“Orley Farm” di
Anthony Trollope (Sellerio editore Palermo).
Anthony Trollope
(1815-1882) è uno dei grandi della letteratura inglese dell’Ottocento - seppur
non molto conosciuto in Italia - , recentemente molto recensito dai critici di
lingua anglofona e diffusamente letto
fra i cittadini britannici e del Commonwealth.
“Orley Farm” è il romanzo delle sottili descrizioni
fisiche, psicologiche e morali, descrizioni che l’Autore rivolge anche all’ultima
“comparsa” in cui la narrazione si imbatte. Sprazzi di comicità anglosassone
puntellano la storia, raccontata in uno stile delicato e morbido, con una
loquela elegante e forbita , sfoggiata in ricchi colloqui, splendidi esempi di
un conversare pomposamente nobiliare di un epoca in cui gli affetti erano
profondi e i sentimenti sinceri e leali.
Il
linguaggio garbato e composto dell’ ‘800 inglese sembra respirare l’aria
ovattata e un po’ plumbea dei grandi sceneggiati televisivi del dopoguerra e
certe piece teatrali, nelle quali le conversazioni lunghe e, talora, tediose,
non perdono mai del loro fascino estetico. Suggestive le reiterate citazioni
bibliche, shakespeariane e miltoniane, oltre gli efficaci richiami agli scritti
della Roma classica.
La
profondità di passioni amorose ed amicali si contrappone a futili passatempi
natalizi e noiosi, quanto inutili, formalismi della high society dell’impero dell’Insula
Angelorum .
Onore,
decoro, reputazione, prestigio, dignità, sacralità dell’impegno assunto, censo
di appartenenza, alto e antico lignaggio, rispettabilità e, poi, lo spergiuro,
che tutto offende, disonora e insozza. L’opera racconta una società che sulla
verità e sulla parola data regge se stessa, le sue radici, le sue
fondamenta.
Le
1142 pagine raccolte in due volumi fanno
percorrere al lettore la storia di una tenuta illegittimamente posseduta da una
fascinosa signora, una Madame Bovary della Gran Bretagna, una biblica Rebecca ottocentesca; di un processo penale
per spergiuro e della incancellabile vergogna che esso comporta; delle arringhe, delle escussioni dei
testimoni, della accusa e della difesa di illustri principi del foro londinesi;
della spietata cross examination e del verdetto di una imparruccata, solenne e
rigorosa magistratura di Sua Maestà; del
senso della colpa e del peccato nell’etica vittoriana e anglicana.
La
trama è affollata di protagonisti, di figure secondarie o che si intravedono solamente
sullo sfondo, ma tutti egualmente raffigurati
nei tratti delle proprie personalità e caratteri: nulla è sfumato ma tutto
marcatamente tracciato.
“A questo punto posso dire: addio.”
Fabrizio Giulimondi
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