Con “Il labirinto degli spiriti” (Mondadori) siamo giunti alla conclusione della tetralogia del Cimitero dei Libri Dimenticati dell’iberico Carlos Ruiz Zafón, dopo aver goduto di “L’ombra del vento”, “Il gioco dell’Angelo” e “Il Prigioniero del Cielo”.
In
questi anni ho letto centinaia fra romanzi, saggi e racconti, una buona parte
da me recensiti, ma non si può recensire un’opera d’arte: “Il labirinto degli spiriti” è il più bel libro che abbia mai letto
in vita mia.
Le
parole di una recensione non possono contenere il sublime.
Le
parole di una recensione non possono esprimere l’eccelso.
Non
si può sezionare un testo ed analizzarne i vocaboli, l’architettura di
espressioni, l’ingegneria di locuzioni, la composizione di sintagmi, lemmi e
fonemi, l’urto di concetti e idee, pensieri e valori, storie, tragedie e gioie,
sangue, sorrisi e sguardi, non si può scrutinare una narrazione che in ogni suo
passaggio è la manifestazione di un capolavoro assoluto di uno scrittore come Zafón, probabilmente il più grande
romanziere contemporaneo.
“Il labirinto degli spiriti” strapperà al
lettore l’anima.
Fermín è la creatura più
nobile, adorabile e amabile che mente di letterato negli ultimi decenni abbia
creato.
Chi
non leggerà questo incanto in cui tutte, ma proprio tutte, le emozioni saranno
divelte dalla sede dove riposano, compirà un incomprensibile errore: “Ogni libro, ogni volume che vedi, ha
un’anima. L’anima di chi l’ha scritto e l’anima di coloro che lo hanno letto e
hanno vissuto e sognato con lui. Ogni volta che un libro cambia di mano, ogni
volta che qualcuno fa scivolare il suo sguardo sulle sue pagine, il suo spirito
cresce e si rafforza”.
Fabrizio Giulimondi
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