“Gli occhi di Pitbull sono accecati dall’odio. Non
vedono più.
Io invece incomincio a vedere. Lo vedo adesso il dolore
negli occhi degli altri, persino in quelli del Pitbull vedo quel dolore così
forte e profondo da renderlo un animale. Un dolore antico come quello che mi
porto dentro da sempre anch’io.
Prima non potevo permettermi di vederlo. Ogni volta che
per un attimo si accendeva la luce e intravedevo qualcosa, la vita mi obbligava
a spegnerla. La malavita. Dovevo essere anch’io un animale, per stare in mezzo
agli altri animali. E soffiavo come un disperato su quella dannata fiammella
per continuare a rimanere al buio. Ma ora questa luce rischiara tutto. Mi fa
vedere”
E’ il finale - carico di attesa, attesa che sa di speranza,
speranza che sa di vittoria, vittoria dell’uomo sull’animale, del chiarore
sulle tenebre - del romanzo
autobiografico “Non mi avrete mai” di "Gaetano Di Vaio e Guido Lombardi (Einaudi).
A
differenza dello scuro che permane fino
all’epilogo del lavoro letterario di
Walter Siti “Resistere non serve a niente”,
immeritatamente vincitore del Premio Strega 2013 (e già oggetto di commento in
questa Rubrica), “Non mi avrete mai”
è un inno reale e non simbolico alla
possibilità che ognuno ha di farcela, di
non farsi dominare dal Male, di non cedere all’opzione della violenza e del
crimine che in certi ambienti e in determinate esistenze è costantemente e
imperiosamente presente.
Non mi avrete mai voi della camorra! Non mi avrete mai voi che volete farmi
diventare un assassino e con gli ammazzamenti
e con il sangue volete darmi il benessere!
Gaetano Di Vaio
oggi è un produttore cinematografico indipendente, ma ieri era una specie di
mito della microcriminalità di Piscinola,
nella zona nord di Napoli: uno
spacciatore, un ladro, un rapinatore.
Gaetano di Vaio
racconta la prima parte della sua vita con lucida, drammatica, allucinante
chiarezza, senza reticenze, senza omissioni, senza omertà. La storia è quella
di Giovanni Capone che passa dal basso dove viveva in un monolocale con
altre dodici familiari, alla cella dell’Inferno di Poggioreale, la casa di
reclusione partenopea, dove in uno
spazio di tre metri per cinque ci convivono forzatamente in quindici.
Gaetano Di Vaio - Salvatore
Capone, sposato con Lucia (all’età di quattordici anni) e con un figlio
Antonio, immerge il lettore nell’angosciante e irrespirabile realtà che si vive
all’interno di in Istituto che potrebbe ospitare 800 detenuti e che, invece, ne
accoglie 2.200; dove alcuni agenti di polizia penitenziaria - prigionieri loro stessi di quelle mura- sfogano il loro quotidiano stato di
frustrazione adoperando, come se nulla fosse, ogni genere di violenza contro i detenuti; ove
esiste la stanza zero nella quale i
tossici in crisi di astinenza vendono massacrati con calci e pugni e dove
durante il periodo di isolamento, a cui
gli ospiti sono sottoposti per la più
lieve mancanza, ricevere la visita della squadra
della morte è prassi consolidata.
In questo
permanente orrore vi sono sprazzi di
umanità nel gesto di un agente di
custodia, Annunziata, che porta un gelato a Salvatore Capone mentre si trovava in
isolamento e attendeva la razione giornaliera di manganellate o in Popo, un omone innocente, imputato di
associazione di stampo camorristico a causa di una intercettazione telefonica
erroneamente interpretata dagli organi inquirenti, e poi assolto dopo tre anni di galera ( a Poggioreale!),
che presta libri a Capone e spiegandone
il contenuto gli da una speranza, una chiave
di lettura degli accadimenti, gli fornisce una possibilità di adoperare
il cervello, di mantenere vivo
l’intelletto, di conservare accesa una fiammella che possa tenuamente
baluginare dentro la scatola cranica.
Non mi avrete mai
camorristi! non mi avrete mai assassini! non mi avrete mai! Salvatore Capone –
Gaetano Di Vaio dirà “No!” al capo famiglia di zona e sceglierà un’altra vita,
perché l’uomo ha sempre un’altra scelta, ha sempre, un’altra possibilità, ha
sempre un altro percorso da poter intraprendere.
