Lo
sport nella storia ha non poche volte costituito un momento di rottura sociale
e politica, un momento tramite il quale sono emerse con prepotente chiarezza
istanze avverso discriminazioni e ingiustizie.
Pensiamo
ai velocisti Tommie Smith e Lee Evans che alzano il pugno alle Olimpiadi a
Città del Messico nel 1968 e, alle quattro volte medaglia d’oro nella corsa alle
Olimpiadi di Berlino nel 1936 Jesse Owens, nero, dinanzi a Hitler che marmoreo
lo vedeva vincere sui concorrenti germanici “ariani”.
“La battaglia dei sessi” di Jonathan Dayton celebra un tempo di
rottura, al pari di Michael Jackson con il suo brano “Billie Jean”.
La
narrazione amplifica il prima, il durante e il dopo del punto di intersezione
di tre direttrici: una personale, introspettiva ed umana, l’altra sociale e l’altra
ancora sportiva.
Il 20
settembre 1973 a Houston in Texas si è giocata una partita di tennis fra un
uomo e una donna. Già questa è un’anomalia, vista la separazione dei sessi in
questa come in altre discipline che hanno propri campionati. L’anomalia spazia al
feroce maschilismo arrogante ed insopportabile di Steve Carelle, campione del
mondo di tennis dedito al gioco, baro e creatore di problemi alla sua famiglia;
l’anomalia spazia alla più volte vincitrice Billie Jean King, ragazza, il cui
essere donna la pregiudica nella sua professione competitiva, sposata ma confusa
sul proprio orientamento sessuale.
Sport,
femminismo versus maschilismo,
eguaglianza fra uomo e donna versus
discriminazione, disagio personale e crescita interiore per affermare se stessi
e ciò che si è anche nella propria intimità.
Una
partita di tennis che incarna e invera uno scontro fra comprensione e
incomprensione, tra un’epoca e un’altra.
Due eccelsi
attori interpretano i protagonisti: una Emma
Stone nei panni della tennista Billie Jean King, mirabilmente imbruttita dalla
bravissima Alyson Black-Barrie, insieme a un mirabile Steve Carelle nelle vesti di Bobby Riggs.
Fabrizio Giulimondi
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