venerdì 2 febbraio 2018

FABRIZIO GIULIMONDI: "FEMMINICIDIO FRA DIRITTO E DRAMMA PERSONALE E SOCIALE"


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Negli ultimi anni si sente parlare sempre più spesso di un fenomeno che ha tristemente raggiunto dimensioni eclatanti che prendendo le mosse dalla violenza sulle donne talvolta culmina nella morte delle vittime.
In un’attuale situazione di emergenza e di denuncia sociale di comportamenti malsani ed aggressivi nei confronti delle donne si inserisce il neologismo “femminicidio”, coniato in occasione della strage delle donne di Ciudad Juarez (città al confine tra Messico e Stati Uniti) ed adottato dalle donne centroamericane per veder riconosciuti e rispettati i propri diritti umani, in particolare quello ad una vita libera da qualsiasi forma di violenza.
La città di Ciudad Juarez è tristemente ricordata per il femminicidio del 1993 dove il numero delle donne assassinate è stimato al di sopra di 370. I femminicidi hanno ricevuto un interesse internazionale a seguito dell’inattività del governo nel prevenire la violenza contro le donne scomparse nel nulla per poi essere ritrovate nel deserto stuprate ed ammazzate e nell’assicurare i colpevoli alla giustizia.
Il femminicidio è la forma estrema della violenza sulle donne, è l’atto finale del ciclo delle violenze maschili contro le donne e di cui rappresenta l’apice. In termine si riferisce a tutti quei casi di omicidio in cui una donna viene uccisa da un uomo per motivi relativi alla sua identità di genere cioè di regola in relazione al fatto che la medesima sia stata moglie o in una relazione sentimentale con l’autore del delitto, ovvero il medesimo autore presumeva che la vittima dovesse iniziare o continuare la relazione sentimentale o sessuale.
A volte questo genere di violenza è compiuta da persone che hanno legami strettamente sentimentali con la vittima come mariti o fidanzati, ma vengono compiuti anche da padri verso figlie o addirittura da figli verso le madri.
Contrariamente alla rappresentazione mediatica tale fenomeno non riguarda determinate culture diverse rispetto a quella occidentale né può essere riferito alle sole condizioni di disagio sociale o marginalità culturale, ma si iscrive, proprio come la violenza contro le donne nei normali rapporti e conflitti tra uomo e donna. Si è solito identificare i principali fattori di rischio per una donna di essere vittimizzata nei luoghi e nelle situazioni ritenute più sicure, come l’abitazione propria o della famiglia e la relazione coniugale o di coppia.
Come spesso accade a seguito del susseguirsi di fenomeni criminali di allarme sociale che destano sconcerto e accendono dibattiti nell’opinione pubblica dei media, il Governo ha ritenuto di intervenire sul fenomeno mediante il decreto legge 119/2013.
Né il codice né il recente decreto hanno saputo fornire però alcuna definizione di femminicidio.
Tuttavia dal punto di vista etimologico secondo una prima definizione il femminicidio comprende “qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuare la subordinazione e di annientare l’identità attraverso l’assoggettamento fisico e psicologico, fino alla schiavitù o alla morte”.
 Pertanto in qualsiasi forma venga esercitata, la violenza rappresenta sempre l’esercizio di un potere che tende a negare la personalità della donna: brutalizzando il suo corpo o la sua anima si afferma il dominio su di essa, rendendola oggetto di potere la si priva della sua soggettività.
Il femminicidio quindi è un fatto sociale: la donna viene uccisa in quanto donna, o perché non è la donna che l’uomo o la società vorrebbero che fosse.
Letteralmente femminicidio significa omicidio di una donna per questioni di genere.

Dall’inglese “Femicide” (uccisione di una donna) il termine femminicidio venne utilizzato nei primi anni ‘90 dalla criminologa Diana Russel, la quale, identificava il femminicidio in una categoria criminologica vera e propria, una violenza estrema da parte dell’uomo contro la donna perché donna in cui cioè la violenza è l’esito di pratiche misogine, in un ambito culturale in cui la misoginia è legittima e dove il prodotto della violazione dei  diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine - maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria o anche istituzionale -  comportano l’impunità delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, culminando spesso  con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa.
