Non è
facile parlare di un Premio Nobel per la letteratura (1998), men che meno di un’opera
letteraria densa, pastosa e complessa, carica di significati escatologici,
teologici, filosofici, sociologici, metafisici, come “Cecità” di José Saramago
(Feltrinelli).
Con
una narrazione fantasiosa, immaginifica, apocalittica, crepuscolare e
catacombale, “Cecità” è estetizzata
da un costrutto stilistico che determina uno stato ansiogeno e confusionale in chi
legge. Il libro è un lungo, interminabile, periodo senza soluzione di
continuità - inframezzato da, quasi superflue, punteggiature - che fonde singoli episodi in una unica storia,
dialoghi magmatici in un sola conversazione. Questo romanzo sembra interiorizzare una frastornante
musicalità polifonica ricondotta, nel passare delle pagine, ad una coralità sinfonica.
L’ ironica,
sbeffeggiante, tragica voce narrante, interpola l’inabissarsi del lettore verso
oscurità inenarrabili non indicando mai i nomi di personaggi antropologicamente ben delineati, sostituendoli con sintagmi e locuzioni composti da
metafore di matrice epica latina e greca. Gli aspetti favolistici, fantastici,
onirici evocano la letteratura nipponica di Murakami e latino-americana di Gabriel
García Márquez: il realismo magico irrompe nella scrittura di Saramago, i cui elementi ultraterreni e
misterici si combinano con un realismo sviscerato sino alle più cupe
conseguenze.
L’inquieta
ars scribendi del Nobel portoghese compare
come una risultante della, talora, allucinatoria pittura fiamminga e delle visioni
orgiastiche e nauseabonde di alcuni cantici infernali danteschi.
In “Cecità” sembra di vedere Dante, Brueghel e Bosch,
dopo una metamorfosi kafkiana, riplasmati da esperte mani in una
scultura costretta ad immergersi in un vortice di parole (o è la letteratura
che è divenuta scultura?). Questa plesso scultoreo- letterario impietosamente
palesa un ammasso di corpi indistinguibili fra di loro, spogliati non solo dei propri
vestiti ma della stessa propria natura umana. Corpi informi deprivati della
propria individualità che si trasformano in una massa animalesca di carne, lurida,
bestialmente contorta, involuta in direzione di uno stadio primordiale, perché gli
occhi non vedono improvvisamente e inspiegabilmente più nulla, salvo una marea
lattiginosa. Soltanto una donna, la moglie dell’oculista, continua ad avere il
dono della vista, pur dovendo nascondere al mondo questa sua miracolosa deroga
al “malbianco” che la circonda. Le quotidiane azioni che agevolmente – e senza che
il raziocinio ci si fosse mai soffermato - ogni persona compiva prima dell’avvento della lattea
cecità, divengono ora un esercizio di sforzo erculeo, dirompente nel fisico, nella
mente e nell’anima.
L’umanità
è privata di se stessa ed esterna la sua putrescenza nel momento in cui muta in
massa cieca. L’Autore mostra l’uomo per quello che è nel momento in cui rimane senza
luce. La scrittura prende la forma di masse
oscene, terrifiche e disgustose di donne e uomini vittime o carnefici di ogni
tipo di ignominia, oramai bestie senza sguardo pronte a nutrirsi impudicamente di
rancido e ributtante simulacro di cibo, aduse ad accoppiarsi fra corpi lerci
penetrati senza esser visti, assenti fra assenze, senza più alcuna essenza
umanoide. La persona non c’è più perché la
negazione della vista la rende ectoplasma a se stessa. La luce è corporea ma il
suo venire meno muta la chimica e la fisica in buio dell’anima. Colui che è
cieco non lo è solo negli occhi ma, per lo Scrittore, lo è fatalmente anche nella
sua interiorità. Chi è cieco dentro vede solo in apparenza, pensa di vedere,
invero non vede alcunché, pur non accorgendosene, poiché chi è cieco non vede non
solo le cose visibili ma neanche quelle invisibili: il chiaro e lo scuro sono
solo due colorazioni fittiziamente diverse di una medesima dimensione del reale.
Le
parole in Saramago possiedono una
forza animalesca cibandosi della disperazione di chi vuole continuare a vivere.
I vocaboli vengono prosciugati dalla volgare ipocrisia di cui l’aggettivazione li
ammanta, aggettivi che edulcorando il linguaggio e lo depotenziano di quella primitiva
energia interna che lo fa, altrimenti, giganteggiare: “Gli aggettivi non servono a niente, se una persona ne ammazza un’altra,
per esempio, sarebbe meglio enunciarlo così, semplicemente, e confidare che l’orrore
dell’atto, di per sé, fosse tanto scioccante da dispensarci dal dire che è
stato orribile, Vuol dire che abbiamo parole in più, Voglio dire che abbiamo
sentimenti in meno, Oppure ce li abbiamo, ma non usiamo più le parole che
potrebbero esprimerli. E dunque li perdiamo … L’unico miracolo che possiamo
fare sarà quello di continuare a vivere … difendere la fragilità della vita
giorno per giorno, come se fosse lei la cieca, e non sapesse dove andare, e
forse è proprio così, forse la vita non lo sa davvero, si è abbandonata nelle
nostre mani dopo averci reso intelligenti, e noi l’abbiamo portata a questo … Non
ha trovato risposta, le risposte non vengono ogniqualvolta sono necessarie,
come del resto succede spesse volte che il rimanere semplicemente ad aspettarle
sia l’unica risposta possibile.”
Fabrizio Giulimondi
Nessun commento:
Posta un commento