È un
approfondito saggio giuridico, una monografia che affronta un tema,
giuridicamente e politicamente spinoso, tenendosi ben lontano da sterili
diatribe faziose, rimanendo ben ancorato al diritto ed alla norma, alla
Costituzione, alla giurisprudenza delle Corti italiane e sovranazionali.
L’Autore impone ai suoi studi una veste scientifica e tecnica, scientificità e
tecnicità che si evincono dal rigore logico delle argomentazioni poste a
confronto, supportate da una ricca annotazione bibliografica. Fabio Elefante si
mantiene tendenzialmente equidistante, anche se certune volte palesa la propria
preferenza per l’una invece che per l’altra tesi. Le linee di pensiero
dottrinarie e giurisprudenziali sono illustrate sempre con un approccio
rigidamente teoretico e gnoseologico, seguendo una metodologia di ricerca dal
generale al particulare, dalla disposizione
giuridica al caso concreto, vagliando la migliore letteratura giuridica e
passando in rassegna sentenze della Consulta, della Corte di Strasburgo e di
Lussemburgo. Lo scritto non lascia margini all’empirismo. Il tema proposto è
come un grande mosaico che viene esaminato in ogni singolo aspetto con uno
scrutinio logico, giuridico e dialogico meticoloso e severo. Il lettore è
impossibilitato a distrarsi nel leggere (e studiare) un lavoro che non è una
mera compilazione di pensiero dottrinario o una semplice raccolta di massime
giurisprudenziali. In esso si riscontra un quid
pluris, un quid novi: Elefante innova
la dottrina contemporanea sul tema che egli tratta, contribuendo ad un dibattito
che non cessa di agitare le stanze istituzionali, politiche come accademiche. Il
distacco dell’Autore dal tema su cui egli discetta è il leit motiv, il vero canovaccio del libro, la sua chiave di lettura.
Il distacco porta ad una analisi senza fronzoli, puntuale, quasi chirurgica di
tutte le poliedriche sfaccettature che compongono la questione della
responsabilità di magistrati da attività giurisdizionale. Figurativamente
sembra di assistere ad una operazione in cui lo Scrittore-giurista, al pari di
un chirurgo, seziona con il bisturi - costituito dagli strumenti ermeneutici
forniti dalla scienza giuridica - il corpo composto dalla responsabilità dei
giudici da attività giurisdizionale. Il lavoro, denso e dotto, rappresenta una
monografia che non potrà non essere presa in considerazione dagli studiosi.
Un romanzo viene valutato
anche per la tecnica narrativa, mentre una monografia viene vagliata anche e
soprattutto per la capacità critica delle tematiche trattare, capacità che
questo volume possiede tutta. Suggestivi i richiami di natura storiografica che
“tengono per mano” le dissertazioni giuridiche e i rimandi legislativi,
rafforzando le prime e facendo meglio comprendere i secondi. Molto utili i
costanti agganci comparatistici ai sistemi sovranazionali e agli ordinamenti statuali
stranieri. Dallo stesso titolo si evince l’importanza della Costituzione,
pietra angolare della trattazione dall’inizio alla sua conclusione.
L’opera è meritoria su molti
versanti, a partire dall'aver messo in luce la spinta europeista alla
approvazione delle leggi 117/1988 e 18/2015, oltre il rapporto - già allora
controverso - fra le istanze comunitarie ed il loro accoglimento in seno
all’ordinamento giuridico statuale italiano.
Prezioso l’aver messo in luce la
decisione del 13 giugno 2006 (Traghetti del Mediterraneo), che,
riferendosi alla l. n. 117 del 1988, ha stabilito, in primo luogo, che non è
compatibile con il diritto comunitario l’esclusione della responsabilità civile
nel caso in cui il danno sia dovuto ad un’errata interpretazione di norme o di
valutazione del fatto o delle prove e, secondariamente, che non lo è una
legislazione che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di
dolo o colpa grave del giudice, se ciò impedisce il risarcimento nei casi in
cui vi sia una violazione manifesta del diritto vigente.
