Il
rapporto fra economia e politica è indubbiamente vicendevole, essendo essi
settori di vita pubblica e sociale che si auto influenzano. Gioca, invece, un
ruolo “pivotale” il concetto di filosofia, capace di influenzare tanto
l’economia quanto la politica, e arrivando ad incidere sulle scelte di fondo
nel campo dell’una e dell’altra. L’esito ultimo finisce per ripercuotersi sulla
definizione delle scelte di politica pubblica, sui temi di policy rilevanti ed
anche, inutile nasconderlo, sul modo che gli attori istituzionali politici ed
economici hanno di esercitare tali funzioni. Non stupisce l’attinenza tra lo
svuotamento della dimensione valoriale che attanaglia il nostro presente, i
numerosi scandali che sconquassano il rapporto tra pubblici poteri e attori
economici e il macro problema che tutto ciò comporta all’interno della sfera
dell’etica pubblica.
Economia
è un termine greco, composto dai due sostantivi oikos (casa) e nomos
(regola, governo). Il “governo della casa” rinvia all’idea di una buona amministrazione,
e quindi del corretto uso delle risorse disponibili. Il significato primario di
economia non contiene dunque un immediato richiamo filosofico ma rimanda al
concetto di efficienza, ossia a un principio di razionalità strumentale
(rapporto mezzi/fini) pure storicamente centrale per l’economia. Il
termine “casa” può assumere diversi significati, che vanno dal nucleo
domestico e familiare fino all’ azienda, per arrivare alla polìs. Nell’antichità il termine economia rimandava ad una scienza
normativa che prevedeva il “vivere bene dentro l’oikos”. La “crematistica”,
invece, indicava l’arte dell’accumulare ricchezza. Gli antichi tennero
particolarmente a cuore tale distinzione, che permetteva di non identificare il
campo della crematistica con l’intero campo sociale. La differenziazione dei
due concetti, così marcata nell’epoca antica, finì per essere costantemente
compressa nel corso dei secoli, tanto che l’economia politica moderna nacque
nel 1700 con Adam Smith esattamente grazie all’ unificazione dei concetti di
economia e crematistica.
Ma altri aspetti del sapere economico, che
oggi riteniamo attuale, affondano le proprie radici nel pensiero antico. Il
tema dello scambio, che anticipava l’utilizzo di moneta, fu al centro della
creazione della logica di mercato. Il tema dello scambio, del mercato, della
moneta rappresentarono la prima forma di giustizia, che Aristotele chiamava
commutativa e che distingueva dalla giustizia distributiva. Ogni volta che
riceviamo qualcosa questo crea in noi l’obbligo a ricambiare. Ciò fa sì che in
ogni società il ricambio avvenga con qualcosa di fisicamente diverso, ma in
qualche modo equivalente, a quanto ricevuto. Nasceva, di fatto, la concezione
del valore economico e la moneta diventa(va) lo strumento di misura degli
equivalenti. La giustizia commutativa anticipò, e di molto, l’idea di
concorrenza, stabilendo una sorta di “democrazia economica”. Naturalmente non
era facile, e del resto non lo è tutt’ora, realizzare la giustizia commutativa
attraverso il regime di concorrenza: le alterazioni della concorrenza erano
comunissime, sino all’estremo della condizione di monopolio, che per Aristotele
rappresentava il massimo esempio di violazione della medesima giustizia
commutativa. La disciplina economica nasceva, dunque, su basi filosofiche,
addirittura normative. Siamo nell’ambito di una disciplina morale, il cui fine
è la realizzazione della giustizia, quanto meno da Platone e da Aristotele in
poi.
