Prima passi della class action nelle aule giudiziarie
italiane: esperienza nazionale a confronto con quella degli ordinamenti comunitari e nord americani.
·
Introduzione
Il nostro sistema
giuridico è basato sull'iniziativa del singolo soggetto, sia esso persona fisica o giuridica, che si rivolge al
sistema giudiziario per ottenere "giustizia". Il provvedimento emanato
dall'organo giurisdizionale adito ha pertanto efficacia solo per quei soggetti
che si sono costituiti parti processuali( o per i loro eredi o aventi causa ai
sensi dell’art. 2909 c.c.) .
Questo meccanismo
appare corretto e soddisfacente quando la richiesta di giustizia è specifica e
riguarda una situazione particolare e cioè quella di chi agisce.
Esistono però dei
casi in cui la vicenda di un soggetto è pressoché identica a quella di molti altri.
Gli esempi sono
molteplici.
Un prodotto che esce
difettato da un'industria e danneggia i
compratori e gli altri soggetti che con esso entrano in relazione. Il
fatto è lo stesso e il responsabile anche: sono diversi i danneggiati.
E così potremmo
arrivare a fatti molto noti come i casi dei bond argentini, di quelli Parmalat
e Cirio: vi è una pluralità di danneggiati, un unico fatto originario del danno ed un
unico responsabile.
In queste ipotesi l'azione del
singolo incontra diverse difficoltà quali il costo della causa che per il
danneggiato è rilevante fino ad intervenire sul rapporto costo-beneficio, la
certezza della sproporzione di forze con l'avversario, il rischio della soccombenza
con il relativo costo esorbitante per il singolo.
Come vedremo in molti casi i singoli
danneggiati si sono per così dire consorziati, hanno cioè fatto una causa
comune ma il principio è sempre lo stesso. Anche in questa ipotesi ogni
soggetto vale per il suo caso specifico e, ancora una volta la decisione resa
dall'ordinamento sulla causa "multipla" vale solo per coloro che vi
hanno partecipato. Occorre dunque una procedura che dia la possibilità prima di
tutto di svolgere richieste collettive e che sia efficace anche per coloro che,
trovandosi nella stessa condizione di quelli che hanno partecipato alla causa
ne sono, per vari motivi, rimasti fuori. Una tale figura procedurale, per
motivi storici legati alla discendenza diretta del nostro diritto da quello
romano (di tipo individualistico), non poteva che nascere in un altro sistema
avente altre radici, come il sistema
giuridico anglosassone. La procedura in parola è stata denominata class action o azione collettiva ossia
di tutte quelle persone (classe) che si trovano nelle stesse condizioni.
Anche l’ordinamento
processuale civilistico italiano aveva necessità – come quelli di molti Stati
europei, fra poco sinteticamente illustrati – di uno strumento che consentisse
ad alcuni soggetti di agire in giudizio( diventando “parte” di esso) non solo
per tutelare propri interessi ma anche quelli di soggetti titolari di posizioni
giuridiche soggettive omogenee, che però
non partecipano al processo: la sentenza che sarà emanata opererà, pertanto,
non solo nei confronti delle parti processuali vere e proprie, ma anche nei
confronti di tutti coloro che, seppur estranei alla causa, ne siano
completamente coinvolti nei propri diritti e/o interessi(c.d. interessi diffusi).
La normativa
nazionale sulla class action, di cui parleremo
più innanzi, fornisce una risposta a tale
istanza di giustizia, parimenti agli ordinamenti giuridici della maggior parte
dei Paesi europei e in maniera, almeno in parte, dissimile a quello
statunitense, canadese, brasiliano, australiano e britannico.
Nei Paesi in cui la
legge sulle azioni collettive è operante, svariate sono le situazioni che
vengono portate all'attenzione dei giudici con lo strumento della class action. Ad esempio una broker ha
iniziato avanti il Tribunale di S. Francisco una class action nei confronti della Morgan Stanley per discriminazione
sessuale[1]. L’esito
favorevole dell’azione è stato esteso anche
alle altre broker che si trovano nella stessa condizione di discriminazione da
parte della Morgan Stanley.
Microsoft sta subendo
in questo stesso periodo una class action
da parte di acquirenti dei suoi pacchetti software con l'accusa di pratiche
monopolistiche[2].
Apple dal canto suo
sta subendo diverse class action per
la pubblicità ingannevole degli iPod sulla durata delle batterie in
concomitanza allo stesso lasso di tempo della garanzia il cui periodo,
contrattualmente stabilito, non sarebbe rispettato, nonché per aver venduto
computer usati come nuovi[3].
Per non parlare della causa collettiva
intentata alla Burger King dai dipendenti e dagli ex dipendenti che si sono
visti fare delle trattenute indebite sulle buste paga[4].
