mercoledì 30 gennaio 2013

"BATMAN & JOKER, VOLTI E MASCHERE DELL'AMERICA" DI GIUSEPPE SACCO


“Batman & Joker, volti e maschere dell’America”, saggio di Giuseppe Sacco (Sankara editore), ossia come riuscire a fare politologia e sociologia attraverso Batman, uno dei più noti personaggi dei fumetti, reso ancor più celebre dal cinema, oltre che per mezzo del  suo più acerrimo nemico, il cattivissimo Joker.
Batman, a differenza del suo predecessore Supeman e dei suoi discendenti della Marvel (i Fantastici Quattro, Spider man, Thor, Devil, Capitan America, Iron Man), non è ascrivibile all’interno dei supereroi possessori di poteri ultra umani, ma combatte il Male con avveniristica tecnologia e astuzia, nascondendosi agli occhi umani con la famosa maschera da  pipistrello.
L’Autore (giornalista e professore ordinario di Relazioni Internazionali) esamina i fumetti e, ancor di più, le sette opere cinematografiche che hanno raccontato dal 1989 al 2012  le gesta dell’uomo- pipistrello, funestate nella  proiezione della “prima” de  “Il cavaliere oscuro” (settimo e ultimo film)  dalla strage il 20 luglio 2012 di dodici ragazzi e cinquantotto feriti per mano  di un pazzo, che ha sparato sulla folla che  entrava in una sala cinematografica del Colorado.  L’esame delle figure di Batman e Joker è minuzioso e dettagliato  e ne vengono vagliate  ogni piega caratteriale e psicologica, persino sotto una visuale di ordine sociale, politico e culturale.
Sullo sfondo v’è la versione gotica di New York, Gotham, espressione urbanistica e architettonica della oscurità, della perdizione, della violenza e della cattiveria, dove la speranza, nonostante le straordinarie  azioni del nostro eroe, sembra non intravedersi.
“Tutta la vicenda dell’uomo-pipistrello nasce dal profondo della società americana; le sue storie vengono create e sviluppate ad opera di vari scrittori e disegnatori di fumetti che progressivamente le accrescono di personaggi, di dettagli, di rimescolamenti e di varianti, come a disegnare un nuovo e specifico Pantheon, ed una mitologia in cui l’uomo americano, the common man, che vive nella società di massa può provare esempi e parametri di comportamento.”
“ Joker…..non è un assassino assetato di sangue, non è un sadico che gode nell’uccidere. E’ solo un narcisista indifferente alla vita umana. E la sua ambizione politica non si associa a nessuna visione di una società differente, come accade per altri antagonisti di Batman…la sua è solo una avventura personale di potere; l’unica ascesa concepibile in una società, quella rappresentata da Gotham, in piena decadenza, dove ‘ il denaro ha dichiarato guerra a tutti’.”
Le diverse sfaccettature di Batman nelle sette differenti rappresentazioni sul grande schermo, interpretate grandi attori sotto la direzioni di altrettanti famosi registi, unitamente a quelle di Joker  -  che non compare,  con la disperazione di molti suoi fan, nell’ultimo The Dark Knight Rises - ripercorrono la storia economica, finanziaria, istituzionale ed elettorale degli Stati Uniti dalla Grande Crisi del ‘29 ai giorni nostri (2012)
Il connubio fra comics, produzioni di azione e avventura, politica, sociologia e psicologia  può risultare, per i sofisticati e curiosi  amanti del genere,  un mixage interessante.