Dopo Russell, l’antropologa Marcela Lagarde continua a sviluppare tale categoria fino a elaborare un concetto nuovo e più ampio, quello di feminicidio, a indicare tutte quelle condizioni in cui la violenza è tale da provocare l’annientamento fisico o psicologico della personalità femminile. Risulta evidente la necessità di tipizzare il reato di femminicidio quale violazione dei diritti umani delle donne, considerandolo un delitto autonomo, avente caratteristiche e specificità che lo differenziano da altri tipi di omicidi: l’esistenza di una violenza estrema, strutturale e sistematica contro questi soggetti, i loro corpi e la loro dignità, all’interno di un contesto in cui prevale una cultura maschilista, sessista e misogina che non solo le discrimina e nega loro qualsiasi diritto, ma nasconde, tollera e minimizza tali crimini, per di più nascosti da autorità corrotte, leggi ambigue o carenti di meccanismi che diano risultati concreti. Da sempre nella storia le donne durante le guerre hanno visto calpestati i diritti più elementari e sono state vittime silenziose di stupri e feroci violenze fisiche e psicologiche. Spesso, soprattutto in contesti di occupazione o guerra civile, la violenza sulle donne è stata considerata uno strumento psicologicamente efficace contro il nemico. Il corpo della donna diventa oggetto sul quale si manifestano relazioni di potere: attraverso lo stupro il rivale viene umiliato, la donna ripudiata o privata della sua funzione riproduttiva, se poi dallo stupro deriva una gravidanza, viene affermata la superiorità biologica del gruppo rivale (c.d. stupri etnici), destinando la donna e il feto alla morte o, nel migliore dei casi all’abbandono. In tal modo la violazione del corpo della donna diventa una strategia pianificata per conquistare la vittoria morale sul nemico. Lo stupro sistematico viene così utilizzato in larga scala per colpire l’identità di intere popolazioni, per infamare, disonorare e terrorizzare l’etnia nemica.

Una forma, dunque, di discriminazione e violenza mirata a violare la donna fino ad annientarla nella sua sfera di integrità psicofisica e che nella maggior parte dei casi presenta una dimensione trasversale che interessa tutte le classi perché sta “dentro” il nucleo base della comunità, la famiglia, e proprio per il suo essere familiare spesso passa inosservata, e proprio per il suo essere familiare fa paura chiamarla con un nome così terribile, femminicidio.  
Curiosamente è stato dimostrato che alla violenza sono maggiormente soggette le donne più ricche e quelle più povere: in entrambe gli estremi il potere relazionale si fa più stringente e coercitivo nei confronti della donna, che ha più difficoltà a svincolarsi dal rapporto.
Donne che malgrado tutto tentano la possibilità dell’autodeterminazione, spingendosi alla conquista di spazi indipendenza economica, psichica, sessuale, invadendo le sfere di competenza maschile, riappropriandosi dei propri corpi e del diritto a trasformarli in spazi di potere autonomamente gestito, programmando la maternità come se fosse davvero un diritto a creare alla vita determina una destabilizzazione dell’intera struttura sociale, provocando una  reazione tesa  all’autoconservazione , possibile solo attraverso la negazione della libertà femminile, attraverso politiche di privatizzazione dei servizi, di precarizzazione del lavoro, attraverso interventi “etici” che vanno a incidere sui diritti riproduttivi della donna.
Il movimento femminista iniziato in occidente dagli anni sessanta ha portato l’attenzione sul problema della violenza alle donne, fenomeno non riconosciuto dalla società, fornendone una lettura incentrata sulle modalità relazionali che si strutturano tra uomo e donna in relazione alla diversità di genere. Tale approccio promuove l’affermazione dei diritti della donne in cui le donne iniziano a raccontare di sé.  I centri antiviolenza costituiscono i primi laboratori di ricerca di libertà, di autonomia e di espressione delle donne, a partire dal desiderio delle donne di uscire dai condizionamenti. L’analisi e la lettura data dal femminismo alla violenza di genere dopo circa cinque decenni trovano finalmente riconoscimento e legittimazione in un trattato a respiro internazionale. La Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa il 7 aprile 2011 ed aperta alla firma l'11 maggio 2011. Il trattato si propone di prevenire la violenza, favorire la protezione delle vittime ed impedire l'impunità dei colpevoli.
