Correva
l’anno 1992, quando i R.E.M. diedero
alle stampe questo “Automatic for the
people”.
E’
uscita a Novembre 2017 la versione rimasterizzata dell’album, ristampato per i
suoi 25 anni in due versioni ‘extralarge’, una da due cd, con il disco
originale remixato e l’unico concerto live registrato dalla band nel ’92, e l’altra
(Deluxe) con 20 demo mixati nel 1992
e il disco stesso ascoltabile in versione “sonora” Dolby Atmos.
Solo
un anno prima, grazie ai mandolini e al pathos del singolo “Losing my religion” i R.E.M., fino a quel momento conosciuti
come la band di punta del rock indipendente americano, avevano sfondato a
livello internazionale, facendo entrare ai primi posti delle classifiche “Out
of time”. Quest’ ultimo era un disco di folk-rock maturo e mainstream, con alcuni singoli capaci di fare breccia presso le
categorie più disparate di ascoltatori.
La
band dopo “Out of time” decise, a sorpresa, di non fare un tour promozionale,
col quale avrebbe capitalizzato al meglio le vendite milionarie del disco e si
chiuse pazientemente in studio a registrare delle nuove canzoni, che
confluirono in “Automatic for the people”.
Il
risultato è un disco cupo e malinconico, funereo e notturno, che tratta a piene
mani il tema della mortalità, degli affetti e delle fragilità umane, con un
suono barocco, delicato e migliorato da raffinate orchestrazioni, dirette dal
sapiente lavoro di John Paul Jones, ex bassista dei Led Zeppelin.
Forse
è riduttivo definire “Automatic for the
people” un disco, perché
musiche, testi e atmosfere di queste 12 canzoni sono così interconnessi da
creare un tutt’ uno di visioni oniriche, sogni, ricordi, orizzonti, frammenti
di vita, immagini, delusioni e speranze.
Ingredienti
messi insieme dai quattro R.E.M. con
un sapiente lavoro di ‘cucitura’, realizzato col produttore Scott Litt, e
ammantati in un mood dimesso, specchio dei tempi incerti che si vivevano negli
Stati Uniti finita l’era Reagan, con i tanti dilemmi che si portava con sé il
periodo post Guerra Fredda e verso l’incerta fase di transizione di fine
ventesimo secolo.
La
strumentazione è prevalentemente acustica, con inserti di banjo, armoniche,
organi, bouzouki. In realtà lo stile
delle canzoni può essere considerato come un’evoluzione più matura del disco
precedente, anche se al tempo stesso vi prende le distanze: laddove Out of time
era solare e spensierato, Automatic
risulta invece cupo, scarno, malinconico e minimalista.
Questo
testimonia anche la volontà del gruppo di non sedersi sugli allori del
successo, ma di cercare di recuperare una dimensione più personale e
introspettiva.
Il
viaggio parte con “Drive”, che è anche il singolo apripista dell’album.
Singolo
che non concede nulla agli stereotipi commerciali, partendo in modo lento e
ipnotico con un lieve, insistito arpeggio chitarristico e un sottofondo
ammaliante, per poi esplodere lentamente con la grande entrata della chitarra
elettrica e di una spettacolare sezione d’ archi. Stipe canta: “hey kids, rock and roll, nobody tells you
where to go” ovvero dei versi criptici (nel suo stile) ma che sembrano dire
ai giovani: seguite la vostra via, vivete la vostra vita, non cercate mai
quello che vi dicono gli altri.
La
canzone vive sull’ alternanza vuoti/pieni e sfuma lentamente, così come era
iniziata.
Due
chitarre che si rincorrono e il tema dell’eutanasia sono il sottofondo di “Try not to breathe”, una melodia semplice
e raffinata che vive nel controcanti di Stipe e Mills e nel ritornello i suoi
passaggi migliori. Un organo ne accompagna il lento incedere nel finale, il
testo racconta di un anziano che giunto alla fine della sua vita, ne ricorda i
momenti più belli e struggenti e mette in evidenza l’argomento degli affetti.
La
musica è un pretesto per toccare temi importanti e evocare visioni suggestive,
tutto “Automatic” richiede attenzione
per l’ascolto in se stesso ma anche per i temi che sono trattati attraverso di
esso.
“The sidewinder sleeps tonite”
costituisce un momento di evasione rispetto ai primi due brani, grazie a un
intreccio scintillante fra organo e chitarra e uno Stipe che canta (e bene) in
tonalità molto alte, facendo il verso a ‘The
lion sleeps tonite’, con liriche originali e al limite dell’incomprensibile.
Il risultato è ottimo e riesce ad allentare un pò il clima, senza allentarlo
troppo al tempo stesso.
Segue
“Everybody hurts” e sin dai suoi
primi momenti si ha la sensazione di essere immersi nel mood dei primi due
brani.