Questa breve
panoramica ci illustra da un lato la frequenza della pratica della class action e, dall'altro, ci fa
toccare con mano quanto essa potrebbe essere applicata per gli stessi identici
motivi anche nel nostro ordinamento.
Mai come con la disciplina delle class
action gli Stati Uniti d’America si sono resi antesignani, promotori e
protagonisti nel mondo del diritto.
·
Esperienze presso
ordinamenti stranieri.
a)
Stati Uniti d’America[5]. L’azione collettiva - che secondo il Prof. Yezell[6]vede
come suoi precursori nel medioevo i groups
of litigation - attraverso le Equity Rule 48 (del 1833) e la revisione
della Federal Rules of Civile Procedure
(1966) che ha sensibilmente riformulato la
Rule 23, entra nel sistema Nord Americano.
Il particolare
sistema dell’opt-out che la
caratterizza e che rende la pronuncia vincolante anche per gli assenti
appartenenti alla medesima classe - qualora non palesino apertamente la loro
contrarietà - ha sicuramente risentito
degli anni in cui fu redatta la legge, anni di contestazioni e di movimenti dei
diritti civili, anni in cui si iniziava a maturare una coscienza collettiva su
temi comuni come l’ambiente e il
consumo, in contrasto con una concezione più marcatamente individualista.
La class action, infatti, permette un più
ampio potere transattivo, l’abbattimento dei costi di giustizia e delle spese
legali (particolarmente consistenti negli Stati Uniti) e lo snellimento dei procedimenti
uniformandoli nel contenuto.
L’esperimento
dell’azione in parola si attiva nella
seguente maniera.
Un soggetto (lead rappresentative), che solitamente è
tra quelli che ha subito il danno più rilevante, chiede al giudice di essere
autorizzato ad agire per sé ed in rappresentanza di altri, vi è quindi la fase
precertificativa e certificativa che verifica la sussistenza di determinati
requisiti:
1)
La numerosity:
la classe presenta un così elevato numero di membri da determinare problemi
allo svolgimento del giudizio;
2)
La commonality:
la comunanza di fatto e di diritto delle questioni soggettive;
3)
La tipically:
le domande e le eccezioni svolte dal rappresentante devono essere tipiche della classe;
4)
L’adequacy
of representation: la garanzia di tutela del rappresentante nei confronti
degli interessi della classe.
Questa fase è
strettamente collegata con l’estensione degli effetti della sentenza a tutti i
soggetti che rientrano nella definizione prevista di classe in quanto certificativa
di equità, adeguatezza e ragionevolezza.
Chi non intende
avvalersi degli effetti estensivi può azionare l’ opt out right chiamandosi
fuori dall’automatismo processuale che coinvolge la sua classe e accedendo, se
del caso, ai ricorsi individuali.
Il giudice decide anche
per la class action quando le
questioni comuni alla classe prevalgano su quelle dei membri e quando l’azione
separata di questioni individuali può portare a giudicati difformi.
Il contesto nel quale
si è sviluppato lo strumento della class action è quello del private enforcment, cioè lo sviluppo
privatistico dei mercati finanziari dai quali la normativa ha mutuato termini
come opt-in oppure opt-out.
L’impostazione della
legge, quindi, differenzia anche i ruoli sociali delle parti coinvolte al
processo: il lead plantiff (attore
principale) assume il rischio della lite, mentre il giudice non è solo ricettore neutrale e
passivo delle istanze delle parti, ma assume preminente funzione di gestione
paramanageriale. Si potrebbe dire, quindi, che la struttura della class action è un frutto della mentalità
competitiva e commerciale che prevale al di là dell’Oceano e che può avvalersi del carattere imprenditoriale della
professione legale, dove gli studi di grandi dimensioni sono in grado di affrontare
i rischi economici connesse alle indagini spesso complesse e costose
indirizzate a valutare le opportunità di promozione del giudizio (non per nulla
si parla correntemente di legal industry
per denotare il lavoro degli avvocati).[7]
Attraverso la class action la parte danneggiata è incentivata
a partecipare al procedimento in ragione della assenza di oneri, anche di natura economica, incluso
quello di partecipare alle udienze o di presentare
prove, a differenza delle cause di tipo ordinario che sono sottoposte al “necesasry
party rule”, secondo cui solo chi ha
partecipato al processo può subirne le conseguenze. Inoltre le spese di
giustizia sono ridotte in quanto le pretese seriali saranno convogliate in un
unico procedimento: ecco la cultura imprenditoriale
venire incontro alle esigenze di economia processuale.