È evidente la prospettiva da cui muove
la giurisprudenza comunitaria: alla Corte di giustizia interessa che gli Stati
nazionali assicurino l’applicazione uniforme del diritto comunitario in ogni
settore dell’ordinamento e, pur tenendo presente la peculiarità della funzione
giurisdizionale, pretende che sia possibile ottenere un risarcimento anche se
il danno è provocato da una decisione giudiziaria.
Nonostante la pronuncia appena accennata avesse rilevato
un’incompatibilità tra il diritto nazionale e i principi del diritto europeo,
lo Stato italiano non è intervenuto ad adeguare l’ordinamento interno ai
dettami della Corte di giustizia, e solo
in alcuni rari casi i giudici hanno tenuto conto dei principi espressi a
livello comunitario nell’interpretare il diritto interno.
Per queste ragioni, nel 2009, la Commissione Europea ha aperto nei
confronti del Governo italiano una procedura di infrazione, conclusasi con una
pronuncia in cui si è affermato che la Repubblica italiana non ha rispettato
l’obbligo di conformarsi al diritto dell’Unione. Per evitare la condanna, lo
Stato italiano avrebbe dovuto provare che il nostro ordinamento è in grado di
garantire il risarcimento dei danni provocati da un organo giurisdizionale di
ultimo grado in violazione manifesta del diritto comunitario, circostanza che,
invece, non è stata dimostrata. La Corte di giustizia, accertato che il
legislatore italiano non ha modificato la l. 117 del 1988 e che la
giurisprudenza italiana non ha dato, di tale legge, un’interpretazione conforme
alle proprie decisioni, ha ribadito che la disciplina contenuta nella l. n. 117 del 1988 era
contraria al diritto dell’Unione europea, imponendo così un intervento
legislativo.
Il legislatore, per quanto con qualche anno di ritardo, ha rivisitato l’intero
impianto della legge n. 117 del 1988, che, con le modifiche introdotte dalla
legge n. 18 del 2015, risulta oggi profondamente modificato.
Resta ancora esclusa – come, del resto, nella quasi totalità degli
ordinamenti europei– qualsiasi forma di responsabilità diretta nei confronti dei magistrati
(salvo, come già in passato, che la parte sia stata danneggiata da un fatto costituente
reato), ma sono ridefinite le ipotesi in cui l’azione di risarcimento dei danni
può essere proposta e si elimina il filtro di ammissibilità della domanda.
La legge n. 18 del 2015, pur non avendo abbandonato del tutto – come visto
- il riferimento alla “condotta” del magistrato, ha, tuttavia, il merito di
aver superato il parallelismo tra la responsabilità dello Stato e quella dei
giudici, allargando la prima e mantenendo entro confini più ristretti la
seconda.
Costretto dalle pronunce di condanna
della Corte di giustizia, che ha obbligato lo Stato italiano a dotarsi di uno
strumento capace, in casi limite, di risarcire il cittadino dei danni causati
dalla violazione del diritto dell’Unione europea nell’esercizio della funzione
giurisdizionale, il Parlamento ha colto l’occasione per ripensare la legge n.
117 del 1988, cercando un nuovo bilanciamento tra indipendenza e
responsabilità.
Come dichiara l’art. 1 della legge n. 18
del 2015, la finalità dell’intervento normativo è quella di “rendere effettiva
la disciplina che regola la responsabilità civile dello Stato e dei magistrati,
anche alla luce dell’appartenenza dell’Italia all’Unione europea”.
Come trapela fra le righe del saggio, della legge 18/2015 è possibile solo
darne una valutazione “in astratto”, mettendo in luce le criticità
interpretative che la nuova disciplina sta ponendo. Ai Fabio Elefante spetterà
intraprendere nuove ricerche aventi il compito di approfondire le implicazioni
pratiche della attuazione della legge 18/2015.
Fabrizio Giulimondi
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