La terra, la bellezza, l’amore, tutto
questo ha sapore di pane. Paolo Neruda è così che parla del pane
e Carmine Abate, con la pietra preziosa
finemente intagliata, piccola opera d’arte, “Il bacio del pane” (Mondadori), ci racconta che i “sogni vanno coltivati con caparbietà quando
sono dei germogli, altrimenti muoiono subito, non diventano mai piante robuste,
non cambiano la vita, né a te né agli altri”; ci descrive il Giglietto: “quell’aria brulicante di fruscii, suoni di
campanacci, cori di cicale, battiti d’ali, echi misteriosi….ruderi di mulino
fra i fitti cespugli di oleandro…l’aria satura di umori pungenti”; ritorna a Spillace e alla sua Terra calabrese
- come negli splendidi La festa del Ritorno e La collina del Vento (vincitore del
Premio Campiello 2012) - ove in una
struggente malinconia si intravede un presagio di speranza; ci fa sognare amori
adolescenziali belli e sanizzi, che odorano di quelle estati dove alla calura si
fugge con un bagno nelle acque gelide di una fiumara; ci disvela storie di amicizia e del coraggio di un uomo inselvatichito che sfida
la mafia e rende giustizia al fratello assassinato e alle tante infamie
fatte dagli ‘ndranghetisti.
Questo
romanzo sa di pietanze antiche perse in ricordi lontani e pane fresco lievitato per ore all’aria aperta
di campagna, condito di amore familiare e coniugale, di tradizione e allegria
estiva e mestizia invernale.
In
questo racconto v’è una rara musicalità delle parole, armoniose, sinfoniche, liriche, guizzanti come pesci argentei nel mare. E’ letteratura. E’ sonorità. E’
bellezza pura, profonda, che rapisce il lettore: il tempo della lettura diventa
tempo dell’anima e la realtà, per un po’, solo per un po’, si dissolve.
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