“Riportando tutto a casa” (Einaudi) di Nicola Lagioia, da alcuni considerato un campione in pectore del romanzo italiano, è la
storia ruvida di uno sgradevole amarcord
raccontata con uno stile eccentrico e nervoso, infagottato o impreziosito da
aggettivazioni, giochi ed equilibrismi espressivi (“tra il cinguettio delle nostre chiacchierate, l’aculeo di un episodio
inconfessabile subito ricoperto dal miele a lunga conservazione di altre
banalità”…”avevo ripassato tante volte quella scena nella speranza di logorare
l’elastico del tempo, ma il tempo era l’eterna vibrazione di un elastico
nascosto”).
Il “vuoto”
è la trama della narrazione, ne è il canovaccio e il leitmotiv, ne è il fil rouge. Il
“vuoto” di figli consegnati all’ eroina dal cupio
dissolvi di genitori bramosi solo di apparire e mostrare ricchezze e lusso,
obnubilati da un parossistico, feroce e forsennato lavoro (“il bello diventato insulto, l’eccesso di
vitalità che trascolora nel delirio di impotenza, l’arroganza spumeggiante del
benessere che imbocca la strada della frustrazione”).
Il set è Bari e sullo sfondo si depositano gli
anni ’80 con i suoi Gorbacev, i suoi Reagan, i suoi Wojtyla e i suoi Mandela, con
l’arrivo della televisione commerciale e degli onnipresenti quiz e il boom della borsa e le bombe sui treni e
il Muro che crolla e la Porta di Brandeburgo che si apre ad una nuova epoca che
non porterà ad una nuova Europa, e poi “Mani Pulite”, e poi la fine: “Non si può perdere quello che non si è mai
avuto, non si ha quello che non si è mai perso”.
“Mi chiamo Katniss Everdeen ho diciassette
anni. Sono nata nel distretto 12. Ho partecipato agli Hunger Games. Sono
fuggita. Capitol City mi odia. Peeta è stato fatto prigioniero. Si pensa che
sia morto. E’ molto probabile che sia morto. Forse è meglio che sia morto…”
Are
you, are you coming to the tree, they strung up a man they say who murdered
three. Strange things did happen here no stranger would it be. If we met at midnight in the hanging
tree.
Pochi
registi sono in grado di trasportare una buona idea dalla carta allo schermo
portandola a così alti livelli. Francis
Lawrance è riuscito nuovamente a lasciarci senza fiato. Questa volta non è
stato aiutato dai colori brillanti e gli splendidi panorami che lusingano
l’occhio dello spettatore, ma il suo tocco non è cambiato neanche nei
sotterranei del distretto 13, come la sua incondizionata lealtà alla scrittrice
Suzanne Collins. Questo film è la prova
di come si può dirigere un film splendido senza cambiare una virgola del libro
a cui si è ispirato, è la prova che la bravura di una regista sta nel dettaglio
cinematografico, non nel completo stravolgimento della trama letteraria, come
spesso accade. Non per questo non vi sono state scelte e cambiamenti, alcuni
assolutamente ben riusciti (l’intelligente decisione di lasciare la presenza di
Effie), altri meno convincenti (il finale, secondo la migliore tradizione
americana, è mal fatto).
Ad
ogni modo, la sensazione che proverete – per chi ha letto la trilogia – sarà
proprio quella di rileggere il libro mentre guardate il film. Rivedrete le inquadrature
e le immagini che si erano andate a
creare nella vostra testa e le stesse battute che hanno accompagnato tutti i
personaggi.
Are
you, are you coming to the tree where dead man called out for his love to flee.
Strange things did happen here no stranger would it be. If we met at midnight in the hanging
tree.
Non
mi soffermerò più di tanto a parlare dell’ormai rinomata capacità della nostra
amata Jennifer Lawrance, che
interpreta Katniss Everdeen, come già saprete tutti. Eravamo da tempo a
conoscenza del suo singolare talento. Ciò che ci era stato nascosto era la sua
dote di cantante di cui, costretta fino alle lacrime dal regista, ha dovuto
dare prova. Credo che la scena de “L’albero degli impiccati” (The Hanging Tree) sia la parte più
geniale ed emozionante di tutto il film, perché è suggestivo vedere come una
semplice e timida voce possa divenire il tritolo che fa esplodere una diga. Per
quanto la storia, per alcuni amanti della critica, possa sembrare distante anni
luce da noi, Francis Lawrance la rende assolutamente attuale, assolutamente
reale e fedele a ciò che è accaduto in passato e accadrà in futuro.
Are
you, are you coming to the tree where I told you to run, so we'd both be free.
Strange things did happen here no stranger would it be. If we met at midnight in the hanging
tree.