Mentre la giustizia
commutativa era l’equivalenza nello scambio, la giustizia distributiva mirava
ad un’equilibrata proporzione nella distribuzione dei beni, anticipando ciò che
oggi noi chiamiamo giustizia sociale. In epoca moderna, la distinzione tra
economia e crematistica finì per ridimensionarsi sempre più e la ricchezza
divenne misura crescente della felicità. Conviene qui ricordare subito che la
massima opera di Adam Smith, del 1776, riguardava la ricchezza stessa. Il
titolo completo dell’opera di Smith è Indagine sulla natura e le cause
della ricchezza delle nazioni. Oggetto dell’economia per i moderni divenne
anzitutto il sistema economico, piuttosto che il singolo individuo. Occorreva
stabilire la natura della ricchezza (ossia cosa fosse la ricchezza) e, su
questa base, sviluppare un’eziologia
della ricchezza stessa (la ricerca delle sue cause). In epoca moderna la
ricchezza iniziò ad avere al centro del suo interesse lo studio della dinamica
della ricchezza, con l’indagine sulle cause della sua formazione e della sua
“esportabilità”. La modernità, non a caso, fu l’epoca della formazione degli
Stati nazionali, con un processo storico che portò in evidenza il valore politico della ricchezza delle
nazioni. Accanto alle armi e alla diplomazia, la ricchezza gradualmente emerse
come fattore spesso pragmaticamente decisivo di potere politico. Le scuole di
pensiero economico che si succederanno nel corso dell’epoca moderna si
divideranno, infatti, proprio sulla natura della ricchezza, e finiranno per
legarsi storicamente all’esercizio del potere politico del proprio tempo.
La
prima concezione della ricchezza, sviluppata dalla scuola mercantilista (tra il
1500 e il 1700), è quella dell’accumulazione di denaro come misura della
ricchezza di un sistema statuale e, quindi, come parametro della sua forza
sullo scacchiere internazionale. Proprio del valore del denaro e dei beni, in
relazione alla loro diffusione sul mercato, si occuparono numerosi autori, come
Potter, Asgill, Cary e Davenant. Furono tra i primi a sostenere l’adozione
monete cartacee, sotto forma di banconota, proprio per separare il valore del
metallo delle monete dal valore comunemente assegnato al denaro quale parametro
comune di scambio, suggerendo che la maggiore rapidità di
scambio delle monete cartacee avrebbe favorito l’industria e il commercio. In
generale, la scuola mercantilista assegnò grande attenzione alla bilancia dei
pagamenti degli Stati, vale a dire lo strumento che registra ancora oggi il
saldo del dare e avere di un sistema statuale rispetto all’estero, ritenendo
tale via l’unica possibile per la misurazione dell’espansione o della
diminuzione della massa monetaria di un sistema statuale e, dunque, il suo
stato di salute.
La
scuola mercantilista indurrà a una mentalità capace di diffondersi
gradualmente e rapidamente, che privilegerà non solo il denaro in sé in quanto
misura di salubrità di un dato sistema economico, ma che influenzerà i temi del
credito prima e della finanza poi. L’obiettivo dell’economia sarà quello di
accrescere il valore delle attività monetarie, tanto di quelle creditizie che
di quelle finanziarie. La finanza rappresenterà uno step successivo, e avverrà con la cartolarizzazione dei rapporti di
debito e credito. Il credito (con il corrispondente debito) non sarà più
semplicemente il rapporto tra un soggetto identificabile e un’istituzione
creditizia, ma si tradurrà in un prodotto finanziario negoziabile, e quindi in
un titolo di credito a tutti gli effetti. Il periodo mercantilista, non a caso,
fu l’epoca della nascita delle grandi istituzioni finanziarie del capitalismo moderno.
Intuizioni quali i mercati finanziari, i debiti pubblici e le banche centrali
appartengono esattamente a questa fase. Il mercantilismo, in sintesi, divenne
il frutto più maturo di quella mentalità pragmatica e dirigista che
caratterizzò la tarda età dell’assolutismo e che poco si curava delle
sottigliezze della giustizia commutativa o della giustizia in genere. Tale
mentalità finì per propugnare una prassi politica ontologicamente nuova, che
trovò il suo alveo politico naturale nella formazione dei moderni Stati
nazionali ma che ebbe nella graduale migrazione da un’economia prettamente
aristocratica e terriera ad una tipicamente borghese e industriale la sua
manifestazione teoretica più piena. Il protezionismo che produsse finì per
esaltare gli aspetti monetari e finanziari della vita economica, segnando la
cesura definitiva tra l’epoca antica e quella moderna.