Fabrizio Giulimondi

lunedì 28 gennaio 2013

"LINCOLN" DI STEVEN SPIELBERG


 
E’ giunto il tempo di recensire il quarantaquattresimo lavoro del più grande regista di tutti i tempi, il gigante del cinema mondiale Steven Spielberg.
Lo statunitense Spielberg in veste di registra (44 film), sceneggiatore (12 film) e produttore (72 film) ha realizzato in maniera potente opere che hanno attraversato qualunque genere cinematografico, dalla fantascienza, all’horror, all’avventura, al drammatico, ai comics, allo storico, alla commedia e alla fiction.
Le serie da lui dirette sul piccolo schermo hanno trionfato a livello planetario: basti pensare a Colombo ed a  E R medici in prima linea.
I suoi film sono fra i più visti al mondo e pellicole come ET l’extraterrestre, Lo squalo, Incontri ravvicinati del terzo tipo, Jurassic Park, Amistad, Schindler’s list, Salvate il soldato Ryan, Il colore viola, Poltergeist - demoniache presenze, Il principe d’Egitto, la saga di Indiana Jones sono senza discussione alcuna all’interno delle venti più viste fra tutte quelle prodotte dalla invenzione del  cinematografo ad oggi.
Steven Spielberg è vincitore di numerosi e prestigiosi premi internazionali a partire dalla plurima assegnazione di Oscar, a dodici dei quali (nomination) Lincoln è candidato.
L’opera in commento, nelle due ore e trenta minuti di narrazione tinte di grigio-scuro, ripercorre in maniera minuziosa, dettagliata e didascalica il secondo mandato presidenziale del sedicesimo Presidente degli Stati Uniti d’America e primo appartenente al Partito Repubblicano, Abraham Lincoln, nato il 12 febbraio 1809 e morto assassinato il 15 aprile 1865, unitamente all’ultimo periodo della guerra di secessione (detta anche guerra civile americana), dichiarata  il 12 aprile 1861 e terminata il 9 aprile 1865.
Il conflitto si determinò  ad opera degli  unionisti (gli Stati del Nord, ad elevata industrializzazione,  favorevoli alla abolizione della schiavitù delle popolazioni nere africane) avverso gli undici Stati del Sud (Stati Confederati d’America, prevalentemente agricoli, dediti allo schiavismo) che avevano dichiarato la propria secessione dai primi in risposta alla elezione di Lincoln come Presidente degli Stati Uniti d’America. 
Invero, questo film potremmo ritenerlo correttamente  il seguito di Amistad, girato  nel 1997, che ne anticipa il contenuto nella arringa che Anthony Hopkins  - interprete di John Quincy Adams, avvocato del gruppo di schiavi ammutinati sulla nave Amistad dopo vessazioni, violenze e ignominie di ogni tipo -  tiene innanzi la Corte Suprema degli Stati Uniti: “Se il prezzo da pagare per l’abolizione della schiavitù sarà una nuova guerra civile, ebbene che venga! Sarà l’ultima guerra della rivoluzione americana! Altrimenti possiamo prendere la nostra dichiarazione dei diritti e…” e strappa lentamente e vistosamente le carte che aveva in mano.   
Lo stesso avvio del film Lincoln  fatto di ferro,  fuoco e  sangue, ritraente  una delle tante battaglie della guerra civile americana, che contò 600.000 vittime, rimanda alle terrifiche scene iniziali di Salvate il soldato Ryan,  la cui  estrema  crudezza e realità impegnano lo spettatore per circa venti minuti nella mirabile riproduzione del D Day dello sbarco il Normandia il  6 giugno 1944.
Le linee direttrici di “Lincoln” richiamano alla memoria  anche Il colore viola sul tema dell’apartheid in Sudafrica e la possanza delle immagini senza precedenti di  Schindler’s  list sulla shoah.
Il film si concentra segnatamente  sullo sforzo – poi riuscito – di Lincoln di far approvare alla Camera dei Rappresentanti il XIII emendamento alla Costituzione, teso alla abolizione definitiva della schiavitù su tutto il territorio nazionale. Il tentativo è quello di farlo votare prima che si concluda la guerra, che stava volgendo chiaramente a favore degli Stati unionisti.
Spielberg fa comprendere all’attento spettatore le ragioni: in Lincoln v’era il fondato timore  che una volta vinta la guerra, cessasse la tensione morale sottesa ad essa, con il conseguente rischio che l’iter legislativo di approvazione della disposizione di abrogazione della riduzione in schiavitù si impantanasse, attesa anche la necessità di imporre una  normativa abolizionista, già esaminata positivamente dal Congresso,  agli sconfitti Paesi schiavisti del Sud.
