Non è affatto facile commentare un romanzo storico come “Avevano spento anche la Luna ” della scrittrice
lituana Ruta Sepetys (Garzanti), che
alla sua ottava edizione fortunatamente continua a riscuotere portentoso
successo fra il pubblico.
Non è per nulla agevole perché quando si parla di uno dei tanti stermini
che il comunismo ha compiuto nel mondo; quando si affronta la storia di popoli
deportati solo perché si rifiutano di assoggettarsi al dominatore russo; quando
si ricordano famiglie cancellate in quanto non allineate in ogni pertugio
all’ideologia marxista; quando l’attenzione va a individui orribilmente
destrutturati sino alla peggiore eliminazione fisica e mentale, solo per la
loro appartenenza a categorie professionali disprezzate da Josif Stalin,
scrivere, valutare, recensire, analizzare, scrutare, viene avvolto tutto in una
nube tossica di rabbia, di inquietudine e di impotenza, che offusca l’azione
intellettiva di chi approccia il testo, il quale si pone una semplice domanda:
perché nelle scuole italiane (e non solo) di queste vicende, di fatti che hanno
coinvolto decine di milioni di essere umani, non si parla o se ne parla poco e
in modo superficiale?
Dei milioni di morti, di torturati nel corpo e nell’anima, di
deportati mutilati anche dei più
minimali diritti ad opera dei seguaci della falcia
e martello, vi sono unicamente sparute reminiscenze nei libri scolastici.
Nel 1940 l’Unione Sovietica occupò gli Stati baltici di Lituania,
Lettonia ed Estonia. Di li a breve il Cremlino emanò elenchi di persone
considerate antisovietiche che sarebbero state uccise, imprigionate o deportate
in schiavitù in Siberia. Medici, insegnati, avvocati, membri dell’esercito,
scrittori, imprenditori, musicisti, artisti e persino bibliotecari, tutti erano
considerati antisovietici e vennero aggiunti alla lista sempre più lunga di
coloro destinati allo sterminio di massa.
Le prime deportazioni ebbero luogo il 14 giugno 1941.
Quel giorno, fra le decine di migliaia di uomini e donne, ragazzi e
bambini, prelevati dalla polizia segreta politica N.K.V.D. (poi diventato il
famigerato K.G.B.), v’è Lina Vilkas con sua madre Elena e il fratello Jonas. Il
padre Konstas è già scomparso fra i dedali dell’inferno rosso. Konstas, marito
gioviale di Elena e affettuoso padre di Lina e Jonas, ha una colpa
imperdonabile sanzionabile con il dolore e la morte: è il rettore della
università!
Inizia il “viaggio”.
Durerà sei settimane.
Sarà fatto su un treno generalmente adoperato per il trasporto dei
maiali.
Nei vagoni saranno stipati centinaia di disperati che dormiranno dove
defecano, urinano, vomitano, si nutrono (si nutrono?), bevono (bevono?),
muoiono.
Fra i criminali, più precisamente ladri e prostitute – questa è la dicitura riportata
sulle lamiere esterne del treno - v’è
anche un neonato strappato alla madre appena reciso il cordone ombelicale: perirà
maciullato fra i binari dove è stato gettato in corso dal buco della latrina.
I “porci” i “fascisti” compiono un viaggio allucinante per sei
settimane, al cui termine giungeranno in un luogo che crederanno l’inferno, non
conoscendo ancora la Geenna vera, la meta finale: la Siberia. È li che Lina
condurrà dodici anni della sua esistenza. La condanna penale inferta da un
tribunale del popolo è di venticinque, per essere stata concepita da Constas
Vilkas, delinquente per il regime russo per ricoprire il ruolo rettore della
università.
Le temperature ricordano quelle descritte in Centomile gavette di ghiaccio di Giulio Bedeschi. L’incubo vissuto
dai personaggi – tutti egualmente potenti, senza distinzione di importanza e
presenza nella trama, dal Calvo, all’Uomo che caricava gli orologi, all’Uomo dai capelli grigi, alla Bambina con la bambola, alla Scorbutica – richiama alla mente subitaneamente quello vissuto in Arcipelago Gulag da Aleksandr
Solzenicyn. Lina: “ …Dissenteria, tifo e
scorbuto si diffonderanno nel campo. I pidocchi banchettavano sulle nostre
piaghe aperte “.
I detenuti vivevano nelle yurte da loro stessi costruite con le nude
mani su una lastra di pietre e ghiaccio con pezzi di tronchi, fango, sabbia e
muschio, e il luogo del massacro era l’Artide, ai confini del Polo Nord, mentre
le guardie rosse vivevano al caldo ben nutrite, fisicamente pronte ad impartire
ai prigionieri la quotidiana dose di sevizie e umiliazioni.
Ma il comunismo nella sua ferocia non è riuscito a togliere la fede e
l’amore a quelle popolazioni. E il Natale, nonostante loro, sarà nascostamente
festeggiato, lodando il bambino Gesù di essere ancora lì, ancora vivi, ancora
uniti.
Lina è una artista, disegna abilmente con le mani aggraziate di una
ragazza di quindici anni. Userà pezzi di
carta su cui imprimerà figure e immagini, grazie alle quali vorrà fare sapere
cosa è diventata la sua vita e da chi e cosa è circondata. I disegni saranno
adoperati come messaggi, un po’ come
nella fiaba di Pollicino, passandoli
all’insaputa dei carnefici, a chiunque incontri, in modo che di mano in mano
possano arrivare al padre, per fargli sapere che sono ancora vivi, per
chiedergli di sbrigarsi a tornare da loro per liberale, perché il padre aveva
il difetto di essere in ritardo. Invia nell’ombra queste rappresentazioni
grafiche al papà che non si sa dove sia,
non si sa se sia ancora vivo.
