Dopo
i due capolavori di Donna Tartt “Dio di illusioni” e “Il Cardellino”, non poteva non essere
recensita in questa Rubrica l’opera intermedia “Il piccolo amico” (BUR
Rizzoli).
E’
il romanzo del dolore, di un dolore egoistico e asfittico, perché nessuno ascolta
l’urlo silenzioso dell’altro e ognuno è una monade, rinchiusa nella propria
cupa solitudine.
Harriet,
una ragazzina di dodici anni del Mississippi a metà degli anni ’30, perde
tragicamente il fratello di nove e, insieme alla bellissima ed amorfa sorella,
è abbandonata nel proprio silente dramma anche quando l’amata tata, unico punto
di riferimento affettivo, viene licenziata dopo decenni di zelante lavoro, e anche
quando una delle tre dilette zie muore. La loro angoscia non conta ed è quasi
fonte di fastidio per le persone che circondano le due ragazze. Per la loro madre,
obnubilata dagli psicofarmaci e dall’incontenibile strazio, non sono altro che ectoplasmi,
mentre per la dura ed aspra nonna, occasione per manifestare l’ottusità di un
modello educativo privo di sensibilità, comprensione e dolcezza.
Tutti
i protagonisti sono avvolti da uno scuro e implacabile isolamento, ove affetti,
comunicazione e dialogo sono del tutto assenti, e di questa negazione anche gli
spazi ne sono intrisi: “e poi
si allontanò attraverso il giardino, vuoto, assolato e irreale”…..”non come a
casa sua, sempre in penombra, dove i ricordi ricordavano un sentore greve, una
sgradevole scia di vestiti vecchi e di polvere”). Non sussiste autenticità
nei sentimenti, perché non vi sono genitori, né famiglie e parenti e amici, ma solo singoli personaggi
che, per quanto malvagi, non possono non provocare nel lettore un barlume di
compassione.
E l’eroina
Harriet, un po’ fanciulla triste e disincantata, un po’ astuta criminale, nella
sua annientata adolescenza immersa nell’”Assenza-Di-Tutto”, è forse l’Autrice nella sua trascorsa vita
giovanile?
Fra
rappresentazioni talora repellenti e la maestosità di descrizioni
naturalistiche, Donna Tartt lascia nel suo
interlocutore una lingua allappata di
inquietudine e una bocca con una vaga sensazione di stordimento.
“Nel vuoto e nel silenzio- un silenzio
terribile, quasi il mondo e i suoi abitanti non esistessero più – c’era anche
la sofferenza nel pensare alla casa di Libby, chiusa e deserta a pochi isolati
da lì. L’erba non tagliata, le aiuole infestate dalle erbacce, e dentro le vuote pozze degli specchi, che non
riflettevano nulla, i raggi del sole e della luna che passavano indifferenti da
una stanza all’altra.”.
Fabrizio Giulimondi
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