lunedì 17 dicembre 2012

AMOUR: FILM VINCITORE DELLA PALMA D'ORO A CANNES



Probabilmente Amour di Michael Haneke è uno delle più belle opere cinematografiche dell’ultimo ventennio. Meritatamente vincitore della Palma D’Oro a Cannes (2012),  vede come attori,  protagonisti assoluti del film, due strepitosi Emmanuelle Riva e Jean-Louis Trintignant, che esprimono con il  proprio corpo, il proprio viso, la propria gestualità, i propri silenzi,  il dolore, il dolore vero, il dolore drammatico, un dolore impietoso, sempre più prepotente. Il regista non risparmia lo spettatore, entrando nelle pieghe più profonde della sofferenza  e della malattia. Il dolore, la sofferenza e la malattia incarnano e sostanziano ogni scena del film: eppure è l’amore ad essere il vero collante, il vero substrato, la vera forza potente ed onnipresente per tutte le due ore, perché l’amore ha cementificato la vita di questa coppia di anziani francesi, sposati da decenni, con una figlia amata e da cui sono amati, unita in matrimonio con un inglese da cui ha avuto due figli.  Gli anziani coniugi si amano ancora, si sono sempre amati, appassionati di musica, concertisti, musicisti, maestri di pianoforte, con allievi che hanno toccato vette eccelse nel panorama musicale europeo.
 Anne e Georges hanno vissuto e vivono in uno splendido appartamento a Parigi, quando sopraggiunge  il demone del male fisico: lei ha una occlusione della carotide e l’ operazione chirurgica la offende ancora di più, impedendole l’uso di tutto il lato destro del corpo. L’amore di lui si accresce ancor di più, accudendo la moglie  in ogni modo e maniera: la tenerezza di alcune scene è di non poco momento!
Ma un secondo attacco della patologia la aggredisce rendendole massimamente difficoltosa la favella, determinandone l’incontinenza e togliendole definitivamente  l’ autosufficienza: il suo corpo è devastato; il suo volto, così espressivo e luminoso, deformato. Tragica la scena del “dialogo”, fatto di pietosi e incomprensibili fonemi,  fra madre e figlia; terribile la cacciata (un “Vattene!” articolato in maniera stentata e gutturale) di quest’ultima perché la mamma si sentiva umiliata nella propria prigione corporea;  grandiosa la scena del licenziamento ad opera  del marito di un’ infermiera che accudiva la moglie come se fosse una bambina idiota (come se ne vedono molte nelle case private, nelle cliniche  e negli ospedali: “Guardi che bella signora che è diventata adesso che l’ho pettinata?” ponendo davanti ad un viso deturpato uno specchio),  e non una Signora, una concertista, una musicista, una maestra di pianoforte di ottimi esecutori d’orchestra, devastata dalla malattia.
La struttura portante di Amour sono i primi piani. Le scene sono prevalentemente primi piani: primi piani degli ambienti della splendida abitazione ove si svolge  tutta la narrazione del film; i primi piani delle pitture che decorano le eleganti pareti; i primi piani dei volti di lei, che comincia ad avere le prime avvisaglie del male per arrivare inesorabilmente ad un viso immobile incarnazione della  fisicità della afflizione; il volto di lui, rassegnato e disperato, ma sempre determinato, sempiterna espressione di amore e di dolcezza per la consorte. Amore fino alla fine, nella salute e nella malattia.
Le scene scorrono, legate  dai primi piani e da una colonna sonora fatta dal silenzio, assenza di “verbo” fra gli interpreti, silenzio che pesa e comunica e suona e risuona nella sala, interrotto da qualche breve brano di Schubert…e quando la proiezione termina, nessuno spettatore si è alzato prima di qualche minuto.
Fabrizio Giulimondi

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