“Non lasciarmi” (“Never let me go”) - vincitore del Premio Alex - del neo Premio Nobel per la letteratura 2017 Kazuo Ishiguro, edito nel 2005 dalla
Einaudi, ha visto una trasposizione cinematografica realizzata nel 2010 da Mark Romanek, al pari dell’altra opera
letteraria di Ishiguro, “Quel che resta del giorno” (1989), divenuta
film nel 1993 grazie alla direzione di James
Ivory.
A
differenza di Murakami, il cui stile
ha una chiara impronta immaginifica nipponica ed il tocco di realismo magico coniato
da un altro premio Nobel per la letteratura, Garcia Márquez (nel 1982), Ishiguro
risente della cultura british in cui
è immerso, dopo essere divenuto cittadino di Sua Maestà britannica nel 1982 e
vivendo attualmente a Londra.
La connotazione fantasiosa e,
direi, fantascientifica, è comunque marcatamente presente in “Non lasciarmi”, ingerita
in una dimensione fortemente
realista e, aggiungerei, attuale. Il genio di Ishiguro è nell’aver visto
in maniera profetica nel 2005 quanto sta avvenendo nei nostri giorni e potrebbe
ancor più verificarsi nei prossimi anni.
La narrazione parte in sordina,
sonnecchiante come morbide pantofole che si appoggiano accuratamente su un parquet. Poi, similmente ad una retta che
su un piano cartesiano si innalza verticalmente dall’asse delle ascisse, il
racconto si impenna e mostra l’orrore avviluppato in una quotidiana normalità.
Kathy, Tommy e Ruth sono tre ragazzi
fra i tanti destinati sin dalla nascita a donare organi e, nel frattempo,
assistere i donatori.
Profezia, metafore e simbolismo.
Inquietudine.
Inquietudine profonda che
attraversa come corrente elettrica tutto il racconto. Fantascienza? O anticipazione
di realtà?
La mente corre all’utero in affitto
e alle manipolazioni genetiche.
Le grandi menti presagiscono.
I “possibili” sono gli originali da
cui i donatori (“gli studenti”) sono clonati e verso i quali quest’ultimi vogliono
tornare, o almeno conoscerli, per l’ineluttabile necessità di ogni individuo di
ricercare le proprie radici, le sue origini, il passato per immaginare un
probabile futuro: la professione di porno
star di una “possibile” può spiegare la compulsiva sessualità di una
donatrice?
I rapporti fra ragazze e ragazzi
sono punteggiati da un costante ridimensionamento e controllo delle emozioni e
dei sentimenti. Le parole sono algide. È tutto ovattato. Sono ovattati gli
ambienti dove si svolge l’azione ed è ovattata l’azione stessa. Sono ovattati i
dialoghi. Sono ovattate le menti, gli animi e i cuori. Il sesso, percepito e
vissuto ossessivamente, è mero consumo di energie erotiche, scambio di
meccanicità corporea. Dalla neo lingua orwelliana (il sintagma “fare sesso” è
già neo lingua) alla neo fisicità, ai neo corpi.
Se una coppia è veramente
innamorata può vedersi rimandare le donazioni? L’ amore autentico debitamente provato
può risultare la chiave di volta per rallentare il fatale percorso in direzione
della morte: menzogna o verità?
Se è possibile scientificamente lo
è altrettanto eticamente? E la scienza che scansa l’etica rende più certa e
felice la vita dell’essere umano? E il neo-umanesimo in salsa tecnocratica è
meno pericoloso della weltanschauung hitleriana?
La mesta conclusione
del romanzo, parimenti ad un laghetto, placido, senza alcun onda, a-emozionale,
lascia solo un silenzio privo di significato e sostanza nel lettore. La
risposta forse – forse! – si intravede lì, i mezzo a quei rassegnati singulti: “La fantasia non andò mai al di là di questa
immagine – non glielo permisi – e sebbene le lacrime mi rotolassero lungo le
guance, non singhiozzavo né mi sentivo disperata. Aspettai un poco, poi tornai
verso l’auto e mi allontanai, ovunque fossi diretta.”.
Fabrizio Giulimondi
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