I requisiti e le
condizioni per iniziare una class action
negli U.S.A. e i risultati "pratici" effettivi per tutti i membri
della classe che con essa si attingono
li riscontriamo anche nelle legislazioni del Canada, dell’Australia, del
Regno Unito e del Brasile[8].
b) Europa[9] Le azioni
di gruppo guadagnano sempre maggiore popolarità in tutta Europa. La direttiva n. 98/27/CE del Parlamento
Europeo e del Consiglio del 19-5-98 relativa a provvedimenti inibitori a tutela
degli interessi dei consumatori nell’Unione
Europea, stabilisce che enti legittimati, quali ad esempio associazioni dei
consumatori o autorità pubbliche indipendenti, sono autorizzate ad agire in
giudizio per conto di un gruppo di persone danneggiate dalla condotta del
convenuto.
Altresì, il Libro verde sui ricorsi collettivi dei
consumatori del 27 novembre 2008[10]
prevede la nascita di una class action nei
paesi sprovvisti, il potenziamento delle legislazioni in quegli Stati che sono
già intervenuti in subiecta materia - come di qui a poco si riferirà - e
la cooperazione tra Stati al fine di estendere tale strumento oltre i confini nazionali, a mo’ di preludio ad
una class action europea)[11].
Il discrimen fra diritto europeo( eccetto
quello britannico) e quello nord – americano è già evidente: mentre
quest’ultimo vede lo strumento della class
action adoperato per tutelare veri e propri interessi diffusi( ossia
omogenei fra di loro e afferenti una
gran mole di persone non legate da alcun vincolo associativo), quello del
vecchio continente lo considera prevalentemente in relazione alla protezione dei c.d. interessi
collettivi, ossia correlati ad un determinato soggetto organizzato( associazione, comitato,
etc.).
L’intervento
legislativo italiano del 2009 – di cui parleremo estesamente nel proseguo – è
stato l’ultimo di tempo fra quelli compiuti in seno agli ordinamenti giuridici
europei in tema di class action.
Leggi analoghe in
altri Paesi dell'Unione Europea hanno introdotto delle norme riconducibili e
assimilabili alla class action.
E' avvenuto in Olanda
nel 1994, in Portogallo nel 1995, in Inghilterra e Galles nel 2000, in Spagna nel 2001 e in Svezia nel 2002.
Quanto alla Francia, nel 1992, sono state introdotte alcune norme
specifiche che autorizzano le associazioni
dei consumatori, in seguito al ricevimento di un mandato, ad agire in
nome di molteplici loro appartenenti che hanno subito un danno avente la medesima origine (action en representation
conjointe del codice di consumo).
Un recente progetto
di legge[12] si è ispirato
all'introduzione di una variante rispetto ad altre leggi analoghe in altri
Stati. Esso prevede che, dopo una prima delibazione della magistratura sulla
proponibilità dell'azione collettiva
proposta da un'associazione di consumatori, ogni persona interessata possa
singolarmente adire l'autorità giudiziaria chiedendo di poter far valere la
decisione di principio ottenuta dall'associazione( avvicinandosi sensibilmente
al sistema anglosassone).
In Germania, nel luglio 2005,
è stata introdotta una normativa specifica relativa alle clausole contrattuali del mercato
finanziario che ha aumentato la tutela
dei risparmiatori.
Questa legge
introduce forme di risarcimento
per danni subiti dal risparmiatore per
inesatte, ingannevoli, omesse informazioni o comunicazioni sui mercati dei capitali e sul rispetto
delle normative, relative alle offerte d'acquisto e alla vendita di azioni. Il
riferimento è ai prospetti informativi, ai bilanci di esercizi e a quelli consolidati,
alle relazioni sviluppate nelle assemblee e a qualsiasi altra comunicazione che
possa avere indotto il risparmiatore ad una infondata attesa di guadagno.
La normativa del 2005
prevede una sentenza che stabilisce il
"principio di diritto", che sarà il riferimento per tutte le altre cause in
subiecta materia.
Più nel dettaglio il
risparmiatore che intende procedere contro l'emittente deve espressamente
chiedere l'instaurazione di un "procedimento pilota". Per passare
alla fase successiva è necessario che entro centoventi giorni siano presentate almeno altre dieci istanze
uguali alla prima. In caso positivo, la Corte d'Appello competente sceglie
l'attore della "causa pilota".
Durante lo
svolgimento della "causa pilota" tutti gli altri procedimenti
identici sono sospesi e saranno ripresi solo alla conclusione del primo, con
l'obbligo di uniformarsi alla
"sentenza pilota".
La proposta di “procedimento pilota” può essere promossa anche
dall'emittente.
La norma in questione consente
la riduzione dei costi di giustizia
per i risparmiatori e la maggiore rapidità delle cause.
Tale normativa è
stata verificata in questi cinque anni e, se i risultati risultassero positivi,
sarà estesa ad altri comparti. In sostanza si tratta di una sperimentazione in
quanto in ogni caso la legge, a meno di un risultato positivo e quindi della
sua conferma ed eventuale estensione, cesserà di essere in vigore entro la fine
del 2010.