Largamente francese è la
reazione al mercantilismo che si sviluppa sin dagli anni venti del Settecento,
per poi crescere impetuosamente attorno alla metà del secolo XVIII, e che
prese il nome di scuola fisiocratica. La fisiocrazia aveva per obiettivo il
recupero di una concezione della vita economica frutto della speculazione
intellettuale, e non appannaggio esclusivo di banchieri e creditori. Il nome di
fisiocrazia evocava, già di per sé, il richiamo al dominio della natura. I
fisiòcrati, infatti, si richiamavano al diritto di natura e promuovevano la
concorrenza quale mezzo di accrescimento della ricchezza, finendo per criticare
l’imposizione di dazi e di imposte indirette. L’approdo ultimo finì così per
essere la critica feroce della concezione monetaria e finanziaria della
ricchezza propugnata dal mercantilismo. Moneta e finanza non potevano essere
più, a patto che lo fossero mai stati, i parametri esclusivi della ricchezza di
uno Stato. Al massimo, potevano essere strumenti utili per la promozione di
ricchezza, ma a patto che tale ricchezza fosse misurabile in termini reali,
ossia di beni materiali prodotti. Nel celebre Tableau économique del
1758 del grande maestro della Fisiocrazìa, François Quesnay, la moneta veniva
messa all’angolo e ridotta a mero strumento di circolazione. L’accumulazione
della ricchezza, per Quesnay, dipendeva dalla capacità di un sistema paese di
produrre prodotto netto, ossia di produrre un avanzo di prodotto a seguito
dell’accantonamento delle risorse utilizzate per la produzione stessa. Non da
altro. Per i fisiòcrati il solo settore economico capace di produrre prodotto
netto era e rimaneva l’agricoltura. Rovesciando le parti rispetto alla
concezione mercantilista, i fisiòcrati finirono per esaltare l’agricoltura come
settore produttivo per eccellenza e per prendere le distanze dalla manifattura,
“sterile”, a loro avviso, perché incapace di creare prodotto netto.
Questa
piccola sistematizzazione delle correnti economiche nell’Occidente moderno non
può che portarci al pensiero di Adam Smith, grazie al quale l’economia politica
nel ‘700 ebbe il suo grande momento di gloria. Caratteristica specifica delle
analisi di Smith fu il peso e il rilievo che egli attribuì al concetto di
“simpatia”. Nel sistema di Smith il dato antropologico di fondo fu costituito
dalla capacità dell’uomo di condividere,
attraverso l’immaginazione, i sentimenti dei suoi simili, sviluppando una
capacità di immedesimazione. Nessuna delle specie animali ha una simile
capacità. Dalla simpatia,
dall’immedesimazione, scaturirebbero non solo regole morali di comportamento ma
anche l’origine stessa dello scambio nella vita associata. La coscienza morale,
per Smith, finirebbe per non risponde più ad un principio razionale interiore,
ma, scaturendo dal rapporto simpatetico che l'uomo ha con gli altri uomini,
presenterebbe un carattere prevalentemente sociale. Le stesse norme sociali non
possono che spingere verso modelli di solidarietà e integrazione sociale.
In quest'ottica, ad esempio, il diritto di proprietà non è un diritto naturale, come l'intendeva John Locke, e per questo anteriore ad ogni convenzione sociale, né un artifizio
storico come sostenuto da Hume, ma il risultato di un processo speculare di simpatia e socializzazione
che giustifica ad esempio la proprietà in quanto possesso di un oggetto, frutto
legittimo di un lavoro personale, che se fosse espropriato,
implicherebbe un giudizio negativo dell'uno sull'altro.
Riprendendo la
riflessione di Smith, anche il Premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz
sottolinea più volte come sia rilevante anche oggi, a livello antropologico ed
economico, il concetto di simpatia,
il cui compito è quello di non cedere ad una politica astratta
caratterizzata dalla perdita di contatto da parte degli attori politici con le
realtà sociali circostanti ma tendere ad un miglioramento concreto e continuo delle condizioni di vita economiche e
sociali. Il politico e l’economista sono coloro che ragionano, proprio
come il filosofo, su una realtà sociale già costituita al fine di arricchirla e
perfezionarla, apportando nella società un contributo diretto e condiviso che
miri ad un beneficio reale delle persone.
E’ da queste premesse che
nascerà una nuova concezione della ricchezza, proposta già da Smith dopo aver
criticato le nozioni delle due scuole precedenti (quella mercantilista e quella
fisiocratica). La ricchezza, a partire da Smith, diviene il frutto
dell’intensificarsi della relazionalità umana attraverso lo scambio. Lo scambio
quale altra faccia della divisione del lavoro che, secondo Smith, resta la
principale causa del progresso e dell’accumulazione della ricchezza. La
divisione del lavoro a sua volta trova, per Smith, la sua applicazione
caratteristica nella manifattura (espressione paradigmatica dell’apogeo
borghese fin ad allora politicamente sotto-rappresentato), così che anche da
questo punto di vista lo schema fisiocratico arrivi ad essere sovvertito.
