Probabilmente Amour di Michael Haneke è uno delle più belle opere cinematografiche
dell’ultimo ventennio. Meritatamente vincitore della Palma D’Oro a Cannes (2012),
vede come attori, protagonisti assoluti del film, due
strepitosi Emmanuelle Riva e Jean-Louis Trintignant, che esprimono con il proprio corpo, il proprio viso, la propria
gestualità, i propri silenzi, il dolore,
il dolore vero, il dolore drammatico, un dolore impietoso, sempre più
prepotente. Il regista non risparmia lo spettatore, entrando nelle pieghe più
profonde della sofferenza e della malattia.
Il dolore, la sofferenza e la malattia incarnano e sostanziano ogni scena del
film: eppure è l’amore ad essere il vero collante, il vero substrato, la vera
forza potente ed onnipresente per tutte le due ore, perché l’amore ha
cementificato la vita di questa coppia di anziani francesi, sposati da decenni,
con una figlia amata e da cui sono amati, unita in matrimonio con un inglese da
cui ha avuto due figli. Gli anziani
coniugi si amano ancora, si sono sempre amati, appassionati di musica,
concertisti, musicisti, maestri di pianoforte, con allievi che hanno toccato
vette eccelse nel panorama musicale europeo.
Anne e Georges hanno vissuto e
vivono in uno splendido appartamento a Parigi, quando sopraggiunge il demone del male fisico: lei ha una
occlusione della carotide e l’ operazione chirurgica la offende ancora di più,
impedendole l’uso di tutto il lato destro del corpo. L’amore di lui si accresce
ancor di più, accudendo la moglie in
ogni modo e maniera: la tenerezza di alcune scene è di non poco momento!
Ma un secondo attacco della patologia la aggredisce rendendole
massimamente difficoltosa la favella, determinandone l’incontinenza e
togliendole definitivamente l’
autosufficienza: il suo corpo è devastato; il suo volto, così espressivo e
luminoso, deformato. Tragica la scena del “dialogo”, fatto di pietosi e
incomprensibili fonemi, fra madre e
figlia; terribile la cacciata (un “Vattene!” articolato in maniera stentata e
gutturale) di quest’ultima perché la mamma si sentiva umiliata nella propria
prigione corporea; grandiosa la scena
del licenziamento ad opera del marito di
un’ infermiera che accudiva la moglie come se fosse una bambina idiota (come se
ne vedono molte nelle case private, nelle cliniche e negli ospedali: “Guardi che bella signora
che è diventata adesso che l’ho pettinata?” ponendo davanti ad un viso
deturpato uno specchio), e non una Signora,
una concertista, una musicista, una maestra di pianoforte di ottimi esecutori
d’orchestra, devastata dalla malattia.
La struttura portante di Amour sono i primi piani. Le scene
sono prevalentemente primi piani: primi piani degli ambienti della splendida
abitazione ove si svolge tutta la
narrazione del film; i primi piani delle pitture che decorano le eleganti
pareti; i primi piani dei volti di lei, che comincia ad avere le prime
avvisaglie del male per arrivare inesorabilmente ad un viso immobile incarnazione
della fisicità della afflizione; il
volto di lui, rassegnato e disperato, ma sempre determinato, sempiterna
espressione di amore e di dolcezza per la consorte. Amore fino alla fine, nella salute e nella malattia.
Le scene scorrono, legate dai
primi piani e da una colonna sonora fatta dal silenzio, assenza di “verbo” fra
gli interpreti, silenzio che pesa e comunica e suona e risuona nella sala,
interrotto da qualche breve brano di Schubert…e quando la proiezione termina,
nessuno spettatore si è alzato prima di qualche minuto.
Fabrizio Giulimondi
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