale a favore del privato, in mancanza di comunicazione dei motivi ostativi, il provvedimento finale negativo debba essere annullato. Tale sentenza di annullamento non deve essere emessa dal giudice qualora le ragioni del rigetto, non previamente comunicate ai sensi dell’art. 10 bis, siano comunque conosciute dall’interessato in altro modo.
L’obbligo di comunicazione ha portata generale e riguarda qualunque ipotesi di procedimento amministrativo a istanza di parte, sia che questo sia caratterizzato per l’esercizio di poteri discrezionali, sia che si caratterizzi per l’esercizio di poteri vincolati. In questa ultima ipotesi occorre ricordare che l’art. 21 octies, comma 2 (ipotesi di annullabilità dell’atto amministrativo) esclude che il provvedimento possa essere annullato, allorché risulti adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti e, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto emanato.
Tale norma si può applicare anche nel caso in cui l’eventuale omissione della comunicazione in ordine alla presenza di motivi ostativi all’accoglimento della istanza , non potrà comportare l’annullamento dell’atto, risolvendosi essa in una violazione di disposizione sulla disciplina del procedimento.
La giurisprudenza, pertanto, in tema di applicazione dell’art. 10 bis ha seguito (supportato dall’art. 21 octies, secondo comma, primo periodo, legge 241/1990) l’ orientamento sostanzialistico già anticipato dal plesso TAR- Consiglio di Stato in merito alla questione sulla mancanza di comunicazione dell’avvio del procedimento ai soggetti interessati, cointeressati e contro interessati da parte del responsabile del procedimento, a mente dell’art. 7 legge 241/1990. Il legislatore ha fatto proprio tale indirizzo di pensiero in forza dell’art. 21 octies, comma 2, secondo periodo, che recita: ” Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.”
In tale guisa, pertanto, la giurisprudenza amministrativa sull’art. 10 bis ha affermato che il provvedimento finale negativo non può essere considerato illegittimo pur in difetto di preavviso di rigetto, allorché le motivazioni ostative all’accoglimento dell’istanza siano state diffusamente esposte nel provvedimento finale e la parte interessata non abbia dimostrato in giudizio la loro illegittimità.
Si è anche affermato che le norme in materia di partecipazione al procedimento al procedimento amministrativo non debbono essere applicate meccanicamente, ma solo quando sono suscettibili di apportare una qualche utilità alla azione amministrativa, nel senso di un arricchimento sui piani del merito e della legittimità, che possa derivare dalla partecipazione del destinatario al provvedimento, con la conseguenza che l’omissione del preavviso (parimenti alla mancanza della comunicazione dell’avvio del procedimento) comporta la illegittimità del provvedimento finale, solo se il soggetto non avvisato (o che non abbia ricevuto la comun azione dell’avvio) possa provare che con la sua partecipazione avrebbe potuto, anche solo eventualmente, incidere i termini a lui favorevoli sul provvedimento finale.
Altra novità legislativa fornita dall’art. 11 legge 180/2011 si sostanzia nella previsione che le certificazioni relative ai prodotti, processi e impianti rilasciate alle imprese degli enti di normalizzazione a ciò autorizzati, da società professionali o da professionisti abilitati sono sostitutive della verifica da parte della pubblica amministrazione e delle autorità competenti .
Il legislatore, quindi, ha sostituito al procedimento certificativo e di controllo preventivo da parte delle pubbliche amministrazioni un sistema di attestazioni di qualità compiute da soggetti privati a ciò abilitati, che, in caso di certificazioni mendaci ne risponderanno penalmente, anche a seguito di controlli a campione disposti dalla pubblica amministrazione .
Il soggetto privato, in quanto esercente pubbliche funzioni certificative, assume la qualità di pubblico ufficiale con tutte le conseguenze di natura giuspenalistiche.