Il frutto avvelenato di tale
concezione, di certo illuminata nella sua incredibile capacità di analisi e
lettura della società nel suo divenire, fu un il laissez faire che
condizionerà gli aspetti teorici e pratici dell’economia politica per tutto
l’800, fino ai primi decenni del Novecento. Complice la crisi economica di
sistema che attanaglierà il settore produttivo statunitense tra le due guerre
mondiali, l’avvento di John Maynard Keynes cambierà radicalmente i parametri
teorici fino ad allora caratterizzati da dogmatici assiomi. Primo, fra tutti,
lasciare libero il mercato di regolarsi e di regolare la vita sociale. L'asse
portante della teoria macroeconomica dell'economista inglese sarà, invece, l’eliminazione
dell’instabilità del mercato e delle diseguaglianze economiche e sociali per
realizzare “una buona vita e una buona società”.
Fautore della piena
occupazione, che non coincide con la crescita economica illimitata ma con
l'equa ripartizione del lavoro e dei redditi, Keynes è stato ridotto, negli
anni, all'assunto che la causa della
disoccupazione risieda nella rigidità dei salari monetari. Al contrario, è
l'assenza e l’imprevedibilità della domanda, sosteneva Keynes, a causare
l'instabilità del mercato. Il che, si badi bene, è in diretta opposizione alla
tesi degli economisti neoclassici secondo cui l'offerta generi la sua domanda e
il sistema di mercato si autoregoli.
Dalla Teoria generale prese
avvio quella che è stata chiamata la “rivoluzione keynesiana”. Fedele alla sua
idea di fondo che gli economisti dovessero mirare a scrivere cose utili, Keynes
si propose di superare le profonde differenze di opinioni fra gli economisti,
colpevoli di aver distrutto l’influenza pratica della teoria economica. Ossia,
incapaci di generare ricchezza e benessere. Proprio tale appello agli
economisti, affinché si sforzassero di uscire dal campo ristretto delle
formulazioni astratte, specialmente quelle di carattere matematico, per
“sporcarsi le mani” con i fatti e con le passioni politiche degli uomini spiega
il fascino straordinario che Keynes esercitò sugli economisti del suo tempo, e
in particolare su quelli più giovani. Fascino che divenne irresistibile quando
l’aumento apparentemente inarrestabile della disoccupazione e della povertà,
seguito al crollo di Wall Street del 1929, rese palese l’inservibilità delle
teorie economiche tradizionali di fronte a fatti straordinari. La forza del
messaggio di Keynes fu quella di offrire una spiegazione convincente delle
cause della crisi, accompagnata dal rifiuto morale di rassegnarsi davanti ai
problemi della società, ricercando al contempo risposte credibili e
sperimentabili.
Per i primi trent’anni del
secondo dopoguerra è sembrato che l’interpretazione keynesiana del
funzionamento delle economie capitalistiche fosse fissata una volta per tutte e
che le relative implicazioni, dal punto di vista della politica economica,
fossero solide e indiscutibili. Poi, dalla metà degli anni settanta del secolo
scorso, la rivoluzione keynesiana ha perso rapidamente mordente e vigore, e
sono ritornate in auge, pur se confezionate in forme apparentemente nuove, le
idee che la Teoria generale aveva spazzato via. Un ritorno al passato che ha
fatto sì che la scienza economica perdesse nuovamente di vista, nel prevalere
dei modelli formali, la sua vera ragion d’essere, ossia quella di contribuire a
risolvere i problemi dell’umanità.