Nel Regno Unito tra gli anni '80
e '90 c'è stato il cosiddetto sistema di "legal Aid"che poneva a
carico della finanza pubblica i costi dell'azione legale di tipo collettivo.
Tale contesto ha
incentivato la promozione di una miriade di azioni collettive scarsamente
giustificate.
Nel 2000 è stato
introdotto il Group Litigation Order
che consiste in un'ordinanza in cui viene regolata la
trattazione di cause che presentano questioni comuni o connesse de facto o de
iure.
Nell'ordinanza
vengono identificate le questioni che rendono comuni tali cause, viene
istituito un registro in cui saranno iscritte le cause procedibili e, altresì,
viene indicato il giudice che le tratterà.
Il magistrato può inoltre
fissare la data entro la quale le cause devono essere iscritte nel registro e
disporre che una o più delle cause iscritte varranno come test claims.
Ordinanze e sentenze relative a una o più questioni comuni, adottati
nell'ambito di una causa iscritta al registro, sono vincolanti per le parti di
tutte le altre cause già iscritte, o che verranno successivamente iscritte al
registro, nella misura stabilita dal giudice. Non si tratta di una class action, bensì di un meccanismo flessibile che consente la
trattazione congiunta di una pluralità di cause simili: determinate questioni
di fatto o diritto comuni a più
cause vengono trattate una sola volta, con effetto vincolante per le
parti delle varie cause, con evidenti
benefici in termini di economia processuale.
In Austria si à giunti alla
formulazione di un'azione collettiva per via giudiziaria: la Suprema Corte nel
luglio 2005 ha riconosciuto che è conforme alla legge la prassi delle associazioni di consumatori di
raccogliere le istanze di vari danneggiati e di promuovere l'azione contro uno
stesso convenuto a condizione che le istanze siano sufficientemente simili in fatto ed in diritto.
Con l’ordinanza 27 maggio 2010, n. 29 la sezione I civile del tribunale di
Torino ha emanato il primo provvedimento
relativo alla disciplina dell’azione di classe, introdotta nell’ordinamento dall’art.
49 legge 23 luglio 2009, n. 99 che ha
sostituito l’art. 140 bis codice del
consumo (decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206 approvato dal Consiglio
dei Ministri a seguito della delega
conferita al Governo dall’art. 7 della legge 29 luglio 2003, n. 299),
disposizione che già era stata inserita nell’articolato del codice del consumo
dall’art. 2, commi dal 445 al 449, legge 24 dicembre 2007, n.244( legge
finanziaria 2008).
Si tratta di una
decisione di grande rilevanza, anche in considerazione dell’attesa destata negli operatori
dall’istituto dell’azione collettiva risarcitoria a tutela di diritti
individuali omogenei dei consumatori, la cui introduzione consegue a veementi
sollecitazioni politiche, seppur il cennato testo normativo è entrato in vigore
solamente il 1 gennaio 2010 in ragione della sua procrastinazione dal 2007 a
seguito di reiterati decreti legge.
Prima di procedere ad
una analisi di questa decisione giudiziaria è opportuno procedere ad una
sintetica disamina del novello istituto.
La class action nazionale prevede la
possibilità per consumatori e utenti singolarmente o in veste associativa di
proporre una unica azione per la protezione dei diritti contrattuali di un
gruppo di consumatori che abbiano una posizione omogenea nei confronti di una
impresa (anche gerente un servizio pubblico o di pubblica utilità). Ancora più
chiaramente, l’azione di classe riconosce la tutela giudiziaria ai titolari: di
diritti “omogenei” (ndr aventi un
contenuto omogeneo fra di loro) che a loro spettano come consumatori finali di
un singolo prodotto nei confronti di un determinato produttore,
indipendentemente dalla esistenza di un rapporto contrattuale; di diritti “omogenei” (ndr aventi un contenuto omogeneo fra di loro) di ristoro del pregiudizio sofferto, quali
consumatori ed utenti, a causa di pratiche commerciali scorrette e
comportamenti anti-concorrenziali.
L’elemento della
“omogeneità” del diritto da azionare
rispetto a quello della “identità” dello stesso è un portato innovativo
del recente decreto legge 24 gennaio 2012,
n. 1 (c.d. “Cresci Italia”), convertito con modificazioni nella legge n. 27 del
24 marzo 2012.
L’art. 6 del
provvedimento sostituisce al criterio della “identità” del diritto che, secondo
l’originaria previsione dell’art. 140 bis
del codice del consumo (d.lgs. 206/2005) costituiva il presupposto per
l’azione di classe, quello della “ omogeneità”, correggendo in tal modo una
previsione che, come era formulata, rischiava di essere inapplicabile in
ragione della materiale impossibilità di
verificarsi di situazioni perfettamente identiche.