Altra particolarità di interesse amministrativo introdotta dalla legge 180/2011 è rappresentata dall’art. 8, secondo il quale gli atti normativi e i provvedimenti amministrativi a carattere generale che regolano l’esercizio dei poteri autorizzatori, concessori o certificatori, nonché l’accesso ai servizi pubblici o la concessione di benefici, non possono introdurre nuovi oneri regolatori, informativi o amministrativi a carico dei privati, imprese o altri soggetti privati, senza contestualmente ridurne o eliminarne altri, per un pari importo stimato e con riferimento al medesimo arco temporale.
L’art. 6, comma 5, della legge in esame dispone che, prima dell’approvazione di una proposta legislativa, regolamentare o amministrativa di carattere generale, anche di natura fiscale, destinata ad avere conseguenze sulle imprese, le pubbliche amministrazioni prevedono il ricorso alla consultazione delle organizzazioni maggiormente rappresentative delle imprese.
Il loro mancato coinvolgimento produce l’illegittimità del regolamento o del provvedimento amministrativo per difetto di istruttoria e omessa considerazione degli interessi privati in violazione della legge 241/1990.
Altresì, in ossequio al principio di massima trasparenza della attività amministrativa e anche per agevolare i rapporti tra amministrazione e privati, la legge in parola all’art. 6, comma 6, estende agli atti e ai documenti prodotti per obbligo di legge dalle imprese a corredo delle istanze, il dovere da parte delle pubbliche amministrazioni di pubblicarli sui propri siti istituzionali, relativamente a ciascun procedimento amministrativo a istanza di parte.
Infine, verifichiamola legittimazione ad agire posta dalla normativa a favore delle associazioni di categorie imprenditoriali.
L’art. 4 della legge 180/2011 prevede due distinte ipotesi di legittimazione ad agire:
• la prima, attribuita alle associazioni di categoria rappresentate in almeno cinque camere di commercio, nonché alle loro articolazioni territoriali e di categoria, ovvero nel Consiglio Nazionale della Economia e del Lavoro, consente la proposizione di azioni in giudizio a tutela di interessi relativi alla generalità dei soggetti appartenenti alla categoria professionale, sia a tutela di interessi omogenei in merito solamente ad alcuni soggetti;
• la seconda, attribuita alle associazioni di categoria maggiormente rappresentative a livello nazionale, regionale e provinciale, che sono legittimate a impugnare gli atti amministrativi lesivi degli interessi diffusi.
Le due forme di legittimazione attiva sopra riportate si distinguono:
• in relazione ai soggetti che ne sono fatti destinatari, segnalando l’incertezza del generico riferimento al concetto di “maggiore rappresentatività”;
• in relazione all’ambito oggettivo della legittimazione, poiché, nel primo caso, può essere proposta qualunque azione, purché a tutela degli interessi collettivi degli appartenenti alla categoria (che vedono come ente esponenziale che li rappresenta l’associazione di categoria), ovvero solo di alcuni di essi (basta che sia presente il carattere della omogeneità); nel secondo caso, può essere esperita solo azioni innanzi al giudice amministrativo, ma inerente non interessi collettivi (ossia interessi legittimi che fanno capo ad un ente collettivo, quale è una associazione di categoria), ma a veri e propri interess diffusi.
Quanto alla prima delle due forme di legittimazione, occorre osservare che la norma non ha introdotto alcuna forma particolare di novità, conoscendo già l’ordinamento la figura dell’interesse collettivo e la correlativa sua tutela giurisdizionale.
Al contrario, una vera novità può essere rappresentata dalla azione a tutela di interessi omogenei riferibili soltanto a taluni appartenenti alla categoria. Ovviamente, il potere di agire in giudizio include il potere di impugnazione di atti amministrativi lesivi di interessi collettivi degli associati alla categoria, nonché gli interessi omogenei di taluni degli appartenenti alla medesima.