Questa
pellicola unisce tutto ciò che ha segnato la nostra storia e che continua a
segnarci, questo film potrebbe raccontare di tutto il sangue, le morti e le
speranze che sono vissute su questa stessa Terra: vi è la guerra in tutto il
suo più crudele realismo, che si va a sposare con la propaganda politica. Ci
insegna come quella scatola misteriosa dalle mille immagini che siede davanti
al nostro divano, proprio in casa nostra, possa diventare lo strumento più
potente e devastante per una rivoluzione. Ci insegna, come anche altri nel
corso della storia ci hanno insegnato, che ciò che da forza è la speranza e la
speranza spesso si aggrappa alla semplicità di un canto, al volo di un uccello,
ad una spilla appuntata per caso su una giacca, si aggrappa ad un simbolo, si
aggrappa alla Ghiandaia Imitatrice. La speranza si arrampica sui muri, sugli
specchi, sulle braccia di chi vuole sorreggerla. E’ l’edera del mondo che
resiste anche al fuoco delle bombe e dei carri armati, anche quando si spegne
la luce e si resta al buio, soli con la paura. La speranza resiste sempre, è il
batterio benigno dell’umanità, è la scintilla che divampa nell’incendio. E come
in ogni scena c’è il dolore, in ogni scena c’è la fiducia. Solo alla fine ci si
spezza, perché sono le cose che amiamo di
più a distruggerci.
Are
you, are you coming to the tree wear a necklace of hope, side by
side with me. Strange things did happen here no stranger would it be. If we met at midnight in the hanging
tree.
“Il numero del Gatto Matto diventa la
metafora della mia situazione. Io sono Ranuncolo. Peeta, che ho tanta voglia di
mettere in salvo, è la luce. Ranuncolo, finché sente di avere la possibilità di
afferrare tra le zampe quel bagliore sfuggente, ribolle di aggressività. (E’
così che mi sento io da quando ho abbandonato l’arena, con Peeta ancora vivo.)
Quando la luce si spegne rimane turbato e confuso per un po’, ma poi si
riprende a passa ad altro. (E’ ciò che mi succederebbe se Peeta morisse).”
Miss
Everdeen, it’s the things we love most that destroy us.
Dopo
Semina il vento del 2011 e lo
splendido Le colpe dei padri, che
avrebbe senz’altro meritato l’assegnazione del Premio Strega edizione 2013 e
non il secondo posto, Alessandro
Perissinotto ci dona "Coordinate d’oriente"
(Piemme), romanzo che parte lento e
sonnecchiante, si ravviva cammin facendo, per poi esplodere nella volata finale,
dove le lacrime che si erano via via condensate ineluttabilmente si sciolgono.
Fra
Shanghai e Torino, fra tragedie, abbandoni e nuovi incontri, fra uno spazio (“semplice indicazione di rotta,…annuncio,…presagio
di città,…profezia”) e un luogo (“identitario,
relazionale e storico”), fra semafori e alberi, crocevia di morti filiali devastanti
e sopraggiunte empatie tra la pirandelliana Jin e il tutto senso di colpa, del
dovere e di responsabilità Pietro, la narrazione procede per fotogrammi e a più
dimensioni: il lettore sente i sapori dei cibi d’oriente, gli odori acri,
pungenti, delicati o sgradevoli che aleggiano nelle stradine caotiche delle
megalopoli cinesi e si addensano nelle abitazioni private e nei locali pubblici;
ascolta le parole che veleggiano nei dialoghi e che assumono valore e
consistenza solo grazie alle diverse intonazioni conferite ad esse dai
personaggi, parole il cui ritmo cadenza e ticchetta l’incedere delle frasi (“Una chela di granchio, un uovo cotto nel
sale, delle fave lunghe e nere, dei blocchi che sembrano torrone, e,
naturalmente, spiedini, involtini, carne di maiale. Nel vicolo si vende solo
cibo, cotto e crudo, vegetale e animale: roba che camminava, che volava, che
strisciava, che ronzava, che ragliava, che pigolava, che nuotava, che gracidava,
a sangue caldo, a sangue freddo, senza
sangue”); vede i colori, le miriadi di tinte che salterellando sbucano
dagli stralci di vita tratteggiati da Perissinotto; sente le note delle sonate
di Stockhausen, Offenbach, Ravel, Satie, Berg, eseguite dalle mani di donna
delle pulizie e di artista di Jin. Nel sottofondo si intravede la rivoluzione
culturale maoista, con il suo retrogusto acido, che fa da contraltare all’erotismo
velatamente evocato mediante le pagine de L’amante
di Marguerite Duras e di Eros dans un train
chinois di René Depestre.
Ognuno
ha bisogno di raccontare e di essere raccontato e la voce narrante, la voce
fuori scena, e poi dentro la scena, che compie questa opera maieutica è proprio
quella dell’Autore, il quale, lungo il suo viaggio - reale ed affettivo,
immaginario, immaginifico e concreto - in
Cina, aiuta le storie “a uscire, a farsi
strada nella confusione dei fatti che si affastellano”.
Il cinema italiano ed europeo ha un nuovo gigante: Elio Germano.
L’interpretazione
di Giacomo Leopardi ne “Il giovane
favoloso” di Mario Martone – insieme
ad uno straordinario cast - lascia
senza fiato nella grandiosità della recitazione e nella capacità espressiva corporea
del genio e della sofferenza dell’immenso poeta marchigiano (Recanati, 29
giugno 1798 – Napoli, 14 giugno 1837).