In sede di
conversione la legge 27/2012 ha reso più elastico il requisito della
“omogeneità”, quale presupposto per attivare la class action, eliminando gli aggettivi quantitativi “del tutto” che
si affiancavano alla parola “omogeneo”, sostitutiva della espressione “identico”
del comma 2 (vecchia versione) dell’art. 140 bis del codice di consumo.
Altresì, sempre in
sede di conversione dell’art. 6 del decreto legge 1/2012, è stato integrato il
comma 3 dell’art. 140 bis, per il
tramite della precisazione circa l’adesione alla azione di classe – che può
avvenire anche senza il ministero del difensore – concepita anche con il mezzo della posta
elettronica certificata e del fax, garantendo così la più ampia possibilità di
accesso al rimedio giurisdizionale in parola.
Altra innovazione è
realizzata ad opera della legge di
conversione 27/2012 al comma 12 dell’
art. 140 bis, il cui contenuto
stabilisce che, in caso di accoglimento della
domanda, il tribunale pronuncia la sentenza
di condanna con cui liquida le somme
definitive da corrispondere agli aderenti al ricorso, secondo valutazione
equitativa ai sensi dell’art. 1226 c.c.,
ovvero fissa il criterio omogeneo
di calcolo per la liquidazione di dette somme. Su questa ultima modalità
decisoria la legge di conversione ha chiarito
che il giudice debba assegnare alle parti processuali un termine, non
superiore a 90 giorni, entro il quale esse concordino la liquidazione del
danno. Il verbale dell’accordo, sottoscritto dalle parti e dal giudice,
costituisce titolo esecutivo a mente dell’art. 474, comma 2, n. 1), cpc. Scaduto
tale termine, senza che si sia addivenuto ad alcunché, il tribunale, su istanza
di almeno una parte, liquida le somme dovute ad ogni singolo
ricorrente-aderente alla azione.
In merito alla procedura
l’art. 140 bis c.d.c. prevede una
prima valutazione sull’accessibilità del ricorso – reclamabile in Corte di
Appello – ed una seconda fase, che include la raccolta delle prove, che termina
con la decisione in merito ai danni riconosciuti o ai criteri da applicare per
la quantificazione degli stessi.
Alla base della class action, così come configurata
dalla normativa italiana, v’è il sistema opt
in: in ragione di ciò non può essere promossa più di una singola class action, rimanendo ferma però la
possibilità della presentazione di azioni individuali in base alle norme
ordinarie: la sentenza che definisce il giudizio di class action fa stato anche nei confronti degli aderenti.
La
giurisdizione è incardinata dinanzi il tribunale ordinario civile.
L’art. 140 bis del codice del consumo non riconosce
la possibilità di attivare le class
action nei confronti della Pubblica Amministrazione.
Uno strumento di
natura similare a quest’ultima specificamente previsto al fine di tutelare
posizioni giuridiche soggettive attive nei confronti di strutture pubbliche, è
stato recentemente introdotto dal decreto legislativo 20 dicembre 2009, n. 198
in attuazione della legge delega ex art. 4 legge 4 marzo 2009, n.15 in materia
di ricorso per l’efficienza delle Amministrazioni pubbliche e dei concessionari
di pubblici servizi.
Tale normativa,
entrata in vigore dal 15 gennaio 2010, ha inserito nel tessuto connettivo
dell’ordinamento processual – amministrativistico la procedura speciale volta
ad assicurare l’efficienza nella compagine della Pubblica Amministrazione nella
sua multiforme articolazione e modalità di azione.
Questa particolare
tipologia di class action può essere
promossa da singoli individui e da associazioni con il presupposto che si sia
verificata ad opera di un provvedimento, di un atto amministrativo, di un comportamento o di una omissione della
Pubblica Amministrazione o di un concessionario di un pubblico servizio una
lesione diretta, concreta ed attuale degli interessi giuridicamente rilevanti
ed omogenei per una pluralità di
utenti e consumatori derivante: 1) dalla violazione di termini perentori; 2)
dalla mancata emanazione di atti amministrativi generali obbligatori e non
avanti contenuto normativo da emanarsi tassativamente entro e non oltre una
data fissata da una legge o da un regolamento; 3) dalla violazione degli
obblighi contenti nelle carte di servizi ovvero dalla violazione di standard
qualitativi o economici.
La domanda deve
essere in un primo momento notificata agli uffici amministrativi competenti, in modo da consentire loro
l’adozione delle misure necessarie.
Solamente trascorsi
novanta giorni dalla notifica, nel caso in cui nulla fosse compiuto, o fossero
adottati provvedimenti rispondenti in maniera parziale alle istanze degli
utenti del servizio pubblico, questi ultimi potranno accedere alla
giurisdizione di natura esclusiva e di merito ( ai sensi dell’art. 4, comma 2,
lettera l), n.2, legge delega 4 marzo 2009, n.15: “ il nuovo giudizio è devoluto alla
giurisdizione esclusiva e di merito del giudice amministrativo”)
del Tribunale Amministrativo Regionale
territorialmente competente, il quale però non potrà adottare decisioni aventi
ad oggetto il risarcimento dei danni, per il cui riconoscimento e determinazione
dovranno essere esperiti i rimedi giudiziari ordinari.