V’è da precisare che, in relazione alla impugnazione di atti amministrativi aventi effetti a livello nazionale, regionale o provinciale, non può essere ammessa la legittimazione ad impugnare un atto con efficacia territoriale più ampia, da parte di una associazione maggiormente rappresentativa a livello territoriale più ristretto (associazione a livello provinciale per gli atti ad efficacia regionale; associazione a livello regionale per gli atti ad efficacia nazionale); non si deve considerare possibile neanche il contrario, ossia la legittimazione di una associazione maggiormente rappresentativa a livello territoriale più ampio in relazione ad atti amministrativi aventi efficacia territoriale più ristretta.
Per quanto attiene la tutela degli interessi diffusi correlati alla attività di impresa e azionabili dalle associazioni di categoria maggiormente rappresentative a livello nazionale, regionale e provinciale, si ricorda – come si è visto nelle prime lezioni – che essi sono interessi adespoti, nel senso che non sono riferibili né a un soggetto particolare (interessi legittimi) né a una pluralità circoscrivibile di soggetti (interessi collettivi).
Tali interessi e la loro azionabilità e tutelabilità si rinvengono in copiose decisioni dei giudici amministrativi, specie nel settore ambientale e del diritto dei consumatori.
Prof. Fabrizio Giulimondi
L’approvazione di questo importante testo normativo è stata raccomandata dalla comunicazione del 25 giugno 2008 della Commissione europea, intitolata “Una corsia preferenziale per la piccola impresa. Alla ricerca di un nuovo quadro fondamentale per la piccola impresa ( ‘Small Business Act’ per l’Europa)”, la quale ha sottolineato, fra l’altro, la necessità di creare un contesto giuridico, specie in seno al diritto amministrativo, che agevoli l’attività di impresa e il suo sviluppo.
Tre sono i pilastri che, in linea generale, sorreggono l’intero impianto della normativa: la libertà di iniziativa economica intesa quale diritto individuale; la semplificazione delle procedura di natura amministrativistica, unita alla equità; la sussidiarietà orizzontale.
Per quanto interessa la nostra materia andiamo ad esaminare il secondo pilastro.
La linea di fondo è che il pur necessario snellimento delle procedure amministrative, che nell’impianto normativo costituisce forse lo strumento principale per favorire la produttività delle imprese, non deve andare a detrimento di una equilibrata e attenta ripartizione dei benefici che vengono allo stesso tempo concessi alle attività produttive, nell’ottica di una equa distribuzione delle risorse disponibili.
In tale prospettiva, posizione centrale assume il principio enunciato dall’art. 2, comma 1, lettera c), della legge in argomento, il quale si riferisce al “diritto della impresa di operare in un contesto normativo certo e in un quadro di servizi pubblici tempestivi e di qualità, riducendo al minimo i margini di discrezionalità amministrativa.”:
E’ questa una enunciazione che riassume in sé tutti gli intendimenti del legislatore: la certezza del diritto; la qualità dei servizi pubblici di sostegno alle imprese; la riduzione dell’area di intervento autoritativo, riducendo al minimo la discrezionalità amministrativa, pur mantenendo la necessità che lo svolgimento di una attività imprenditoriale debba trovare appoggio in un provvedimento amministrativo, anche se di natura vincolata.
L’obiettivo della semplificazione è perseguito con riferimento a tutti i momenti della vita di una impresa, dalla sua nascita (sono previste misure volte a favorire l’avvio di nuove imprese, in particolare da parte di giovani e donne) al suo svolgimento (con al progressiva riduzione degli oneri amministrativi con rapporti con la PA).
L’art. 9 della legge disciplina i rapporti tra la pubblica amministrazione e le imprese, i quali, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lettera f), debbono essere improntati alla “reciprocità dei diritti e dei doveri”, attuando (lettera d), “ la progressiva riduzione degli oneri amministrativi a carico delle imprese”.
A tali fini vengono enunciati alcuni principi generali volti a informare la concreta attività delle pubbliche amministrazioni nei confronti delle imprese:
a) tutte le pubbliche amministrazioni “informano i rapporti con le imprese ai principi di trasparenza, di buona fede e di effettività dell’accesso ai documenti amministrativi, alle informazioni e ai servizi;
b) l’attività amministrativa deve essere svolta secondo criteri di economicità, di efficacia, di tempestività, di imparzialità, di uniformità di trattamento, di proporzionalità e di pubblicità;
c) le amministrazioni devono ridurre o eliminare gli oneri meramente formali e burocratici relativi all’avvio della attività imprenditoriale e alla insaturazione dei rapporti di lavoro nel settore privato.
