L’ultima
opera di Marcello Veneziani “Tramonti.Un mondo finisce e un altro non inizia” (Giubilei Regnani) deve essere letta. Punto. Anzi, deve essere
studiata. Andrebbe inserita fra i libri di testo nei corsi liceali e
universitari di filosofia e politologia. È un libro sulla Umanità, per l’Umanità
e aperto all’ Umanità.
È una
lunga, attenta, colta ed ironica disamina che va dal comunismo al politicamente
corretto al globaritarismo, passando per il permanente disprezzo etnico ed
antropologico per tutti coloro che non si assiepano intorno ai nuovi dogmi,
destinatari di un razzismo etico con i suoi sacerdoti, le sue vestali, i suoi
peccati laici e le sue sanzioni, sino alla emarginazione e alla morte civile.
“Nel politicamente corretto la realtà dei
fatti non conta più, contano le parole usate. Fallita la rivoluzione che
avrebbe capovolto la realtà, non resta che rovesciare il lessico, capovolgere
il senso delle parole o sostituire una parola con un’altra”.
È un
lavoro che turba e una volta finito di leggere lascia un senso di agitazione. Non
è facile, direi piuttosto che è molto raro, abbinare genio linguistico e coraggiosa
profondità di idee, che scavano dentro e che non permettono più al vuoto
lessicale e ideale di dominare incontrastato: il “nientismo” si vede aggredito
e sente di perdere posizioni e recalcitrante si agita convulsamente dentro il
beato assopimento dell’animo.
Da una
parte v’è la neo-lingua che riduce ad
unitatem il sistema, destrutturando arbitrariamente idee, concetti,
pensieri e la dimensione esterna da essi richiamata, senza sostituir loro con altro
costrutto. Non è una destrutturazione cubista, astrattista, surrealista o
simbolista che sostituisce l’idea di una cosa alla cosa stessa, ma un
programmatico annientamento della realtà con nulla sostituita; dall’altra vi
sono neologismi che, rafforzati dalla bellezza estetica stilistica, evocano
pensieri dirompenti, verità che giungono fisicamente nell’intelletto
permeandolo di un denso strato di meditazione che difficilmente lascia il lettore
una volta chiuso il libro. I neologismi di Veneziani
danno corpo a concetti metafisici che avrebbero bisogno di una dissertazione a
parte: la disintegrazione neolinguistica da una parte e la configurazione di
una visione della vita e del mondo accennata e, talvolta, invocata, dall’altra.
Plessi di vocaboli anche teatralmente in contrasto fra di loro che, uniti alla
sonorità, inducono il lettore a riflessioni – forse mai prima congeniate o
semplicemente sopite - a cui non si era
ancora accostato.
Ci si
sente protetti, rassicurati, rincuorati dalla neo - lingua perché edulcora la
realtà, la rende più approcciabile, più gestibile, più tranquillizzante. Il
politicamente corretto rasserena deresponsabilizzando. Le parole che
rispecchiano il vero mondo è obbligatorio porle in soffitta. La realtà è
urticante e pungente e per questo meglio prima dileggiarla per poi accantonarla.
L’imperativo categorico kantiano riveduto e corretto richiede l’archiviazione nottetempo
in cantina di parole non più rispondenti ad una dimensione certamente inesistente,
ma che ha parimenti il compito di sostituirsi a ciò che è autentico; in seguito,
con calma, si provvederà a gettare tutto nella pattumiera: “Il politacally correct, il gergo della
finzione che copre la verità per tutelare alcune categorie, espelle parole vere
ma crude, inserisce parole cotte ma false. Il rococò del parlar falso si spinge
fino a considerare reati alcune opinioni ‘scorrette’ ”.
La
nuova epifania è la teologia dell’”oggi”, l’ideologia della “egolatria”, dove
il passato è un ridicolo quanto fastidioso fardello da rimuovere, mentre il
futuro una mera propaggine dell’oggi da vivere con il medesimo senso di
vacuità, una vacuità che della assenza di confini si nutre e si rafforza. I
confini sono gli argini metaforici, spirituali e fisici ad un “Io” paralizzato
in un perenne presente, nel quale il futuro è ristretto in un “Oggi” satollo di
una illimitata espansione dell’”Io”. L’”Io” vive dei propri desideri
coattivamente trasformati in imperiosi diritti. Desideri-diritti che non
appagano ma compulsano l’ ”Io” (un Dio senza D) in direzione di un futuro privo
di orizzonti e di prospettive, in quanto l’unico orizzonte, l’unica prospettiva
è l’ulteriore allargamento della propria circonferenza di desideri da vivere in
modo solistico, senza le radici del passato e privo dai legami con il domani. Il presente in sé assorbe il futuro dopo aver
tacitato un ingombrante passato.
La composizione
chimica del concime di questa inesistente realtà è fatta di buonismo senza
bontà, altruismo senza prossimità, pacifismo senza pace, religione senza Dio e
senza senso del Sacro.
L’azione
di perimetrazione è di ostacolo alla egolatria, perché siffatta opera
inserirebbe l’individuo nelle sue multiformi esplicazioni - la famiglia, la
comunità, la società, lo Stato - rendendolo responsabile, non più “agito”, ma “agente”
Il
nuovo “Pensiero Dominante sena confini, delocalizzato e destrutturato” vive di “rarefazione delle intelligenze…tra nemici di
fuori, ignoranza di dentro e il nulla che tutto pervade”.
Non solo.
Si ha necessità di una nuova Natura in quanto essa impone intollerabili limiti
da valicare a tutti i costi. E allora si provveda alla delocalizzazione di se
stessi e da se stessi, si pervenga ad un “trans-uomo”, si separi l’eros dalla procreazione, per approdare
finalmente al nietzschiano “Oltre - Uomo”: dall’utopia collettiva all’utopia
individuale.
Le
idee sono di ingombro al pari dell’essere che non è altro che un incessante divenire
senza meta: “I mezzi sopraffanno gli
scopi, le cose vincono sule persone. Si perde l’unità della persona, il suo
significato e il suo valore. Vivere senza idee significa godere nel dettaglio e
patire nell’insieme: vivere istanti pieni in giornate vuote. Ricchi di attimi. Poveri
di vita”.
Il
presente, però, è già gravido dell’ “Avvenire”, e l’Autore ne prova già una grande attesa…e nostalgia: “La formula conclusiva…è nostalgia dell’avvenire.
Espressione compiuta perché indica la circolarità del tempo, la necessità di
congiungere la memoria del passato all’attesa del futuro e di restituire alla
continuità tra le generazioni il senso più vivo di una tradizione che viene da
lontano e si sporge nel futuro.”.
E che
la lettura abbia inizio.
Fabrizio Giulimondi
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