A differenza della class action regolata dall’art. 140 bis codice di consumo, la esclusione della possibilità di
condannare da parte della Autorità giudiziaria amministrativa al risarcimento
dei danni la struttura pubblica o il concessionario di un pubblico servizio è
dovuta alla diversa finalità sottesa a questa nuova azione giurisdizionale la
quale tende, anziché a fornire tutela a una situazione giuridica attiva (come
avviene nella class action ex art. 140
bis c.d.c. che consente al tribunale
civile di stabilire una condanna di natura risarcitoria – o alternativamente di
natura restitutoria - reintegrativa
dell’interesse giuridicamente rilevante leso di cui i singoli consumatori ed
utenti sono titolari), a ripristinare il corretto svolgimento della funzione
pubblica o la corretta erogazione di un servizio pubblico e, pertanto, a
realizzare compiutamente l’interesse pubblico generale.
Mentre l’azione di
classe a mente della disposizione del codice di consumo fornisce una protezione
diretta ad una posizione giuridica
sia che essa abbia la veste del diritto soggettivo( assoluto o relativo) o
quello dell’interesse legittimo( oramai considerato esistente anche nell’ambito giusprivatistico), la class action avverso la Pubblica
Amministrazione o un Concessionario di pubblico sevizio è funzionalizzata primariamente ad apportare migliorie
alle loro attività, sia che esse si
formalizzino con modalità provvedimentali che con modalità negoziali, per il
tramite del controllo della corretta applicazione dei principi di economicità
ed efficienza da parte della Pubblica Amministrazione: solamente in via mediata e indiretta può determinarsi una tutela di situazioni soggettive, che
non si esaurisce in quelle aventi natura
di interessi legittimi collettivi( se fanno capo a corpi sociali organizzati) o interessi
legittimi diffusi(id est relativi a
una massa magmatica di soggetti - in
alcun modo organizzata - autonomi fra di loro ma con un contenuto sostanziale
eguale o omogeneo), ma che attiene anche a poste attive lese da azioni
amministrative legittime ma non conformi ai cennati standard normativamente
determinati.
Tale diversità di
funzione della class action a mente
del d.lgs. 198/2009 rispetto
a quella prevista dall’art. 140 bis c.d.c.
dipende dalla diversa concezione di Pubblica Amministrazione che viene
configurata dalla legge delega ( c.d. Brunetta ) 4 marzo 2009, n.15, id est come Amministrazione di risultato, sostantivizzazione del principio costituzionale del buon andamento ai sensi dell’art. 97 della
Costituzione. Lo stesso potere conferito al giudice amministrativo è molto più
ampio di quello ordinariamente
esercitato in sede di giurisdizione di merito, potendo il T.A.R. sindacare
sulle scelte“ aziendali” della pubblica Amministrazione e dei Concessionari di
pubblici servizi in maniera “talmente penetrante quasi da snaturarne la
funzione giurisdizionale così come tradizionalmente intesa”.
·
Ordinanza del
tribunale di Torino
Premesso ciò, possiamo
procede ad una attenta valutazione dell’ordinanza del tribunale di Torino.
La pronuncia 29/2010 verte
sull’ammissibilità dell’esercizio dell’azione da parte del consumatore di
sevizi bancari, ai fini del risarcimento del danno prodotto dall’inserimento di
una clausola nulla nella regolamentazione del rapporto di conto corrente,
nonché dalla sua eventuale applicazione. Il giudice procede nel contraddittorio
delle parti ad un approfondito esame del merito, concludendo che all’attore la
clausola non era mai stata applicata e, di conseguenza, difettasse il suo interesse ad agire.
Su questa premessa si
dichiara pertanto inammissibile l’azione
di classe, nonostante le conclusioni in senso contrario del pubblico
ministero (la cui presenza è obbligatoria solo nella fase della ammissibilità
dell’azione ai sensi dell’art. 140 bis
comma 5 codice di consumo).
L’ordinanza in esame,
adottata al termine dell’udienza c.d. “di filtro”, pur dovendosi ritenere
inidonea alla produzione di effetti di giudicato sostanziale( tranne che con
riferimento alla statuizione sulle spese), assume però carattere definitivo del
procedimento così avviato e dunque merita speciale attenzione.
Come si è in
precedenza posto all’attenzione del lettore negli Stati Uniti d’America si
esclude che l’apparenza di fondatezza della domanda costituisca condizione di
ammissibilità della class action;
altrettanto si è evidenziato che in vari Paesi europei non esiste alcun
“filtro” preliminare.