Il contenuto dell’art. 9 costituisce chiara attuazione dei principi generali che informano l’attività amministrativa, in primo luogo di quelli dettati dall’art. 97 della Costituzione di imparzialità e buon andamento, ma anche dei principi di efficienza, efficacia, economicità, trasparenza e non aggravamento della attività amministrativa, di cui all’art. 1 della legge 7 agosto 1990, n. 241 sul procedimento amministrativo. Può, anzi, affermarsi che l’intero comma 1 dell’art. 9 costituisce una quasi pedissequa riaffermazione di principi generali concernenti l’attività amministrativa già enunciati nella legge 241/1990.
Anche la possibilità offerta alle pubbliche amministrazioni, relativa al libero accesso alla documentazione presente nel R.E.A. ( Repertorio Economico Amministrativo) - tenuto dalle Camere di Commercio, contenente tutte le notizie relative alla vita della impresa, dalla sua costituzione alla cessazione delle sue attività – previo consenso delle singole imprese, con conseguente impossibilità di chiedere alle medesime dati già presenti in esso, rappresenta una specifica attuazione dell’art. 18 della legge 241/90, che dispone:” sono accertati d’ufficio dal responsabile del procedimento i fatti, gli stati e le qualità che la stessa amministrazione procedente o altra pubblica amministrazione è tenuta a certificare.”.
Altresì, il legislatore, per il tramite dell’art. 9, comma 3, appone un ulteriore periodo al comma 1 dell’art. 10 bis della legge 241/90, ossia che “non possono essere addotti tra i motivi che ostano all’accoglimento della domanda inadempienze o ritardi attribuibili all’amministrazione.”.
L’art. 10 bis della legge 241/1990, introdotto dalla legge 15/2005, prevede che nei procedimenti a istanza di parte il responsabile del procedimento, prima della adozione di un provvedimento negativo, comunichi tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all’accoglimento della domanda. Ricevuta la comunicazione, gli istanti possono, entro i successivi dieci giorni, presentare per iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da documenti. E’ previsto, inoltre, che la comunicazione dei motivi ostativi interrompe il termine legislativo o regolamentare di conclusione del procedimento, termine che ricomincia a decorrere dalla data di presentazione delle osservazioni, oppure trascorsi i dieci giorni dalla data di ricezione della comunicazione.
Esclusa dalla applicazione dell’art. 10 bis sono:
• Le procedure concorsuali;
• I procedimenti in materia previdenziale e assistenziale promossi dal privato e gestiti da enti previdenziali.
La giurisprudenza è intervenuta sovente in tale ambito, chiarendo, in primo luogo, che svolgendo la disposizione in esame un ruolo di garanzia procedimentale a favore del privato, in mancanza di comunicazione dei motivi ostativi, il provvedimento finale negativo debba essere annullato. Tale sentenza di annullamento non deve essere emessa dal giudice qualora le ragioni del rigetto, non previamente comunicate ai sensi dell’art. 10 bis, siano comunque conosciute dall’interessato in altro modo.
L’obbligo di comunicazione ha portata generale e riguarda qualunque ipotesi di procedimento amministrativo a istanza di parte, sia che questo sia caratterizzato per l’esercizio di poteri discrezionali, sia che si caratterizzi per l’esercizio di poteri vincolati. In questa ultima ipotesi occorre ricordare che l’art. 21 octies, comma 2 (ipotesi di annullabilità dell’atto amministrativo) esclude che il provvedimento possa essere annullato, allorché risulti adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti e, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto emanato.
Tale norma si può applicare anche nel caso in cui l’eventuale omissione della comunicazione in ordine alla presenza di motivi ostativi all’accoglimento della istanza , non potrà comportare l’annullamento dell’atto, risolvendosi essa in una violazione di disposizione sulla disciplina del procedimento.