L’obiettivo è arduo e Lincoln dimostra di essere un politico abile che non bada ad utilizzare  qualsivoglia mezzo – incluso la offerta di prebende e prestigiosi incarichi  pubblici – pur di portare  su tesi abolizioniste alcuni riottosi deputati del suo partito e parte dei democratici,  favorevoli in realtà  al mantenimento, seppur  in forma più umana, della schiavitù. Il risultato da attingere ad ogni costo è la maggioranza dei due terzi dei componenti della House of Representatives: tutti i membri del gruppo parlamentare dei repubblicani ed alcuni di quello democratico debbono pronunziare il fatidico al momento della votazione della modifica costituzionale.
Il Senato aveva già approvato  l'emendamento aggiuntivo alla Costituzione (XIII emendamento) l'8 aprile 1864, con 36 voti a favore e 6 contrari. Però,  una volta che il suo scrutinio  passò all’altro ramo del Congresso, sorsero  i problemi, con il suo respingimento da parte dell’Aula.
Solamente a seguito della sua riproposizione, sotto l’attenta supervisione del Presidente Lincoln e l’utilizzo da parte di questi dei cennati trucchetti e arguzie,  il 31 gennaio 1865, dopo  una battaglia infuocata con momenti di alta tensione fra appartenenti alle  wright e left wings e in seno, persino,  alle  medesime,  la Camera approvò il testo  con 119 voti a favore e 56 contrari: la schiavitù era definitivamente abolita!
Manca però un ultimo passaggio: la  ratifica del testo da parte degli Stati.
Con apparente pacatezza e visibile determinazione Lincoln - mirabilmente incarnato da Daniel Day-Lewis,  che ne esprime anche nelle pieghe più intime le  profonde concezioni umane e cristiane, sino a far sentire alla platea l’amore che il popolo americano nutriva per lui  -  nel ricevere la delegazione degli Sati secessionisti del Sud che vengono a trattare la resa, fa capire loro senza giri di parole che la Storia si è compiuta e l’umanità non può tornare più indietro: capitolazione immediata degli eserciti sudisti e repentina riammissione a pieno titolo nel tessuto ordinamentale degli Stati Uniti d’America di quelli  secessionisti,  previa ineludibile  accettazione della abolizione della schiavitù e, pertanto, promovimento della ratifica della proposta emendativa da parte anche  dei loro governi territoriali.
Il  Segretario  di  Stato William H. Seward formalizzò l'avvenuta ratifica il 18 dicembre 1865 del XIII emendamento che recita in siffatta maniera: ” Sezione I: La schiavitù o altra forma di costrizione personale non potranno essere ammesse negli Stati Uniti, o in luogo alcuno soggetto alla loro giurisdizione, se non come punizione di un reato per il quale l'imputato sia stato dichiarato colpevole con la dovuta procedura.
Sezione II: II Congresso ha facoltà di porre in essere la legislazione opportuna per dare esecuzione a questo Articolo
Verso la conclusione della proiezione, durante la commossa lettura di queste poche ma copernicane righe, mi sono riecheggiate  le parole di Abraham Lincoln  e di Martin Luther King.
«…..Or sono sedici lustri e sette anni che i nostri avi costruirono su questo continente una nuova nazione, concepita nella Libertà e votata al principio che tutti gli uomini sono creati uguali. Adesso noi siamo impegnati in una grande guerra civile, la quale proverà se quella nazione, o ogni altra nazione, così concepita e così votata, possa a lungo perdurare”…. e ancora Lincoln, sempre il 19 novembre 1863,  alla cerimonia di inaugurazione del cimitero militare di Gettysburg (oggi il  Gettysburg National Cemetary):“… che noi qui solennemente si prometta che questi morti non sono morti invano; che questa nazione, guidata da Dio, abbia una rinascita di libertà; e che l’idea di un governo di popolo, dal popolo, per il popolo, non abbia a perire dalla terra. 
E potente è l’invocazione che il reverendo  Marthin Luther King il 28 dicembre 1963 lanciò durante la marcia per il lavoro e la libertà davanti al Lincoln Memorial di Washington: “….E quando lasciamo risuonare la libertà, quando le permettiamo di risuonare da ogni villaggio e da ogni borgo, da ogni stato e da ogni città, acceleriamo anche quel giorno in cui tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, cattolici e protestanti, sapranno unire le mani e cantare con le parole del vecchio spiritual: ‘Liberi finalmente, liberi finalmente, grazie Dio Onnipotente, siamo liberi finalmente!’.”.