La mirabile declamazione dei versi leopardiani fa da colonna sonora ad
una fotografia (Renato Berta) le cui
immagini raccontano la vita, la sublime profondità letteraria, l’intelletto, la
disperazione, la gioia, la passione, l’amore frustrato e la struggente
solitudine di un Uomo e di un Poeta.
Lo splendore
dei palazzi ottocenteschi di Recanati, Firenze,
Roma e Napoli, e poi, la possanza
e la terrificante bellezza della eruzione del Vesuvio accompagnata dalla voce
di Leopardi, che fa giungere alle nostre
orecchie La ginestra, e tutto
ammutolisce e tutto zittisce, mentre l’umanità
rumorosa, fuori, continua il suo inutile cicaleggio.
Dopo
Il Suggeritore (vincitore del premio Bancarella
2009) e L’ipotesi del male (recensito
in questa stessa Rubrica), si affaccia nelle librerie italiane un altro romanzo
di Donato Carrisi“Il cacciatore del buio” (Longanesi), un autentico capolavoro
thriller, carico di interminabile suspance
e mistero e colorato di tinte cupe orlate di tenebra, un affresco
letterario composito e potente.
“Il penitenziere era in grado di rievocare il
male che quello si portava dentro…Esistono alcune categorie di crimini che
attirano l’attenzione della Chiesa….Si differenziano perché contengono una ‘anomalia’
”
Una
figura antropomorfa esoterica di un uomo con la testa da lupo. Strade e piazze
di Roma avviluppate da bellezza e magia. L’irraccontabile che si nasconde nella
Roma sotterranea e catacombale. Palazzi romani antichi dove regna ancora l’inquietudine
di chi vi ha vissuto. Pitture, dipinti e mosaici che seguono con sguardi
tormentati personaggi che cercano verità indicibili, malefiche. Una
ambientazione della storia dove non si distinguono più i confini fra
letteratura e cinema e i tratti di penna e immagini filmiche si fondono
indissolubilmente. Brian de Palm, Alfred Hitchcock, Jonathan Demme tessono il
filo narrativo insieme a Carrisi. Sandra che consegna a Marcus la medaglietta
di San Michele Arcangelo appartenuta a Clemente rimanda immediatamente la mente
alla scena finale de L’esorcista.
Transessualismo mortifero, metamorfosi kafkiane, bambini che come crisalidi diventano
“altro” da adulti: assassini narrativi, psicopatici sapienti.
Hic est diabolus.
Il
Bene e il Male sono dimensioni marcatamente opposte e avverse o sono due dimensioni
di uno stesso Essere? Sono così irrimediabilmente separati come ne Lo strano caso del dottor Jekyll e del
signor Hyde di Robert Louis Stevenson, o semplicemente l’uno è servente all’altro?
il Male ancillare al Bene?
I
siti archeologici, i monumenti e le chiese romane raccontano storie e leggende
che riportano il lettore a tempi antichi che in realtà potrebbero sostanziare il
nostro futuro.
Colis eum?
Un
prete amnesico che è un penitenziere, ossia un cacciatore del buio: ”Lui era un cacciatore del buio. Non si
trattava di una professione, era la sua natura. Il male non era semplicemente
un comportamento da cui scaturivano effetti e sensazioni negative. Il male era
una dimensione. E il penitenziere riusciva a scorgerla, vedendo ciò che gli
altri non potevano vedere.”.
“Un cuore per la vita eterna. Perché il Papa
e la Chiesa tacciono?” di Maurizio Blondet (Edizioni Effedieffe)
“In
una metropoli sudamericana, per anni ostie sanguinano. Non solo: diventano un
pezzo di Cuore sofferente, come dimostreranno successive perizie forensi. Ci
troviamo di fronte ad un fatto, un segno dei più concreti: è l'apparenza che
s'è trasformata in Realtà, nella Realtà affermata da Gesù stesso che, nello
spezzare il pane, affermò: "Questo è il mio corpo". Ecco la Sua
Verità letterale, che dobbiamo urgentemente recuperare insieme al senso della
Maestà. Un fatto che non solo scredita tutte le nuove teologie: distrugge tutte
le filosofie moderne; e conferma - scandalosamente - il realismo e
l'oggettività di Aristotile e di san Tommaso. In questo senso è doveroso
domandarsi: come avrà inteso quel messaggio Jorge Mario Bergoglio, attuale
Pontefice ed arcivescovo proprio all'epoca dei fatti argentini? È possibile che
l'eloquente "segno", il doloroso segno della Presenza Reale, sia
voluto apparire proprio a Buenos Aires, e con tanta insistenza, per ben tre
volte, carico di un segreto avvertimento per il futuro Papa? Domande che
purtroppo avranno conseguenze apocalittiche per questa Chiesa e per l'attuale
apostasia che l'ha travolta, anch'essa predetta".
....continuate a pensarmi...continuate a
parlarmi...continuate a raccontarmi quello che fate...proprio come se fossi lì,
con voi, perché potrei essere davvero
lì, con voi.