In Italia a far data dal 1 agosto 2014 sono entrate in vigore le “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province”, contenute nella legge di conversione 15 ottobre 2013, n. 119, del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93.
Se si considera il femminicidio come fatto sociale esso si manifesta con caratteristiche peculiari (locali) differenti a seconda della struttura sociale di riferimento. Se infatti la nostra società non riconosce la violenza sulla donna a meno che questa si manifesti nelle forme più estreme, ed anche in questi casi tende a “normalizzarla” più che a connotarla come violenza di genere, vi sono società in cui alcune forme di violenza sulle donne sono accettate come normali, in quanto è socialmente condivisa l’ideologia patriarcale, che vuole la donna subordinata all’uomo. In queste società, la violenza sulle donne si manifesta in forme particolarmente cruente.
Se poi consideriamo la violenza di matrice religiosa legittimata dallo Stato si può notare l’esistenza di paesi dove le legislazioni accolgono le disposizioni della sharia, come in Iran, dove per il reato di lesbismo è prevista la condanna a morte, e spesso queste donne non riescono ad ottenere neanche l’asilo politico perché non riescono a fornire le prove degli abusi subiti nel paese d’origine, ovviamente non documentati in quanto persecuzioni effettuate dalle forze dell’ordine.
Ma di violenza di matrice religiosa è più che lecito parlare anche nel caso dell’induismo, che prevede che i figli maschi siano gli unici a poter disporre i riti funebri dei genitori, che altrimenti sono destinati a vagare in eterno senza riposo. Ciò provoca in India, Pakistan e Bangladesh una discriminazione feroce nei confronti delle donne: per il ricorso agli aborti selettivi, prima ancora che nascano, per essere sottoposte a continue vessazioni da parte della famiglia di lui per ottenere dai suoi genitori una dote più consistente. Infatti, anche se l’usanza della dote è stata proibita per legge13, essa è ampliamente diffusa, e non di rado accade che i pretendenti rifiutati dalla donna, o il rifiuto della donazione di altri beni in dote, siano le cause principali che rendono la donna vittima di “incidenti apparentemente  casuali”, quali la deturpazione della donna con dell’acido, o la morte della stessa a seguito di ustioni in cucina: anche in questi casi si dovrebbe parlare di femminicidio, anche in questi casi lo Stato è complice di queste violenze private, del business che dietro di esse si cela, fomentato dalle smanie consumistiche che la modernizzazione del paese ha portato con sé, di ognuna di queste morti rimaste impunite, perché archiviate come “morti per cause naturali”. Quando si sceglie di offrire alle donne che subiscono violenza o ai familiari delle donne uccise un indennizzo economico piuttosto che codificare tali fatti come di rilevanza penale, come accaduto in Guatemala, si compie la discriminazione più grande: il corpo della donna viene dal sistema giudiziale equiparato nel valore e nella tutela ai “beni di consumo”, ai reati minori contro le cose.
Il femminicidio, nel suo essere un fenomeno globale e trasversale, interessa, quale violenza brutale, tutte le classi sociali ed ha come comune denominatore il nucleo base della comunità e della famiglia.
Il nostro diritto di famiglia, riconosciuto sin   dal 1975 che secondo quanto affermato da Stefano Rodotà, anche attraverso il codice napoleonico del 1804, era nato per l'ammirazione del futuro imperatore per le regole locali sulla famiglia durante la campagna d'Egitto.
