domenica 8 giugno 2014

"IL PICCOLO AMICO" DI DONNA TARTT

il piccolo amico
Dopo i due capolavori di Donna TarttDio di illusioni” e “Il Cardellino”, non poteva non essere recensita in questa Rubrica l’opera intermedia “Il piccolo amico” (BUR Rizzoli).
E’ il romanzo del dolore, di un dolore egoistico e asfittico, perché nessuno ascolta l’urlo silenzioso dell’altro e ognuno è una monade, rinchiusa nella propria cupa solitudine.
Harriet, una ragazzina di dodici anni del Mississippi a metà degli anni ’30, perde tragicamente il fratello di nove e, insieme alla bellissima ed amorfa sorella, è abbandonata nel proprio silente dramma anche quando l’amata tata, unico punto di riferimento affettivo, viene licenziata dopo decenni di zelante lavoro, e anche quando una delle tre dilette zie muore. La loro angoscia non conta ed è quasi fonte di fastidio per le persone che circondano le due ragazze. Per la loro madre, obnubilata dagli psicofarmaci e dall’incontenibile strazio, non sono altro che ectoplasmi, mentre per la dura ed aspra nonna, occasione per manifestare l’ottusità di un modello educativo privo di sensibilità, comprensione  e dolcezza.
Tutti i protagonisti sono avvolti da uno scuro e implacabile isolamento, ove affetti, comunicazione e dialogo sono del tutto assenti, e di questa negazione anche gli  spazi ne sono intrisi:  “e poi si allontanò attraverso il giardino, vuoto, assolato e irreale”…..”non come a casa sua, sempre in penombra, dove i ricordi ricordavano un sentore greve, una sgradevole scia di vestiti vecchi e di polvere”). Non sussiste autenticità nei sentimenti, perché non vi sono genitori, né  famiglie e  parenti e amici, ma solo singoli personaggi che, per quanto malvagi, non possono non provocare nel lettore un barlume di compassione.
E l’eroina Harriet, un po’ fanciulla triste e disincantata, un po’ astuta criminale, nella sua annientata adolescenza immersa nell’”Assenza-Di-Tutto”,  è forse l’Autrice nella sua trascorsa vita giovanile?
Fra rappresentazioni talora repellenti e la maestosità di descrizioni naturalistiche,  Donna Tartt  lascia nel suo interlocutore una  lingua allappata di inquietudine e una bocca con una vaga sensazione di stordimento.
Nel vuoto e nel silenzio- un silenzio terribile, quasi il mondo e i suoi abitanti non esistessero più – c’era anche la sofferenza nel pensare alla casa di Libby, chiusa e deserta a pochi isolati da lì. L’erba non tagliata, le aiuole infestate dalle erbacce,  e dentro le vuote pozze degli specchi, che non riflettevano nulla, i raggi del sole e della luna che passavano indifferenti da una stanza all’altra.”.

Fabrizio Giulimondi

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