La giurisprudenza, pertanto, in tema di applicazione dell’art. 10 bis ha seguito (supportato dall’art. 21 octies, secondo comma, primo periodo, legge 241/1990) l’ orientamento sostanzialistico già anticipato dal plesso TAR- Consiglio di Stato in merito alla questione sulla mancanza di comunicazione dell’avvio del procedimento ai soggetti interessati, cointeressati e contro interessati da parte del responsabile del procedimento, a mente dell’art. 7 legge 241/1990. Il legislatore ha fatto proprio tale indirizzo di pensiero in forza dell’art. 21 octies, comma 2, secondo periodo, che recita: ” Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.”
In tale guisa, pertanto, la giurisprudenza amministrativa sull’art. 10 bis ha affermato che il provvedimento finale negativo non può essere considerato illegittimo pur in difetto di preavviso di rigetto, allorché le motivazioni ostative all’accoglimento dell’istanza siano state diffusamente esposte nel provvedimento finale e la parte interessata non abbia dimostrato in giudizio la loro illegittimità.
Si è anche affermato che le norme in materia di partecipazione al procedimento al procedimento amministrativo non debbono essere applicate meccanicamente, ma solo quando sono suscettibili di apportare una qualche utilità alla azione amministrativa, nel senso di un arricchimento sui piani del merito e della legittimità, che possa derivare dalla partecipazione del destinatario al provvedimento, con la conseguenza che l’omissione del preavviso (parimenti alla mancanza della comunicazione dell’avvio del procedimento) comporta la illegittimità del provvedimento finale, solo se il soggetto non avvisato (o che non abbia ricevuto la comun azione dell’avvio) possa provare che con la sua partecipazione avrebbe potuto, anche solo eventualmente, incidere i termini a lui favorevoli sul provvedimento finale.
Altra novità legislativa fornita dall’art. 11 legge 180/2011 si sostanzia nella previsione che le certificazioni relative ai prodotti, processi e impianti rilasciate alle imprese degli enti di normalizzazione a ciò autorizzati, da società professionali o da professionisti abilitati sono sostitutive della verifica da parte della pubblica amministrazione e delle autorità competenti .
Il legislatore, quindi, ha sostituito al procedimento certificativo e di controllo preventivo da parte delle pubbliche amministrazioni un sistema di attestazioni di qualità compiute da soggetti privati a ciò abilitati, che, in caso di certificazioni mendaci ne risponderanno penalmente, anche a seguito di controlli a campione disposti dalla pubblica amministrazione .
Il soggetto privato, in quanto esercente pubbliche funzioni certificative, assume la qualità di pubblico ufficiale con tutte le conseguenze di natura giuspenalistiche.
Altra particolarità di interesse amministrativo introdotta dalla legge 180/2011 è rappresentata dall’art. 8, secondo il quale gli atti normativi e i provvedimenti amministrativi a carattere generale che regolano l’esercizio dei poteri autorizzatori, concessori o certificatori, nonché l’accesso ai servizi pubblici o la concessione di benefici, non possono introdurre nuovi oneri regolatori, informativi o amministrativi a carico dei privati, imprese o altri soggetti privati, senza contestualmente ridurne o eliminarne altri, per un pari importo stimato e con riferimento al medesimo arco temporale.
L’art. 6, comma 5, della legge in esame dispone che, prima dell’approvazione di una proposta legislativa, regolamentare o amministrativa di carattere generale, anche di natura fiscale, destinata ad avere conseguenze sulle imprese, le pubbliche amministrazioni prevedono il ricorso alla consultazione delle organizzazioni maggiormente rappresentative delle imprese.
Il loro mancato coinvolgimento produce l’illegittimità del regolamento o del provvedimento amministrativo per difetto di istruttoria e omessa considerazione degli interessi privati in violazione della legge 241/1990.
