Il
Titolo non è un orpello ma il presagio di una storia, la luce albeggiante di un
racconto, l’indicazione di un percorso di idee ed emozioni. Mai un titolo tratteggia così efficacemente l’intelaiatura
di un romanzo come “Kaputt Mundi” (Sellerio editore).
Lucano
chiamò Roma Caput Mundi. Ben Pastor giocherella con le parole e le
sonorità e impiastricciando sulla tela idiomi germanici, etimi francesi e
accostamenti latini, cambiando la semantica, cancella il sintagma Caput Mundi, Roma
come centro gravitazionale culturale, sociale e civile del globo, per partorire
Kaputt Mundi, nel significato
metaforico e realistico di disfatta del pianeta, sconfitta brutale e
irrimediabile del suo magnificente baricentro, Roma, alchemica al pari della
locuzione latina caput mortuum.
Il vorticoso
turbine narrativo ha il suo epicentro nei giorni di via Rasella e della strage
delle Fosse ardeatine, fra il 23 e il 24 marzo 1944, in una Città aperta ma nello
stesso tempo catacombale, crepuscolare, asfittica, claustrofobica. L’occupazione
nazista è al suo termine e la repressione si fa sempre più brutale. Un delitto “comune”
impilato su altri delitti bellici. Che senso ha trovare l’assassino?
Il
racconto percorre un binario senza contorni marcati, altalenante fra storia, fantapolitica
e giallo, nel cui divenire i personaggi sembrano provenire dall’epica omerica e
confondersi nella possente scenografia romana: “Dum stat Colosseum, stat Roma. Dum stat Roma, stat mundus”.
Roma è
i suoi attori protagonisti e non protagonisti. Roma è le sue comparse, che invero
lo sono soltanto per gli stolti.
Roma teatro
e anfiteatro, proscenio e dietro le quinte.
La
Roma fascista, nazista e della resistenza. Roma puttana prima innamorata del
fascismo, poi genuflessa alla Croce Uncinata e, infine, vindice e finalmente libera,
fra veri e falsi partigiani, tutti fascisti, tutti antifascisti.
Roma trama,
scenografia, sceneggiatura, soggetto e oggetto: “Questo pensare a Roma come la Gerusalemme terrena, come Eden del mondo,
portale di grandezza e infamia, sede dell’anticristo neroniano nell’Apocalisse
di San Giovanni come pure centro del cattolicesimo, ne rende gli eventi
emblematici, ammonitori paradigmatici, universali”.
L’esercito
romano conquistò la Grecia facendosi conquistare ineluttabilmente dalla sua
cultura.
Pastor si interroga non sul
popolo invaso e martoriato ma su chi lo trafigge. Cosa sente il milite romano
fuori dall’Urbs che, nell’imporre con
la violenza la sua presenza, viene soggiogato dal popolo che vuole soggiogare? I
personaggi di Kaputt Mundi non sono a
tutto tondo, ma smussati, incerti, ondivaghi, come l’essere umano nella sua
autenticità: non prevale né il nero o bianco ma il grigio. Le tinte dei partigiani
sono in chiaro scuro come alcune sculture marmoree non completate o appena
iniziate, prestando attenzione l’Autore a coloro fra di loro che vendeva gli
ebrei alle belve in camicia bruna. La prostituta
nella sua istrionica romanità si manifesta ai lettori meno ipocrita e supponente
di certi novelli eroi dell’ultima ora. Tra i fascisti vi sono traditori e
criminali ma anche quelli che incedono in maniera risoluta incontro al linciaggio
perché nulla pensano di dover temere.
Nella
coralità prevale l’individualità, priva di manichea demarcazione fra Bene e Male:
solo esseri umani - salvo dove l’Umanità non v’è - tutti accomunati dalle
proprie miserie e dalla disperata voglia di vivere, circondati e succubi della distruzione
materiale e morale. A giganteggiare sono due figure: l’ufficiale della
Wehrmacht Bora e l’ispettore della polizia italiana Guidi. Il tedesco è un uomo
tutto d’un pezzo, un soldato, non un boia, non uno psicopatico aguzzino come
quelli della Gestapo o delle SS. Guidi è un poliziotto oculato e opaco che
indaga senza compromessi e senza accettare condizionamenti, sprezzante anche
nei confronti del laido questore colluso Caruso. Guidi è un programma in bianco
e nero, fermo in mezzo, incerto se guadare e in che direzione farlo. Guidi è speculare
e inverso a Bora e, forse, per questo non sa se odiarlo o adularlo: chissà se Guidi
avrebbe fatto a Bora ciò che Bora fa a lui. Bora ha una fede, religiosa, politica. Bora è
sofferenza, autocontrollo e incrollabile senso del dovere. Bora è bisogno di
amore imperituro e figli, perché l’uomo senza radici galleggia nel vuoto. La weltanschauung
dell’ufficiale dell’annientato Reich è granitica anche nell’apice della tragicità,
mai cede all’incertezza. Guidi è un poliziotto di un regime che sta crollando e
che si sta dispiegando verso l’ignoto. Il dubbio è shakespeariano: essere o non
essere un partigiano e, se sì, essere come quelli che gli spianano la pistola
al pari dei nazisti mentre è in attesa di calarsi nell’oscurità delle cave
sulla via Ardeatina? In realtà, tranne
Bora e i criminali nazisti che gli gironzolano affianco, i profili caratteriali
ed intimistici sono sfocati come se Ben
Pastor li costruisse con stille impressionista,
con decisi colpetti di pennello, fraseggi psicologici e introspettivi come
chiazze di colore vivido che compongono personalità visibili solo da lontano.
Bora è
la cultura e la civiltà europea, la filosofia e il Pensiero che non riesce a
piegarsi alla pratica quotidiana dell’Orrore. Una storia bimillenaria che si
invera nel cardinal Hohmann che vede nei 335 massacrati il vero volto del nazionalsocialismo
e non quello che pensava fosse ai suoi albori.
L’umanesimo
e il classicismo non muoiono con Hohmann ma figliano nell’animo e nell’intelletto
di Bora alla cui ombra vive Guidi: “Era
appropriato, pensò Guidi, che quell’ufficiale della Wehrmacht avesse delle
cicatrici sul corpo, perché non era da meno nel suo intimo”.
Fabrizio Giulimondi