Fabrizio Giulimondi







venerdì 25 gennaio 2013

CARMINE ABATE:"LA FESTA DEL RITORNO"


Carmine Abate, vincitore del premio Campiello 2012 con ”La collina del vento”, nel 2004 ha scritto “La festa del ritorno” (Oscar Mondadori), novella amarcord di sapore felliniano, fra italiano, dialetto calabrese e lingua arbereshe (idioma albanese diffuso in alcune zone del Meridione), parla  di ricordi, di nostalgiche descrizioni di paesaggi e boschi calabresi, di profumi e sapori dimenticati di quelle Terre.
Come ne La Collina del vento, vengono  raccontate  la vita di una umile famiglia di campagna e le vicissitudini del pater familias emigrante in Francia, con il cuore sempre vicino a quello della moglie - che passa il tempo  ai fornelli per preparare le prelibatezze che il marito dovrà gustare al suo ritorno -   e dei tre figli -   che attendono spasmodicamente di rivedere il  padre ogni Natale - .
Il  Natale è la festa della unità familiare e delle tradizioni: “ La sera della Vigilia, dice l’emigrato ai famigliari lontani in una canzone popolare, a tavola mettete il piatto mio” (Marcello Veneziani,  “Dio, Patria e Famiglia”).
E’ qui che l’Autore tocca corde vibranti di toccante commozione e raggiunge elevati livelli  emozionali.
Vi sembrerà di sentire sulla Vostra pelle il calore del grande fuoco che viene acceso la notte del 24 dicembre dinanzi la Chiesa del paese, in attesa della messa di mezzanotte e dello stupore che susciterà il  presepe vivente.
Anche Voi siederete  intorno al fuoco insieme al resto della Comunità, che nello  scambiarsi gli auguri dirà a se stessa: “la lontananza non ci ha separato!”.

Fabrizio Giulimondi.

mercoledì 23 gennaio 2013

FABRIZIO GIULIMONDI:INAUGURAZIONE ANNO ACCADEMICO 2013

inaugurazione anno accademico 2012/2013



24 GENNAIO 2013: INAUGURAZIONE DELL'ANNO ACCADEMICO 2013 DELLA UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI CHIETI-PESCARA "GABRIELE d'ANNUNZIO"

prof. Fabrizio Giulimondi

martedì 22 gennaio 2013

RAUL MONTANARI:"IL TEMPO DELL'INNOCENZA"


Il tempo dell'innocenza di Raul Montanari (Delai editore) ha un incipit ad alta tensione, con una spruzzata di autentica paura che si sprigiona nei lettori nelle prime cinquanta pagine, per poi diluirsi in suspance e attesa degli eventi, come quei film dell’orrore che con lunghe carrellate di corridoi fanno stare in trepidazione lo spettatore, spaventato da quello che lo aspetta al voltar dell’angolo.
Montanari è il padre del genere post noir, ossia il giallo a tinte thriller senza detective né  indagini accurate, arricchito in questo romanzo dalla presenza di elementi magici.
La storia si dipana fra Milano, Bergamo e il lago d’Iseo e vede tre ragazzi, Damiano, Ivan e Ermanno, coinvolti da un presagio di Regine, la madre di quest’ultimo, le cui doti divinatorie le mostrano un terribile futuro per il figlio e conseguenze dirompenti per le esistenze degli altri due, oltre delle intriganti figure, soprattutto femminili, che roteano intorno a loro.
La strega adopera le rune (in lingua gotica: cose segrete) per predire gli accadimenti, ossia  ventiquattro segni dell’alfabeto, più uno che non porta alcun  simbolo,  di origine vichinga, teutonica e celtica, indicati con i nomi di antiche divinità nordeuropee.
Avvincente e misterioso “Il tempo dell’innocenza”  prende completamente il lettore, che   si divora in poche ore le pagine fino all’inatteso finale.
Spiace la nota stonata – tra l’altro non consentanea alla natura e al contenuto stesso del lavoro in commento -  causata da vetero pregiudizi politico-laicisti che talora si palesa fra le righe del libro, per colpa della quale compare inspiegabilmente e spregiativamente il nome di Berlusconi in una bella descrizione di stile manzoniano del lago d’Iseo; vengono assegnati nella trama  i ruoli più infamanti  a coloro che l’Autore dipinge con tratti inevitabilmente riconducibili all’area destroide; e, sono inseriti i sacerdoti – tutti o quasi -  fra coloro che solitamente berciano con il potente di turno.
Peccato tanta miopia in un racconto che merita di essere senz’altro letto!

