La
firma de Il manifesto e Cuore Alessandro Robecchi, con il suo romanzo “Questa non è una canzone d’amore” (Sellerio editore), conferma il suo carattere stilistico innovativo
che tratta con ironia generi thriller togliendo loro la connotata patina drammatica
e di suspense. E’ una peculiarità redazionale
che all’inizio appare divertente ma con il passare delle pagine il suo uso
smodato appesantisce la lettura. Ciò che in prima battuta costituisce un approccio
estetico simpatico e diversificato rispetto al altri modus scribendi, muta nel passare delle pagine in una struttura
linguistica un poco posticcia, una superfetazione scontata, che rischia di
infastidire il lettore. La narrazione agile e, a tratti, coinvolgente, è sfortunatamente
infarcita - e, di conseguenza, deturpata - di un eccesso sovrabbondante di cliché
ideologicamente orientati: i poliziotti sono tutti una massa di imbecilli o di violenti
(la fictio che vede riviste
intitolate “Il manganello” gettate sui tavolini delle sale di aspetto dei
commissariati è del tutto sgradevole); gli unici intelligenti sono o “progressisti”
o lesbiche; i cattivi sono tutti, neanche a dirlo, fascisti. Peccato davvero perché
trattare con boutade, gag, metafore grottesche
e surreali il genere “giallo” è una intuizione tecnica e artistica niente male:
la leggerezza mista al sangue; il compiacimento ridanciano misto al crimine; la
burla che intercetta il colpo di pistola o di coltello. L’ insistente sberleffo
nei confronti della polizia è molesto quanto urticante e, si sa, dosi eccessive
di peperoncino alla fine possono creare bruciori allo stomaco e, di rimando,
all’anima che potrebbe avere un cattivo ricordo del libro una volta finito di
leggere.
Gli
zingari, anche se uccidono, torturano, dissanguano lentamente e impietosamente
sono guardati dall’Autore con pregiudizievole sympatheia poiché, in quanto perseguitati nelle epoche oscure dalle
truppe hitleriane, sono ontologicamente appartenenti al “Bene”.
La
narrazione si muove in ambienti immondi altalenando fra gente che si urina
addosso (ma seguendo il leitmotiv di Robecchi mi permetterei di proferire il
l’odierno diffuso brocardo: “Ma che male c’è?”) e un commercio internazionale
di “giacenze” dei campi di concentramento e sterminio nazisti.
Intriganti
le interpolazioni tratte dai bellissimi testi dei brani di Bob Dylan.
Paucis verbis, pregiudizi
e stereotipi devastano un intreccio narrativo che diversamente sviluppato
avrebbe potuto condurre a quel bel libro che non è diventato.
Fabrizio Giulimondi
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