Ecco perché nella nostra legislazione il capofamiglia era il marito, che assicurava protezione alla moglie, che per questo gli doveva obbedienza: si parlava di diritti dell'uomo e doveri della sposa. Ciò denota profonde ed antiche radici del drammatico fenomeno che è il “femminicidio”, sociali e psicologiche, nella differenza dei sessi. I filosofi contemporanei ,tra cui Massimo Cacciari identificano  un equilibrio delle relazioni intersoggettive in una dimensione di amore, come quella di amicizia che comporta una dimensione di gratuità, di libertà, la negazioni di qualsiasi calcolo di interesse, altrimenti non sarebbe nemmeno possibile costruire un coppia e tantomeno una comunità, , per il quale, alla base di tutto, è l'amore per la conoscenza, anche la conoscenza dell'altro, che implica impegno, volontà, mentre quando tutto questo viene meno, ecco che può accadere qualsiasi cosa, che si agisce al di fuori dell'amore.
Da qui nasce  il femminicidio, la strage di donne uccise probabilmente per gelosie per paura di dover affrontare delle idee forti per paura di perdere il controllo sul sesso opposto da sempre sottomesso.È quella chiusura in sé, quella solitudine di ognuno, anche nella coppia  che può arrivare all'esasperazione, specie se viene stravolta l'illusione di fusione amorosa, esplodere in violenza, quella violenza che implicita nell'amore fusionale, specie nei momenti in cui non è più facile essere anche razionali, pensare a costruire un rapporto vero, capace di riconoscere l'altro come diverso da sé.
La violenza sulle donne non è un problema solo delle donne, non si possono lasciare sole le associazioni di donne, le case di accoglienza per le donne maltrattate, le vittime della violenza, le femministe, qualche uomo o qualche intellettuale illuminato, a cercare di gridare ai quattro venti le difficoltà di essere donna oggi in Italia, a chiedere aiuto perché non ci sono i fondi per aiutare chi vuole uscire dalle situazioni di violenza, a raccogliere le prostitute dalla strada, a combattere da sole contro i mulini a vento, tutto sommato. La violenza sulle donne non può essere più solo un problema privato, è un fatto sociale che va affrontato nella sua dimensione pubblica perché “la promozione e la tutela dei diritti delle donne sono requisiti fondamentali per costruire una vera e propria democrazia”, ed “occorre utilizzare tutti i mezzi possibili per prevenire il fenomeno
Si segnala che le forze dell’ordine non sempre trasmettono con immediatezza la notizia di reato alle Procure, così ritardando l’immediata iscrizione della notizia di reato e lasciando la donna priva di tutela proprio nel momento di massimo rischio per la sua incolumità: è, infatti, con la presentazione della denuncia/querela che nella maggioranza dei casi l’uomo aumenta di intensità la sua condotta violenta per punire la scelta della donna di interrompere la relazione. Spesso non si applicano le misure cautelari idonee a prevenire fatti di violenza più gravi di quelli denunciati, poche volte si procede, in caso di violazione della misura cautelare, all’aggravamento delle stesse, troppo spesso la misura cautelare perde di efficacia prima della sentenza di primo grado. Tali prassi violano gli obblighi sanciti agli articoli 51, 52 e 53 della Convenzione. Non è un caso che nella maggioranza dei casi le donne sono state uccise dai partner o ex partner dopo aver presentato la querela. Anche in ambito civile si registra la non tempestività delle autorità nel garantire l’accesso delle donne alla giustizia se si considera che, dopo il deposito di un ricorso civile per separazione o per l’affidamento dei figli, la prima udienza presidenziale può avvenire anche dopo otto/dieci mesi; nel frattempo la donna rimane priva di tutela anche per quanto concerne gli ordini di protezione che possono disporsi in sede civile. Poche le tutele anche per i figli minorenni vittime di violenza assistita: diffuse sono le prassi che si pongono in violazione al principio dell’art. 31 della Convenzione di Istanbul che impone di considerare nelle decisioni relative all’affidamento dei figli minorenni i pregiudizi psicofisici causati agli stessi per avere assistito alla violenza.
