La
produzione letteraria di Giampaolo Pansa,
saggistica e romanziera, incentrata sulla guerra civile svoltasi nell’Italia
settentrionale nel tragico biennio 1943-1945 e, seppur nascostamente, anche nel
periodo successivo, è sconfinata, avendo le sue radici nella propria tesi di
laurea pubblicata nel 1959. Il clou di
siffatta leviatanica attività di studio e di scrittura che ha segnato un
momento dirompente, non per la letteratura, ma per le vicende politiche e
storiche italiane, è stato il coraggioso e ruvido libro La guerra dei vinti (ottobre 2003).
Già in
precedenza il giornalista aveva cominciato a scrutare la Resistenza dal punto
di vista degli sconfitti, dei fascisti. La storia guardata anche attraverso un “binocolo
in camicia nera” era motivo di scandalo.
“Il mio viaggio tra i vinti. Neri, bianchi e
rossi” (Rizzoli) - ultimo atto di questa corposa opera in più
volumi, che accusa un poco di stanchezza per lo scemare dell’energia cinetica
letteraria, pur mantenendo una
freschezza linguistica e una scorrevolezza stilistica extra ordinem e “fallaciana” - “accalappia” il lettore grazie ad un collage di episodi, alcuni tragici,
altri ameni, altri ancora di semplice vita quotidiana e amorosa, in cui partigiani
comunisti e militi “repubblichini” pongono in
essere uno scambio di sanguinaria ferocia
e orripilante crudeltà.
La Resistenza
viene fatta scendere dal piedistallo del mito per disvelarne la sua belluina inumanità.
L’ignominia è bipartisan: prima ha
visto protagonisti i nazi-fascisti, poi i contendenti in armi. Qui v’è un
aspetto ancora più interessante, già affrontato da Pansa in altri scritti: oltre l’eliminazione fisica dei partigiani “bianchi”
(monarchici, cattolici, liberali, ossia tutti coloro che non appartenevano alle
forze marxiste, staliniste e leniniste), la persecuzione e i colpi di
mitraglietta attingevano persino quei comunisti che non si volevano assoggettare
all’ Unione Sovietica di Stalin e, specularmente, i seguaci di Josif, martirizzati
con le più brutali torture dai titini a seguito della rottura avvenuta nel
giugno del 1948 fra Stalin e Tito, causata dalla scomunica di quest’ultimo da parte
del Cominform.
La
narrazione è anche in questo lavoro – e ancor più dei precedenti – in forma dialogica: Giampaolo Pansa si rivolge alla sua alter ego Adele - incontrata già ne La guerra dei vinti e nelle “fatiche”
successive - che diviene una sorta di moglie, compagna di quelle ricerche
testimoniali e luoghi macchiati di sangue e di indicibile sofferenza che daranno
forma all’improcrastinabile desiderio di verità, così avvertito dall’Autore, su
accadimenti coperti da troppo tempo da uno spesso strato di rancorosa fuliggine.
Colpisce
il ricorrente – e inaspettato – richiamo a momenti intimi di sapore erotico che
coinvolgono giovani ausiliare della Repubblica Sociale Italiana e belle gappiste.
Saggio
agro-dolce come una pietanza orientale, con numerose venature di amarcord che sfumano in una specie -
forse - di addio a questo appassionato,
accanito e duraturo racconto su quel lembo di storia che ha visto uno stesso
Popolo odiarsi e ammazzarsi con terrificante convinzione. L’afflato di Pansa è supportato dall’ inusitato
coraggio di dare la parola ai reietti, ai paria, ai lebbrosi italici, alla “schiuma
della terra”, ai mussoliniani: “Il sangue
dei vinti mi ha fatto incontrare un’Italia che esisteva dal 1945, ma non era
scomparsa; aveva soltanto scelto il silenzio … Anna guidava Paolo dentro la
foresta dell’odio politico, popolata di fantasmi che la retorica resistenziale
e la faziosità comunista avevano vietato di raccontare”.
Mi
piace concludere con le stesse parole adoperate dallo Scrittore-giornalista nel
terminare il suo libro: “Forse sarebbe
utile celebrare questa festa (il 25 aprile, ndr) nel cuore di ciascuno di
noi. Compresi quanti si sentono ancora legati alla memoria del fascismo. L’alternativa
è di restare divisi in due Italie, sempre disposte a combattersi”.
Fabrizio Giulimondi
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