Son
tornati i colossal nelle sale cinematografiche in salsa hollywood-bollywood, fra seriosità anglosassone, tinte purpuree
indiane e immani tragedie che hanno portato a quattordici milioni di profughi.
La regista
anglo-indi-kenyota Gurinder Chanda
con il suo ambizioso film “Il palazzo
del Viceré” evoca i ricordi di sua nonna, il cui personaggio è immerso fra
i corali protagonisti della narrazione. Un racconto complesso che ingloba quell’entusiasmante
e tragico periodo di interregno, fra la vittoria per l’indipendenza indiana
condotta dal Mahatma Gandhi e dal suo Popolo non violento e l’effettivo
trasferimento di poteri da Sua Maestà britannica al Governo transitorio dell’India
libera.
Tre
secoli di dominazione inglese e la necessità che l’ultimo Viceré (e la sua
presenzialista consorte), Lord Mountenbatten, adempia quanto prima agli atti
necessari per una transizione pacifica. Nulla di pacifico vi sarà, però: la
minoranza (un quarto della popolazione) musulmana vorrà un suo Stato. Il 15
agosto 1945, giorno dell’indipendenza, per Gandhi sarà un giorno triste. Il 15
agosto A.D. 1947 sorgeranno due Stati: India e Pakistan, Indù e Sikh da una
parte, islamici dall’altra. Una guerra fratricida, esodi biblici, il “dietro le
quinte” statunitense di questa “partizione”, il tutto accompagnato dal classico
“fumettone” sentimentale fra due morosi,
lei musulmana, lui indù, novelli Giulietta e Romeo indo-pakistani.
Fabrizio Giulimondi
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