Quello che manca è un’ ampia campagna di prevenzione ed educazione, è rendere effettivi gli strumenti di tutela disponibili, è evitare che al momento della denuncia o della cura la violenza di genere non venga riconosciuta, è evitare che si verifichino ingiustizie al momento dell’applicazione della legge perché i soggetti giudicanti mancano di prospettiva di genere, è riconoscere che la violenza maschile contro le donne è il maggior problema strutturale della società, che si basa sull’ineguale distribuzione di potere nelle relazioni tra uomo e donna, e incoraggiare la partecipazione attiva degli uomini nelle azioni volte a contrastare la violenza sulle donne, è “riconoscere che lo Stato ha l’obbligo di esercitare la dovuta diligenza nel prevenire, investigare, e punire gli atti di violenza, sia che siano esercitati dallo Stato sia che siano perpetrati da privati cittadini, e di provvedere alla protezione delle vittime. Il primo problema infatti è quello delle denunce mancate da parte di donne che non credono nelle Istituzioni, che temono quello che purtroppo i frequente accade, la “rivitimizzazione”. Altre donne sono talmente assuefatte alle molestie e alle angherie dei propri “cari”, che non denunciano solo per difendere se stesse da una realtà che hanno paura di distruggere.   
È un fenomeno che resiste nel tempo e in tutte le culture.  Nel 2006 è stata avviata un’indagine, per la prima volta interamente dedicata al fenomeno della violenza contro le donne, frutto di una convenzione tra l’Istat e il Ministero per i Diritti e le Pari Opportunità che l’ha finanziata con i fondi del PON “Sicurezza” e “Azioni di sistema” del Fondo Sociale Europeo. Attraverso un campione di 25.000 mila donne tra i 16 e i 70 anni misura tre diversi tipi di violenza agiti dentro la famiglia e fuori di essa: la violenza fisica, la violenza sessuale, la violenza psicologica. Le cifre ad oggi sono davvero impressionanti: 6 milioni 743 mila le donne vittime di violenza, pari al 31,9%; il 23,7% ha subito violenze sessuali (5 milioni); il 18,8% ha subito violenze fisiche (3 milioni 961 mila); il 4,8% ha subito stupri o tentati stupri (1 milione); il 18,8% ha subito comportamenti persecutori (stalking);  7 milioni 134 mila hanno subito violenza psicologica.1 milione 400 mila donne hanno subito violenza sessuale prima dei 16 anni, il 6,6% del totale. Più di metà delle vittime non ne ha parlato con nessuno. La letteratura internazionale sulla violenza domestica sottolinea come i comportamenti violenti si trasmettono tra le generazioni. La violenza subita e di cui si è stati testimoni da piccoli aumenterebbe il rischio che il comportamento venga riprodotto da adulti. È stata, anche, individuata una relazione tra l’essere stato testimone o l’aver subito da piccoli violenza e la vittimizzazione da adulti.   Anche gli ultimi dati ISTAT, di recente pubblicazione (15 giugno 2015) confermano l’estrema diffusione e pervasività della violenza maschile contro le donne anche se a nove anni dalla prima indagine sulla violenza contro le donne, registrano un miglioramento sul fronte degli abusi domestici oppure accaduti fuori dalla famiglia. Anche gli ultimi dati ISTAT, di recente pubblicazione (15 giugno 2015) confermano l’estrema diffusione e pervasività della violenza maschile contro le donne anche se a nove anni dalla prima indagine sulla violenza contro le donne, registrano un miglioramento sul fronte degli abusi domestici oppure accaduti fuori dalla famiglia. Le statistiche degli omicidi volontari registrati in Italia hanno previsto che il 2013 ha la più elevata percentuale di donne tra le vittime di omicidio mai registrata in Italia, pari al 35,7% dei morti ammazzati (179 sui 502). Il Lazio e la Campania con 20 donne uccise presentano nel 2013 il più alto numero di femminicidi tra le regioni italiane.  Il femminicidio nelle regioni del Nord si configura essenzialmente come fenomeno familiare, con 46 vittime su 60, pari al 76,7% del totale; sono il 68,2% dei casi al Centro e il 61,3% al Sud. le "mani nude" sono il mezzo più ricorrente, 51 vittime, pari al 28,5% dei casi: le percosse hanno riguardato il 5,6% dei casi, lo strangolamento il 10,6% e il soffocamento il 12,3%;La percentuale dei femminicidi con armi da fuoco resta alta (49, pari al 27,4% del totale) e con armi da taglio (45 vittime, pari al 25,1%).