In Italia si è già
dichiarato costituzionalmente illegittimo condizionare l’accesso alla giurisdizione al fumus boni iuris della domanda: la giurisprudenza della Corte
Costituzionale – primariamente la sentenza 10 febbraio 2006, n.50 - in materia di condizionamento della
giurisdizione ha sancito la irrazionalità di siffatti “filtri”: l’ammissibilità
o meno di uno strumento cautelare, provvisorio, di urgenza ovvero di una vera e
propria azione giudiziaria può essere ammessa nel rispetto dei principi della
Carta Costituzionale solamente se la valutazione dell’organo giudicante si
limiti ad una generica valutazione sulla sussistenza degli elementi minimali
per la adozione del provvedimento, nel caso di specie di ammissibilità dell’
azione di classe.
L’art. 140 bis codice dei consumi subordina
l’ammissione dell’azione di classe alla non
manifesta infondatezza della domanda e si presta, dunque, unicamente ad
impedire l’esame del merito di domande platealmente
infondate, contrariamente all’esame del merito effettuato invece dal tribunale di Torino in via preliminare.
Qualora persista una simile linea interpretativa dei tribunali – ad avviso di
chi scrive, confortato da autorevole Dottrina - è probabile che tale quaestio sarà portata alla attenzione della Corte Costituzionale
Altra questione di
non poco momento affrontata dall’ordinanza del tribunale di Torino si sostanzia
nella esclusione della assunzione della qualità di “parte” dei soggetti c.d.
aderenti (ma non partecipanti al giudizio), non potendo essi pertanto impugnare
la decisione in quanto privi di poteri di
impulso processuale.
Negli Stati Uniti, ove
si adotta il sistema del recesso (c.d. opt
out) - in talune ipotesi addirittura
impedito - i componenti passivi del gruppo possono risultare tali senza aver
compiuto alcun atto processuale, sicché si è teorizzato che “parte” in giudizio
possa considerarsi la classe nel suo complesso.
Solamente nella
ipotesi in cui un soggetto dichiari esplicitamente in sede giudiziaria o
stragiudiziaria di non voler fruire in
alcun modo della causa nel rispetto della normativa sulla class action e, quindi, della decisone che al termine di essa sarà
emanata, si renderà operativa la
clausola dell’opt out e,
conseguentemente, il soggetto recedente avrà la facoltà di adoperare gli
ordinari mezzi processuali civilistici “di natura individuale” .
Tale impostazione non
è invece praticabile in Italia, dove si è adottato il sistema della adesione (c.d.
opt in): il componente del gruppo si
assoggetta agli effetti degli atti di impulso del proponente per effetto di una
propria manifestazione di volontà esplicitamente e formalmente diretta
all’ufficio giudiziario di portata inequivocabilmente processuale, altro non
essendo che una modalità semplificata di proposizione di una domanda
giudiziale.
La legge 99/2009 ha
confermato tale impostazione, disponendo esplicitamente che l’atto di adesione
debba contenere l’enunciazione dei fatti costitutivi della pretesa, oltre che
gli aderenti si avvalgano dell’azione di classe senza il ministero del difensore.
E’ opportuno
precisare che, ai fini della pronuncia
sul merito, la circostanza che l’aderente non sia tenuto a compiere ulteriori
atti di impulso, potendosi avvalere a tale fine degli effetti di quelli posti
in essere dal proponente, non esclude affatto
la sua qualità di “parte”: è la stessa ratio,
la stessa natura, le stesse peculiarità che sottendono il processo in parola che rendono fatalmente il soggetto aderente ma non proponente “parte
processuale” a tutti gli effetti.
Alla luce di quanto
sopra riportato dalla legislazione italiana e da quella statunitense,
britannica, australiana e canadese( e sulla stessa linea quella brasiliana) in parte qua, appare di palmare evidenza una marcata differenza fra
la class action così come delineata
nell’ordinamento giuridico italiano e la class action
di stampo anglosassone.
·
Conclusioni
Il decreto
legislativo 198/2009 abbisognava ancora per
la sua “reale” entrata in vigore della emanazione dei regolamenti attuativi
previsti dalla norma transitoria (art. 7). In realtà, in relazione alla sua attuazione ,
v’è da puntualizzare che, in luogo dei
decreti così come concepiti dal citato art. 7, il Ministro della Pubblica amministrazione e l'Innovazione
ha emanato la direttiva n. 4 del 25/02/2010, in forza della quale viene resa
in buona parte operativa la normativa sulle c.d. class action nel settore della Pubblica Amministrazione.
Pur dovendosi giudicare positivamente
l'accelerazione fornita a tale strumento
dalla direttiva, sussistono alcune perplessità sulla
forma utilizzata, proprio in virtù della previsione ex art. 7 d.lgs. 198/2009.