In quella assoluta e tenebrosa assenza di umanità, in quel concentrato
di odio e di violenza, v’è uno sprazzo di umanità, nel medico che arriva
inaspettato nel gulag, inviato da una giovane appartenente all’Armata Rossa, la
cui coscienza riesce a bucare lo strato cementificato dell’indottrinamento
ideologico del socialismo reale.
La giornaliera angoscia dove non sussiste alcun barlume di luce è
descritta straordinariamente dalla Autrice e dai suoi personaggi (di cui il
medico è l’unico realmente esistito, mentre gli altri simbolicamente esprimono
i venti milioni di deportati e ammazzati dal regime comunista sovietico negli
anni dell’impero stalinista) con il Salmo 102 della Bibbia, che, fra l’altro,
recita: “i miei giorni declinano come ombre e io come
erba inaridisco”. E ancora Lina, amante dell’arte del pittore
norvegese Edward Munch, in un passo
dell’opera, esclama: “Munch è
principalmente un poeta lirico del colore. Lui sente i colori, ma non li vede.
Invece vede il dolore, il pianto e l’inaridimento.”. Dolore, pianto,
inaridimento: il gulag, il campo di
concentramento, le eliminazioni di massa di tutti quelli che non sottostanno
all’U.RS.S., che osavano non essere russi, che si ribellavano alla dittatura
totalitaria comunista, totalitaria come il nazionalsocialismo, con cui Stalin
aveva fatto il patto di non aggressione nel 1939 (c.d. “Patto segreto Molotov –
Ribbentrop”).
Nonostante il buio più profondo, ove non sussiste alcun lontano
baluginio di bagliore, l’amore nella famiglia, la solidarietà ove tutto manca,
la fede in Dio, non cessa di esistere: ”Al
fine ho imparato che, anche nel profondo dell’inverno, dentro di me regnava
un’indicibile estate” (Albert Camus).
Il contrasto fra presente e passato, orrore demoniaco e il caldo tepore
degli affetti familiari del prima, la netta linea di demarcazione fra nero e
bianco, fra scuro e chiaro, viene posto
in evidenza al termine di molti paragrafi, ove in corsivo viene riportato il
racconto di uno stralcio di vita di “ieri”, agganciato agli eventi, alle
parole, alle espressioni, alle immagini, alle idee, che si rinvengono nella
storia dell’”oggi”.
La truculenta e bieca malvagità di “oggi” si impatta con un momento che
rimanda allo “ieri”, quando Lina e Jonas
vivevano nella loro bella casa con i genitori e il tempo trascorreva placido
fra compiti, studi, disegni, letture, compleanni e normalità, sino
all’affacciarsi del Male Assoluto, sotto la specie visiva del volto di Josif
Stalin, sotto la visuale estetica della Armata Rossa, sotto il rumor di
ferraglia della occupazione che questa compirà delle Nazioni baltiche e della
brutalità della stella rossa nella
abitazione dei Vilkas, da dove la famiglia
verrà strappata ancora in vestaglia, in procinto di andare a letto.
La inesistenza di anima nel gulag
non toglie la capacità di provare affetti a chi la nobiltà ce l’ha dentro: Lina
si innamorerà del giovane Andrius – padre vittima della barbarie del sol dell’avvenire e madre costretta
a prostituirsi per far si che non facciano saltare il cervello al figlio- e, così come la Divina Provvidenza
riunirà Renzo e Lucia, i due ragazzi si ritroveranno.
Struggente il finale: Lina e Andrius lasceranno in seno alla terra nera
pregna del sangue lituano, le loro memorie e i loro disegni, perché il giorno
in cui saranno scoperti, il mondo sappia, racconti, non dimentichi e non
ripeta.
Questo libro va letto perché troppi silenzi, nascondimenti e omertà vi
sono intorno alla ideologia comunista, consentendo ancora uno stravagante alone
romantico di giustizia sociale, quando il marxismo, nelle sue variegate
sfaccettature, versioni e
interpretazioni, ha condotto alla morte
circa C-E-N-T-O M-I-L-I-O-N-I D-I
P-E-R-S-O-N-E, oltre allo svuotamento interiore di intere popolazioni dell’est
europeo e di una consistente porzione dell’Asia, che dal 1991 stanno
affrontando una difficile, travagliata e lunga transizione democratica,
economica, sociale e spirituale.
Questo libro, di straordinaria tragicità, in alcuni suoi passaggi particolarmente
impressionante, deve essere letto per non vedere più in manifestazioni
giovanili sventolare la bandiera rossa con la falce e martello, perché quel
simbolo è menzione di morte, di fame, di sete, di distruzione, di annientamento
di generazioni intere di uomini e donne, ragazzi e ragazze, di umiliazione, di
sofferenza e tortura, di negazione dei più ancestrali diritti di ogni persona,
di cancellazione di Dio.
Ruta Sepetys, dopo una lunga
ricerca attraverso le rimembranze della
propria famiglia, dei suoi parenti, dei suoi amici, ci consegna pagine
memorabili di commozione, lacrime, dolore, rabbia, odio, dolcezza, sentimenti e
resurrezione.
Un terzo di lituani, estoni e lettoni non ci sono più, cancellati nei
gulag: i loro nomi anonimi saranno ricordati ad uno ad uno mentre leggerete Avevano spento anche la Luna …..nella notte polare
delle prigioni siberiane.
“Mi hanno tolto tutto. Mi hanno
lasciato soltanto il buio e il freddo. Ma io voglio vivere. A ogni costo.”.
Fabrizio Giulimondi
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