Alì
ha gli occhi azzurri, opera seconda di Claudio Giovannesi, presente all’appena terminato Festival Internazionale
del Cinema di Roma, non mi ha entusiasmato.
Lievemente pasolineggiante, sia per l’ambientazione della storia in una anonima
periferia romana (buona parte di essa non è così, ma alcuni Autori amano descriverla così!), sia
per la presenza di alcuni personaggi con tinte lombrosiane, sia perché il
titolo richiamante alcuni versi della poesia “Profezia” scritta da Pier Paolo
Pasolini nel 1962 - e pubblicata nel
1964 nel volume “Poesia in forma di rosa” – nei quali viene vagheggiata la
massiva immigrazione nordafricana capeggiata da uno dei tanti Alì dagli occhi azzurri.
Nel racconto il nostro Alì
è Nader, un ragazzo sedicenne di origine egiziana appartenente alla seconda
generazione di immigrati, ossia nati o cresciuti in Italia da genitori
extracomunitari.
Nader non è né carne né pesce, invero è senza radici,
perché si sente italiano e vuol fare
l’italiano adoperando un linguaggio volgare e romanaccio – cosa ben diversa dal romanesco – e rifiutando le
direttive religiose islamiche e i
costumi del Paese di provenienza dei
genitori. Nader si ricorda di essere musulmano solo quando toglie
il crocifisso appeso alle pareti della
propria aula scolastica, anche se la sua tanto ostentata a familiari e amici occidentalità viene subito meno nel modo di rapportarsi con la sorella e la fidanzata
italiana, uscendo prepotentemente fuori la propria originaria cultura.
Interessante, a mio vedere, è l’elemento che si manifesta nel corso della visone del film: l’emarginazione in realtà non
esiste, se la si intende nella accezione di atto discriminatorio condotto dagli
“altri”, i componenti la comunità nativa. Qui in realtà abbiamo a che fare con un caso (o, meglio, uno dei tanti casi) di
autoemarginazione: Nader-Alì con le lenti
a contatto di color azzurro per nascondere i propri tratti somatici si
relaziona con il mondo esterno in una tale maniera che si emargina da solo. E’
la sua negazione delle radici, il suo essere
né egiziano né italiano, né musulmano né
altro, a renderlo – purtroppo come tanti al pari di lui - un
disadattato.
Questa volta però – e di questo ringrazio il
regista – i colpevoli non siamo Noi….
e non è evento da poco!
La “presa diretta”, ossia la recitazione
effettuata dal vivo senza successive ripuliture del suono o intermediazioni
tecnologiche, rende la narrazione indubbiamente
più vera (il lavoro, infatti, si inserisce a pieno titolo nel filone culturale
del neorealismo), seppur al termine della
proiezione qualche effetto leggermente soporifero purtroppo lo determina.
Fabrizio
Giulimondi
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