Collegato alla modalità di esecuzione è il movente. Quello 'passionale o del possesso' continua ad essere il più frequente (504 casi tra il 2000 e il 2013, il 31,7% del totale): "Generalmente - dice il dossier - è la reazione dell'uomo alla decisione della donna di interrompere/chiudere un legame, più o meno formalizzato, o comunque di non volerlo ricostruire. Di fronte a questo è necessario prospettarsi delle soluzioni.
 Quello che serve quindi, oltre alla volontà politica di mettersi in gioco, sono anche fondi da parte del Governo per aumentare il numero dei centri antiviolenza istituiti a livello territoriale e per garantire alla vittima l’esistenza di una rete organizzativa locale che sia in grado di prendersi cura di lei mediante l’attività delle asl dei consultori attraverso gruppi di psicologhe, psichiatre e soprattutto attraverso la valorizzazione dei centri antiviolenza . Alla base di tali centri la metodologia dell’accoglienza a partire dalla relazione tra donne è rivolta al rafforzamento (empowerment) dell’identità della donna. Le donne sopravvissute alla violenza, la violenza stessa, le sue conseguenze, non vanno considerati come dati obiettivi e fenomeni omogenei, così come gli eventuali sintomi presentati non possono essere considerati un oggetto a cui sovrapporre le professionalità della cura. I Centri favoriscono l’autonomia delle donne e promuovono cultura e formazione a vari livelli per sensibilizzare e prevenire la violenza maschile alle donne attraverso l’accoglienza mediante un ciclo di colloqui con l’operatrice, eventuale consulenza psicologica, legale e di orientamento al lavoro, organizza gruppi di auto-aiuto; l’Ospitalità alle donne con i loro figli minori oltre ai servizi previsti dall’accoglienza con vitto e alloggio per quelle situazioni in cui la donna necessita di allontanarsi da casa e non ha soluzioni alternative I Centri favoriscono l’autonomia delle donne e promuovono cultura e formazione a vari livelli per sensibilizzare e prevenire la violenza maschile alle donne: la promozione della ricerca (indagini qualitative e quantitative) anche attraverso la raccolta e l’elaborazione dei dati relativi alle donne che accedono al Centro, garantendo la massima riservatezza; la promozione di politiche e piani d’azione locali, nazionali e internazionali contro la violenza, interloquendo con le amministrazioni nazionali, regionali e locali, l’attività di promozione e prevenzione nelle scuole per incidere più a lungo termine sull’aspetto culturale/strutturale della violenza di genere. E rivolto non solo alle donne ma anche agli stessi operatori sanitari se richiesto è possibile usufruire di un sostegno psicologico individuale e/o di sostegno alla genitorialità per intervenire sulle conseguenze più gravi della violenza subita. Attivazione di un percorso legale, volto ad avviare la separazione e l’eventuale denuncia penale per le violenze subite.  Attivazione di percorsi volti a facilitare l’inserimento lavorativo o a completare la propria formazione scolastica e professionale.   I centri promuovo anche l’attivazione di colloqui di accoglienza e di sostegno per minori che arrivano al centro con gravi traumi psicologici conseguenti alla violenza assistita al fine di riconoscere un ruolo genitoriale più consapevole nella loro madre troppe volte malvista a causa di pressioni psicologiche del padre che la raffigurava come una cattiva figura genitoriale. Tali centri sono organizzati da un gruppo di psicologhe, avvocati e operatrici e l’elemento fondamentale è proprio la presenza esclusiva di donne nella gestione degli stessi perché solo chi ha subito gli stessi problemi, chi si espone agli stessi problemi anche nella vita quotidiana, che può significare lo sguardo viscido di un uomo alla vista di una gonnellina mentre passeggi per strada, può comprendere appieno. E’ con l’operatrice che la donna costruisce il proprio progetto di vita. La metodologia dei centri antiviolenza parte dall’assunto che i percorsi