A fronte del rinvio
compiuto da quest’ultimo ad uno o più Decreti
del Presidente del Consiglio, si è intervenuti, invece, per l’efficacia della normativa di cui si
tratta, con una semplice “linea direttiva.
Tale documento è stato adottato dall’ex Ministro Brunetta in qualità di titolare delle
funzioni di monitoraggio sull'attuazione dei D.P.C.M. che lo stesso deve
proporre. In questo caso, però, il monitoraggio ha anticipato l'attività
oggetto del controllo e lo stesso Ministro chiamato a proporre un D.P.C.M. ne
ha di fatto anticipato i contenuti, pur non contenendo la direttiva alcuna
prescrizione, ma limitandosi
semplicemente ad invitare, seppur in
maniera autorevole, le amministrazioni centrali e locali ad effettuare una
ricognizione completa dei rispettivi standard qualitativi ed economici, a
pubblicarne gli esiti sui siti istituzionali e a trasmetterli alla Commissione
nazionale per la valutazione.
L’art. 140 bis
codice dei consumi, infine, muove i suoi
primi timidi passi nelle aule giudiziarie. Importante sarà vedere come si
adopererà il mezzo della udienza di
“filtro” per la ammissibilità della class
action: se si seguiranno le orme tracciate dal tribunale di Torino –
presumibilmente contrastanti con i dettami costituzionali – l’ambito di applicazione della disposizione
sarà sensibilmente ristretta, a danno di consumatori e utenti, svuotando nei
fatti la sua forza innovatrice; se l’indirizzo invece che sarà seguito dalla
magistratura avrà un maggiore respiro europeo, la possibilità di rendere
giustiziabili gli interessi diffusi ( oltre quelli collettivi) potrà finalmente
vedere concrete occasioni di realizzazione.
Prof. Fabrizio
Giulimondi
Conclusasi con la transazione della Morgan Stanley
con la Securities and Exchange Commission nel 2005: la Corte Suprema ha approvato la
transazione il 4 febbraio 2005( in
Luciana Iaccarino, “Common law e competitività del mercato U.S.A.: due
casi all’esame della Corte Suprema”, Luiss
Guido Calvi, Dipartimento di Scienze
giuridiche – Centro di ricerche per il diritto di impresa, 2007, in www.luiss.it
P.Fava., "Class actions all'italiana: Paese che
vai, usanza che trovi, l'esperienza dei principali ordinamenti giuridici
stranieri e le proposte, in Corriere
Giuridico 3/2004; E. Bellini. “Class
actions e mercato finanziario: l’esperienza nordamericana”, in Danno e responsabilità”, n. 8-9,
2005, p. 817.
V. Panzironi, “Le
proposte di legge francesi sull’azione collettiva risarcitoria presentata
all’Assemblee Nazionale e al Senat”, 2006,
Luiss Guido Calvi, Dipartimento
di Scienze giuridiche – Centro di ricerche per il diritto di
impresa, in www.luiss.it
C. Iurilli ,” Taluni aspetti della nuova
legge italiana sul risparmio: il conflitto di interesse. la mancata
introduzione della ‘class action’ e la nuova legge tedesca sull’azione di
classe in materia di tutela del risparmio”, in Studium Iuris, n. 9, 2005, p.
983.
A.
Carrata, “Dall'azione collettiva inibitoria a tutela di consumatori ed
utenti all'azione collettiva risarcitoria: i nodi irrisolti delle proposte di
legge in discussione”, in Giur. it., 2005, p. 662; G.Ponzanelli.,
“Class actions”, tutela dei fumatori e
circolazione dei modelli giuridici”, in Foro it., 1995, IV, p. 305; G.Ponzanelli.,” Alcuni profili del risarcimento del danno nel contenzioso di massa”,
in Riv. dir. civ., n. 3/2006,
p. 327;F. Tedioli (Dicembre 2000). “Class
action all'italiana atto secondo: un cantiere ancora aperto”,.in Obbligazioni e Contratti (12): 998 –
1007; Fava P., "L'importabilità delle class
actions in Italia", in Contratto
e Impresa 1/2004.
Una prima proroga al 1°
gennaio 2009 è stata disposta dalla “manovra finanziaria estiva” ( legge
133/2008 di conversione del decreto legge 112/2008), sulla base della necessità
di individuare e mettere a punto strumenti normativi adatti ad estendere la
tutela risarcitoria offerta dall’azione collettiva anche nei confronti
della pubblica amministrazione. Tale termine è stato successivamente differito
al 1° luglio 2009 dal “decreto-legge milleproroghe” ( decreto legge 207/2008,
convertito dalla legge 14/2009; un’ulteriore proroga al 1° gennaio 2010 è stata
disposta dal decreto legge 78/2009,
convertito dalla legge 102/2009).