A partire dal 2007/2008 il
crollo del mercato dei subprime negli
Stati Uniti, l’ondata dei fallimenti bancari, l’improvviso venir meno dei
canali di circolazione della moneta, il diffondersi della crisi in tutto il
mondo e il panico evidente dei governi e delle istituzioni internazionali hanno
incrinato le certezze della teoria economica dominante, di cui si erano nutriti
il mondo accademico e i governi. Per molti decenni il discrimine fra destra e
sinistra era stato segnato dal giudizio di fondo sull’assetto finale che
avrebbe dovuto avere il sistema economico dal punto di vista del controllo sui
mezzi della produzione. Da un lato i sostenitori del capitalismo, dall’altro i
sostenitori della necessità di una radicale trasformazione delle basi stesse
del sistema economico nel senso del socialismo. La caduta del Muro di Berlino,
la venuta meno di un intero mondo valoriale ed economico quale quello della
galassia sovietica, avevano fatto ritenere che la “fine della Storia”
teorizzata da Francis Fukuyama, ossia l’apice del processo di evoluzione
sociale, economica e politica dell'umanità raggiunto alla fine del Ventesimo
Secolo, fosse più di una ammaliante suggestione. Oggi, venuta meno
l’alternativa radicale fra capitalismo e socialismo, il discrimine fra destra e
sinistra è finito per porsi all’interno stesso del mondo capitalistico. La luce
accesa su zone d’ombra per troppo tempo dimenticate, ha finito per scoperchiare
antinomie non più riconducili a
soluzioni di piccolo cabotaggio. I soggetti politici, dinanzi a tassi
elevatissimi di disoccupazione e ad ineguaglianze sociali sempre più
accentuate, hanno titolo per ingaggiare una battaglia volta a cambiare le leggi
e la filosofia delle istituzioni economiche dominanti, avendo, nelle politiche
keynesiane, il più forte e organico complesso di proposte programmatiche. Il
caso dell’Unione Europea, e della crisi politica, economica e monetaria che
attanaglia la vecchia Europa, ne rappresenterebbe il miglior caso di scuola
possibile.
Da oltre duemila anni l’economia
si affanna, dunque, attorno alla compatibilità tra giustizia commutativa e
giustizia distributiva. La linea prevalente negli ultimi anni ha privilegiato
una concezione piuttosto radicale del mercato concorrenziale, accompagnata
dalla diffusa convinzione che la giustizia distributiva rappresenti un prodotto
congiunto rispetto alla promozione della giustizia commutativa. Questo ha
condotto ad un’ enorme sottovalutazione delle analisi sulla distribuzione della
ricchezza e del reddito, in contrasto con una realtà fatta dalla crescente e
smisurata diseguaglianza. Di qui la vastissima eco ottenuta dal recente volume
in tema di distribuzione della ricchezza e del reddito, dell’economista
francese Thomas Piketty, che ha colpito nel segno riportando energicamente alla
ribalta proprio la teoria della distribuzione. Ne è derivato una decisa
rivalutazione del pensiero keyensiano, capace di porre su basi nuovamente
dialettiche le azioni del decisore pubblico nel contesto macro economico con il
rilancio dell’economia reale, soprattutto in tempo di stagnazione economica e
di crisi occupazionale. Non meno interessante è la riflessione dell’intellettuale contemporaneo Slavoj
Žižek, il quale rileva come sia sempre più contingente il ruolo dell’etica e il
suo rapporto con l’economia e la politica. Se non si riabilita la dimensione
centrale della politica, gli uomini del nostro tempo, secolarizzati e post
ideologici, si troveranno sempre di più in una condizione di “deficit di senso”, compensata nella
banale attività di consumo. Žižek coglie, a tal proposito, due processi
preoccupanti, uno collettivo e socio-politico, l’altro individuale. Da una
parte, infatti, la politica sembra aver perso ogni riferimento ideale per
ridursi a mera pratica di governance, accanto a forme di spettacolarizzazione e
derive populiste; dall’altra, gli individui sembrano muoversi in una completa
assenza di senso, travolti da relativismo e nichilismo, in un “deserto del
reale” che li condanna agli imperativi e a i divieti imposti non più dalla società
ma dalla propria soggettività, ormai piegata alle logiche del dover godere,
dell’eccesso e del mero consumo. Il suo è un discorso etico-politico, perché
insiste su un punto fondamentale, ossia sulla responsabilità non solo di
compiere il nostro dovere o di lavorare per il bene, ma di decidere cos’è il bene e di come realizzarlo
nella società attuale.
Pur
rifuggendo da ogni imperativo etico, che assegni allo Stato il compito di
decidere della sfera individuale di ognuno, andando ben oltre le mutue concessioni
contrattualistiche dello Stato moderno, è però a mio avviso indispensabile il
recupero di una dimensione morale della sfera pubblica, che si sostanzi anche
nel coraggio di adoperarsi per le idee che si ritengono giuste e adeguate ai
problemi cui porre soluzione. Se di rapporto tra economia, politica e filosofia
si deve parlare, una tale dimensione appare essere la pietra angolare da cui
ricostruire l’edificio sociale all’interno del quale siamo tutti,
indistintamente, costretti a vivere e a operare.
Fabrizio Giulimondi