di uscita nascono sempre dall’incontro tra i vissuti ei bisogni delle donne e la competenza delle operatrici nel coglierli ed orientarli verso azioni ed interventi che vedono le donne protagonista nel suo percorso verso l’emancipazione. Il loro principale lavoro consiste nell’elaborare il vissuto di violenza centrando la donna su sé stessa, aiutandola a riconoscere la violenza subita, elaborare sentimenti di vergogna, paura e colpevolezza, favorire l’emergere della persona identificando i bisogni e i principali punti di forza. Inoltre tale compito consiste anche nell’accompagnare la donna nel percorso per riacquisire stima di sé, tornare a lavorare a piccoli passi. Le professionalità come la legale, la psicologa, l’orientatrice al lavoro insieme alle operatrice formano un equipe che mira ad una maggiore consapevolezza e distribuisce maggior forza attraverso racconti di violenza sia alle consulenti sia alle donne vittime di soprusi. Le donne possono accedere al Centro direttamente o su invio dei servizi sociali dei comuni di residenza, delle forze dell’ordine, dei servizi sanitari e dei vari servizi presenti sul territorio, o tramite il 1522. Fondamentale è poi una campagna di sensibilizzazione nelle scuole probabilmente infondendo valori proprio in coloro che sin da subito si presentano più violenti scongiurando qualsiasi tipo di comportamento di questo genere mediante un lavoro costante da parte degli esponenti di questo centro antiviolenza con lezioni ad hoc fin dall’infanzia e creare un apposito database di informazione dei centri antiviolenza tale da garantire una costante informazione di esperienze di vite vissute. Aspetto davvero importante soprattutto per i maschi è l'educazione emotiva, cioè l'accompagnamento a riconoscere e verbalizzare le proprie emozioni senza lasciare che queste crescano incontrollate anche attraverso un adeguato contributo familiare perché è luogo primario dove il bambino cresce ed è un modello che difficilmente verrà dimenticato.
Altro aspetto fondamentale è una maggiore collaborazione delle forze dell’ordine in merito alle denunce presentate da donne vittime di soprusi. Si richiede una maggiore presa a carico di tali denunce fin dalle prime chiamate al fine di garantire l’introduzione di una forma di denuncia cautelativa.
Inoltre è necessaria anche una adeguata codificazione del reato di femminicidio mediante la previsione di una pena  che svolga una funzione deterrente e general preventiva e probabilmente una riforma del sistema penale nella parte dedicata ai delitti contro la persona in particolare ai reati di violenza sessuale, al reato di  percosse, alle lesioni personali con l’inasprimento delle pene previste perché, alla luce dei frequenti casi di violenza che i dati nazionali ed internazionaliregistrano,si avverte l’esigenza di abbattere tali soprusi. Soprattutto garantire una adeguata applicazione della Convenzione di Istanbul  che ai sensi dell’art. 18 della Convenzione che impone la cooperazione efficace tra tutti gli organismi statali competenti comprese le autorità giudiziarie a tutela dei diritti delle donne vittime di violenza di genere. All’articolo 9 la Convenzione prevede che occorre riconoscere e sostenere a tutti i livelli il lavoro delle ONG e delle associazioni della società civile attive nella lotta alla violenza contro le donne. Occorre adottare  misure necessarie per promuovere i cambiamenti nei comportamenti socio-culturali delle donne e degli uomini, al fine di eliminare i pregiudizi, costumi, tradizioni e qualsiasi altra pratica basata sull'idea di inferiorità della donna o su modelli stereotipati dei ruoli delle donne e degli uomini (art.12 Convenzione di Istanbul) perché solo se  i Governi riescono a prendere una posizione forte contro la violenza sulle donne e a garantire loro il diritto alla sicurezza che come consociate gli spetta, si renderanno capaci di vincere questa battaglia.
Fabrizio Giulimondi






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