Fabrizio Giulimondi

domenica 20 gennaio 2013

"STONER" DI JOHN WILLIAMS


Stoner
Stoner dello scrittore texano John Williams (Fazi editore) è un libro bello e struggente, molto bello e molto struggente.

E’ un romanzo intimistico e introspettivo, ambientato nella prima metà del ‘900 a Columbia, capitale del South Caroline.

E’ un capolavoro dalle splendide descrizioni, attente e minuziose, delle persone, delle loro movenze e del loro mondo interiore, degli oggetti e dei luoghi.

E’ l’opera letteraria la cui ossatura è la tristezza, la lirica della tristezza.

William Stoner, contadino da fanciullo, studioso di letteratura anglo-americana da ragazzo e, poi, per quarata anni, immutabile ricercatore presso l’università, è avviluppato dalla tristezza. Neanche la sua passione per i libri fuoriesce nelle sue aride lezioni,  costellate da parole dure come pietre (pietra in inglese stone, non un caso il cognome Stoner), pronunziate durante le pedanti spiegazioni.

Stoner è martirizzato nella vita privata dalla moglie Edith, figura tragica, costantemente in bilico fra fragilità caratteriale e patologia psichica e, nella vita professionale, dal direttore del suo dipartimento accademico, le cui angherie punteggiano tutta la storia.

La figlia Grace, così amata dal protagonista ma da lui medesimo in realtà abbandonata a sé stessa, scivolerà lentamente ma inesorabilmente verso l’alcolismo.

Stoner conoscerà uno sprazzo di felicità con l’amante Katherine, giovane neo laureata che muove i primi passi lavorativi nel campo dell’insegnamento presso l’ateneo di Columbia: “ Siamo stati felici, vero?....”Eravamo felici, più felici di chiunque altro. Fino all’inevitabile futuro….e contemplò con incommensurabile tristezza quel loro ultimo sforzo di sorridere che assomigliava alla danza della vita su un corpo morto.”

Alla gioia è concesso poco tempo e la tristezza e il dramma prenderà fatalmente e definitivamente possesso del racconto, fino alla morte di Stoner: le parole da egli spese nel parlare degli  ultimi  istanti della sua esistenza  sono di rara e commovente bellezza.

Peter Cameron nella postfazione afferma: ”E la verità è che si possono scrivere dei pessimi romanzi su delle vite emozionanti e che la vita più silenziosa, se esaminata con affetto, compassione e grande cura, può fruttare una straordinaria messe letteraria. E’ il caso che abbiamo davanti.”.

Ultime due  annotazioni.

L’uso dei vocaboli è affascinante: l’Autore ama molto il verbo baluginare e l’aggettivo feroce, reiteratamente adoperati nel corso della scrittura, al pari dell’utilizzo di espressioni configurate in lingua italiana dalla fusione  di più parole inglesi, come l’italica bovindo, ossia la finestra a loggia sporgente, conseguente alla traduzione della combinazione dei termini anglosassoni bow e window.

Accattivanti i richiami alle vicende storiche che coinvolsero gli Stati Uniti durante la prima e seconda guerra mondiale, oltre i riferimenti approfonditi e puntuali alla letteratura britannica e nordamericana.

Fabrizio Giulimondi.

sabato 19 gennaio 2013

"MAI STATI UNITI" DI CARLO VANZINA




Mai Stati Uniti di Carlo Vanzina, con facce note del cinema italiano come Ricky Menphis, Ambra Angiolini, Vincenzo Salemme e Maurizio Mattioli, fa passare una ora e mezza senza pensieri  alle famiglie (a parte il solito condimento di male parole).
I cinque protagonisti, tre uomini e due donne, che sconoscono l’uno l’esistenza dell’altro, sono convocati da un notaio - un po’ mariuolo – che rivela loro di essere fratelli dal lato del padre, morto e le cui ceneri sono dentro un’urna: se questa sarà portata in uno specifico  posto del Grand Canyon per essere svuotata nelle acque di un fiume, riceveranno ciascuno di essi una ingente somma di denaro a titolo di eredità.
Nel solco della  tradizione della commedia all’italiana, con una punta di sentimentalismo e molte gheg con  conseguenti risate di gusto, “Mai Stati Uniti vale il costo del biglietto.
Colonna sonora country non male.

Fabrizio Giulimondi