Mentre vi
incuneerete per i corridoi, le latrine, i bagni, le docce, le celle e gli
uffici mostruosi e danteschi di Poggioreale, mentre seguirete le gesta trasudanti turpitudine fra strada, galera e
San Patrignano di Salvatore Capone, e sentirete
l’assenza di umanità dei suoi compari, distrutti dalla droga e annientati dal
delitto, galleggiando fra disposizioni di diritto penitenziario e regole
“non scritte” che si impongono fra guardie e galeotti, fra espressioni
gergali dialettali (che abbisognerebbero di note esplicative a piè di pagina) e
slang penitenziario e delinquenziale,
sarete accompagnati come colonna sonora dai brani di Nino D’Angelo, innanzi i
Vostri occhi passeranno le scene del film di Nanni Loy Detenuto in attesa di giudizio con Alberto Sordi. Ad un certo punto Vi sembrerà di ascoltare la canzone Pensa di Fabrizio Moro, mentre il Vostro
ricordo sarà intasato dalle centinaia di scritti su Enzo Tortora e sulla
sua detenzione da innocente a Poggioreale, come Poppo.
Un’ ultima
annotazione: splendida la descrizione della notte insonne di Salvatore Capone,
che deve decidere se mandare una lettera di richiesta di aiuto per la moglie
che si stava facendo la fame all’amico
camorrista – il che voleva significare consegnarsi all’uscita di prigione mani
a piedi a lui – oppure al capitano
Onofri per chiedere di ottenere un lavoro intra
moenia, per poter così mantenere la famiglia con la paga che avrebbe
ricevuto.
La notte ricorda quella manzoniana dell’Innominato nei Promessi Sposi.
Alla fine sceglierà
il lavoro, onesto, che rende dignitosa la vita anche di un uomo per lungo tempo in vinculis, lo sottrae all'abbrutimento, alla umiliazione, alla promiscuità animalesca, riconoscendo in tal maniera un senso alla giornata, allo svegliarsi la
mattina e all'andare a letto la sera.
Farà lo scrivano -
lettere e lo scrivano - spesa…….e poi Salvatore Capone, in arte Gaetano Di Vaio, andrà a dormire “perché aveva sonno”.
Fabrizio Giulimondi
Caro Fabrizio, cari Amici lettori del Blog,
RispondiEliminanon ho potuto che leggere con grande interesse questa recensione, sia per come è sapientemente scritta sia perché tratta un tema molto vicino ai miei studi e al lavoro che svolgo quotidianamente.
Credo che questo romanzo affronti due grandi temi della e nella nostra società: la scelta tra una vita disonesta e certamente più comoda e fruttifera e una vita onesta, guidata dai sani principi che, però, costa molta più fatica e spesso è molto meno vantaggiosa economicamente della prima.
Penso a ciò che uno dei miei docenti di Criminologia ci disse parlando della grande scommessa di noi operatori verso la criminalità minorile, egli diceva: “Lavorare sul campo affinchè i minori autori di reato capiscano, comprendano che è meglio guadagnare 800 euro in un mese con un lavoro onesto, piuttosto che guadagnarne 1000 al giorno soltanto per fare da “cavalli bianchi” (portare le sostanze stupefacenti da uno spacciatore all’altro).
E’ la scelta tra il buio e una luce, anche piccola. Ma luce.
L’altro tema che credo affronti il romanzo è quello delle condizioni delle nostre carceri. Condizioni che abbrutirebbero anche un ‘angelo sceso in terra’; la civiltà, il rispetto, l’ordine chiamano e producono altrettanti valori. E’ questo il punto più importante. La detenzione in sé per sé è la Pena in quanto privazione della libertà, tutto il resto è solo ignorare che siamo esseri umani, non bestie.
Infine, a proposito del rapporto tra “guardie e galeotti”, vorrei menzionarvi l’esperimento che negli anni ’70 il Prof. Zimbardo dell’Università di Standford fece nelle aule sotterranee della stessa Università con la collaborazione di studenti volontari.
Simulò un carcere con all’interno detenuti e guardie penitenziarie, ruoli interpretati dagli studenti. Già dopo qualche giorno osservò che chi aveva il ruolo di guardia iniziò ad assumere autenticamente comportamenti violenti e sadici, mentre chi aveva il ruolo di recluso diventava sempre più impaurito, sottomesso e rabbioso. Tali reazioni divennero talmente eclatanti da indurre Zimbardo – anche su richiesta dei suoi studenti “interpreti” – ad interrompere l’esperimento molto prima di quanto previsto.
Tutto ciò per dire che la vita spesso ci pone davanti ad un bivio: lasciarci andare alla brutalità, alla violenza, alla forza del male o scegliere di redimerci ogni giorno scegliendo il sorriso, il lavoro serio, il costruire le cose, l’amore per la vita.
E’ un dilemma, questo, perenne, poiché quella “bestialità” da noi tanto temuta ed allontanata esiste in ognuno di noi e contrastarla è l’atto più coraggioso e faticoso del nostro cammino verso la Civiltà ed il Rispetto verso l’Altro.
Fiora Fornaciari, psicologa