Ci
sarebbe poco da dire, se non invitare all’ ascolto. Un semplice arpeggio di
chitarra di Buck introduce verso una melodia corposa e cantata con intensità da
aria funebre da Michael Stipe; il basso di Mills gira a meraviglia, la chitarra
elettrica e la batteria si limitano a pochi interventi che accompagnano il
momento di maggiore climax emozionale. Il tema è quello della sofferenza e del
disagio esistenziale, quelli di un aspirante suicida che viene invitato a non
cedere e continuare a vivere. ‘Take
comfort in your friends’ e il ripetersi della frase ‘No, no, no, you’ re not
alone’ sottolineano il messaggio positivo che i R.E.M. vogliono trasmettere, pur parlando di morte e dolore.
Il
video felliniano che accompagnò la canzone è un must ed è consigliabile non
perderlo.
“New Orleans Instrumental n.5” è un brano
strumentale, riflessivo e notturno al quale segue “Sweetness follows”, splendido blues in cui la voce matura e
melodica di Stipe, anche qui bravissimo, viene sorretta da un magico impasto
sonoro di chitarra acustica e violoncello prima ed organo poi. Ovvero, come
fare grande musica con pochi, semplici ‘ingredienti’.
Qui la
morte viene vista con gli occhi innocenti di un ragazzo che deve dare sepoltura
ai suoi genitori: il senso della riflessione remmiana è di tenere sempre vivo
il ricordo, a fronte del rischio dell’insensibilità e del tempo che passa,
insomma un invito a recuperare la pienezza degli affetti.
“Monty got a raw deal” rappresenta l’omaggio
dolceamaro a Montgomery Clift, celebre attore che negli anni 50’ dissipò tutte
le sue fortune tra alcool e droga, andando incontro a una morte dannata e
prematura.
Un
arpeggio di Buck lo introduce, segue la decisa entrata della batteria, l’accompagnamento
di armoniche e bouzouki ne guida l’incedere lento e straniante, quasi
drammatico, con Stipe che canta su tonalità basse. Il personaggio sfortunato di
Monty viene raffigurato come “buried in
the sand” (sepolto nella sabbia) e “strung
up in a tree” (appeso a un albero), immagini efficacissime che
simboleggiano il destino di quest’ uomo solo.
Sembra
chiaro l’invito a non farsi travolgere dalle facili e vacue promesse della
celebrità, quasi un’auto raccomandazione da parte del gruppo.
Il
cammino di “Automatic for the people”
continua con “Ignoreland”, che arriva
con la sua ritmica dissonante e un piglio decisamente rock’n’roll, rappresentando un episodio a parte nell’ album: Stipe
snocciola versi velocissimi, quasi incomprensibili, che in realtà mascherano un’invettiva
politica dai toni accesi ed accorati contro le presidenze americane di Reagan e
Bush.
“Star me kitten” è invece, in antitesi,
un tranquillo momento di pace, un’oasi sonora in cui tutti i sensi sembrano per
un attimo placarsi. Qui una dolce chitarra di sottofondo accompagna versi
magici e sospesi, con sottili ricami jazzistici, preparando all’ ascolto del
trittico finale.
Segue
“Man on the moon”, canzone che
celebra il ricordo del comico anni 60′ Andy Kaufman. Anch’ egli aveva avuto in
vita una sorte tragica e da incompreso, nonostante lo humour e l’ ironia dei
suoi personaggi. Verrà riscoperto, proprio grazie ai R.E.M. fino al film in suo
omaggio diretto da Milos Forman.
Il
testo è una sorta di dialogo surreale con lo sfortunato protagonista,
accompagnato da un incedere ritmico vibrante, ammiccante e pop ma calibrato con
classe dai R.E.M., con Stipe che nel
cantato omaggia Elvis Presley e un’impennata chitarristica di Buck a conferire
un tocco di epicità.
“Nightswimming” è una dolce e soffusa
ballata pianistica che incanta, un piccolo capolavoro di semplicità ed
emozioni.
Il breve
stacco iniziale prepara l’ingresso di un pianoforte che recita da protagonista,
splendido ed evocativo come le luci della luna richiamate nel testo. L’
atmosfera è intrisa di nostalgia e di memorie del passato, di un’adolescenza
vissuta attraverso nuotate notturne, foto antiche poggiate sul cruscotto e
sfuggenti incontri amorosi, poi perduta irrimediabilmente.
“Find the river” conclude l’album,
introdotta da pochi, toccanti accordi di chitarra. La voce di Stipe irrompe con
versi poetici e leggeri, armoniosi e compatti.
Tutto
è rallentato, eppure gradevole e autenticamente sentito da parte dei quattro R.E.M., che firmano un’altra perla
piena di intensità. La ricerca del fiume rispecchia ancora la metafora esistenziale
della ricerca di se stessi e della propria via.
Il
dolce pianoforte in sottofondo, un coro e una fisarmonica nel ritornello
accompagnano i momenti migliori di questa gemma, fino alla sua conclusione
lenta e inesorabile, come il percorso del fiume che finisce nell’ oceano.
Piero Corigliano
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