Altresì, in ossequio al principio di massima trasparenza della attività amministrativa e anche per agevolare i rapporti tra amministrazione e privati, la legge in parola all’art. 6, comma 6, estende agli atti e ai documenti prodotti per obbligo di legge dalle imprese a corredo delle istanze, il dovere da parte delle pubbliche amministrazioni di pubblicarli sui propri siti istituzionali, relativamente a ciascun procedimento amministrativo a istanza di parte.
Infine, verifichiamola legittimazione ad agire posta dalla normativa a favore delle associazioni di categorie imprenditoriali.
L’art. 4 della legge 180/2011 prevede due distinte ipotesi di legittimazione ad agire:
• la prima, attribuita alle associazioni di categoria rappresentate in almeno cinque camere di commercio, nonché alle loro articolazioni territoriali e di categoria, ovvero nel Consiglio Nazionale della Economia e del Lavoro, consente la proposizione di azioni in giudizio a tutela di interessi relativi alla generalità dei soggetti appartenenti alla categoria professionale, sia a tutela di interessi omogenei in merito solamente ad alcuni soggetti;
• la seconda, attribuita alle associazioni di categoria maggiormente rappresentative a livello nazionale, regionale e provinciale, che sono legittimate a impugnare gli atti amministrativi lesivi degli interessi diffusi.
Le due forme di legittimazione attiva sopra riportate si distinguono:
• in relazione ai soggetti che ne sono fatti destinatari, segnalando l’incertezza del generico riferimento al concetto di “maggiore rappresentatività”;
• in relazione all’ambito oggettivo della legittimazione, poiché, nel primo caso, può essere proposta qualunque azione, purché a tutela degli interessi collettivi degli appartenenti alla categoria (che vedono come ente esponenziale che li rappresenta l’associazione di categoria), ovvero solo di alcuni di essi (basta che sia presente il carattere della omogeneità); nel secondo caso, può essere esperita solo azioni innanzi al giudice amministrativo, ma inerente non interessi collettivi (ossia interessi legittimi che fanno capo ad un ente collettivo, quale è una associazione di categoria), ma a veri e propri interess diffusi.
Quanto alla prima delle due forme di legittimazione, occorre osservare che la norma non ha introdotto alcuna forma particolare di novità, conoscendo già l’ordinamento la figura dell’interesse collettivo e la correlativa sua tutela giurisdizionale.
Al contrario, una vera novità può essere rappresentata dalla azione a tutela di interessi omogenei riferibili soltanto a taluni appartenenti alla categoria. Ovviamente, il potere di agire in giudizio include il potere di impugnazione di atti amministrativi lesivi di interessi collettivi degli associati alla categoria, nonché gli interessi omogenei di taluni degli appartenenti alla medesima.
V’è da precisare che, in relazione alla impugnazione di atti amministrativi aventi effetti a livello nazionale, regionale o provinciale, non può essere ammessa la legittimazione ad impugnare un atto con efficacia territoriale più ampia, da parte di una associazione maggiormente rappresentativa a livello territoriale più ristretto (associazione a livello provinciale per gli atti ad efficacia regionale; associazione a livello regionale per gli atti ad efficacia nazionale); non si deve considerare possibile neanche il contrario, ossia la legittimazione di una associazione maggiormente rappresentativa a livello territoriale più ampio in relazione ad atti amministrativi aventi efficacia territoriale più ristretta.
Per quanto attiene la tutela degli interessi diffusi correlati alla attività di impresa e azionabili dalle associazioni di categoria maggiormente rappresentative a livello nazionale, regionale e provinciale, si ricorda – come si è visto nelle prime lezioni – che essi sono interessi adespoti, nel senso che non sono riferibili né a un soggetto particolare (interessi legittimi) né a una pluralità circoscrivibile di soggetti (interessi collettivi).
Tali interessi e la loro azionabilità e tutelabilità si rinvengono in copiose decisioni dei giudici amministrativi, specie nel settore ambientale e del diritto dei consumatori.
Prof. Fabrizio Giulimondi
Nessun commento:
Posta un commento