Oliver Stone
continua a rimpolpare il suo filone cinematografico di denuncia e didascalico,
per la sua capacità di mettere a conoscenza le “masse” di fatti dai più
ignorati. “Snowden” è un
interessante cyber movie, fra azione,
thriller e momenti un po’ lenti e deboli, forse perché risentono di qualche minuto
di troppo.
La
pellicola racconta dello scandalo - iniziato nel 2004 sotto l’Amministrazione Bush
junior e proseguito sino al 2013 vigente
quella Obama - che ha riguardato le intercettazione illegali di decine di
milioni di americani (e non, inclusi Capi di Stato e di Governo stranieri). Il
protagonista, Edward Snowden - il cui bravissimo interprete Joseph Leonard Gordon-Levitt si avvicina
fisicamente molto al vero Snowden, che
compare nelle ultime battute del film - è un genio dell’informatica e, una
volta assunto dalla CIA, scopre che la NSA (National Security Agency), ossia il
servizio segreto interno, autorizzata da un altrettanto occulto tribunale,
procede da tempo al controllo dei mezzi di comunicazione di moltitudini di
cittadini del Mondo. Il coraggio e un vero sentimento patriottico prevarranno
sull’interesse personale, fatto anche di laute prebende: Snowden denuncerà
questo infernale meccanismo che con il contrasto al terrorismo internazionale islamista
nulla, in realtà, ha a che fare.
Snowden
è tutt’ora rifugiato a Mosca ed Amnesty International chiede che sia
considerato non un traditore ma un eroe e, per questo, graziato.
“Animali notturni” di Tom Ford, tratto dal romanzo di Austin Wright “Tony and
Susan”, è un film ad alta tensione, che fa stare sulle spine lo spettatore per tutta
la sua durata, senza mollare mai la presa, rendendo impossibile la distrazione
anche del pubblicopiù pensieroso.
Una
straordinaria e sempre seducente Amy
Adams e il bravo Jake Gyllenhaal
interpretano una coppia con ruoli diversi (e in realtà eguali) in tre storie speculari,
che si alternano fra passato e presente
e nel presente in vicende che si svolgono parallelamente intorno alla lettura di
un romanzo Nocturnal animals, dove le
scene degli accadimenti che coinvolgono la donna che legge vanno ad
intersecarsi con quanto legge, per poi essere proiettate nel passato, con la
collaudata tecnicadelle sliding doors: un racconto che si svolge
abilmente su tre piani in contemporanea, senza creare però alcuna confusione
nel seguire la narrazione dei fatti.
La
fotografia è spettacolare con immagini splendide del deserto texano tinto del
rosso fuoco del suoi tramonti; i
truccatori bravissimi per la loro maestria nel trasformare la Adams da giovane pulzella a tormentata
madre e moglie. Finale aperto tutto da interpretare.
Il
Premio Campiello Carmine Abate ci ha
già abituato alla bellezza grazie alla sua lunga narrazione intima, delicata,
sulla sua famiglia e sulle altre famiglie calabro-arbëreshë, sulla Terra e
sulle radici, iniziata con Tra due mari e
(almeno per ora) terminata con la sua tredicesima opera “Il banchetto di nozze e altri sapori” (Mondadori).
Essere
avviluppati dalla bellezza, essere avvolti da un lungo abbraccio caldo, dove
non c’è morte ma soltanto un incorruttibile inno alla vita, alla propria
storia, al cibo che quella vita e quella storia avvolge e rassicura.
“Il banchetto di nozze e altri sapori” è
uno scrigno letterario, fra il breve romanzo e la raccolta di racconti, che una
volta aperto sorprende il lettore con un florilegio di sapori, di colori, di
odori, sapori, colori e odori che vengono da lontano, da una Comunità fuggita dall’Albania
dal dominio ottomano nel ‘400 e residente in Calabria, pregna di costumi, usanze,
pietanze sanizze. In questo scrigno letterario le parole
italiane, calabresi, arbëreshë e tedesche vengono gustate, assaporate, odorate,
ne sentirete il bruciore perché sono cosparse di peperoncino, sanno della
fragranza di un pane che si bacia. Abate
accenna ai suoi libri precedenti come La festa del ritorno, Il ballo tondo, La felicità dell’attesa e Vivere
per addizioni e altri viaggi, per rilanciarne il loro nettare in una
sinfonia composita fatta di convivialità, affetti familiari e origini, in un amarcord
che passa dai nonni ai nipoti transitando per lo stesso Scrittore. Si vive per addizioni,
sommando gusti antichi a saporosità nuove, provenienti da altre regioni, da altri
mondi, come la polenta alla 'nduja,
che unisce settentrione e meridione d’Italia.
“Il banchetto di nozze e altri sapori” è
la scoperta di sentimenti autentici fra i genitori e fra questi e i propri
figli, tra fidanzati, sentimenti antichi e in alcun modo toccati dalle
vicissitudini della vita, perché sono immutabili e duri come le asperità della
terra calabrese e la legnosità degli alberi con cui si fa il fuoco davanti alla
chiesa del paese la notte di Natale.
Il
cibo è saporitoso e lo mangi con
occhi socchiusi perché sai che poi ne sentirai la nostalgia. Leggerete odorando
i sentori del mare calabro e delle montagne trentine.
E
poi il banchetto nuziale finale tuonerà in una commovente e vera gioia, dinanzi
ai vostri occhi trascinati dalle emozioni vissute dall’Autore durante il suo
pranzo di nozze.
Io
mentre sto scrivendo ne sento ancora i palpiti e vorrei ancora da essi essere
cullato.
“Ogni luogo è un sapore. Chissà che palato
ricco di gusti ti farai vivendo in tanti posti diversi. L’importante è che li
aggiungi ai sapori della nostra terra, di quelli siamo fatti nel profondo,
della sua scorza odoriamo, anche se viviamo altrove”.
“I
confini della patria interiore debbono essere presidiati…..se si apre una
frontiera è per meglio conservarne il controllo, ma per permettersi un simile
lusso serve una rete di spie agguerrite, spietate”.
“La
solitudine dell’assassino” di Andrea Molesini (Rizzoli) è un impasto di storie
nel labirinto del passato dove fascino baudeleriano per l’omicidio, onore e
amore idealizzato si baciano con viaggi introspettivi nell’anima umana,
crogiolandosi fra Il vecchio e il mare e l’Odissea.
“La
solitudine dell’assassino” è un finto thriller che rappresenta solo l’occasione
per compiere una analisi serrata della fragilità degli uomini, ossia proprio di
quella fragilità che rende ogni persona un essere umano, che si barcamena fra
gli inferi ed il Cielo.
“La
solitudine dell’assassino”, che affabula il lettore con costruzioni
linguistiche fondate su fascinose composizioni di parole ed ardite
aggettivazioni, è prosa e poesia, poesia e prosa, che inizia sonnecchiando per
poi incedere con movenze sempre più pressanti, per esplodere e terminare
lasciando il lettore con un dolce sapore amarognolo della presenza impalpabile
di Carlo, una presenza che egli sentirà come reale nelle ore successive aver
cessato di leggere.
Sono
d’accordo con Niccolò Ammaniti: “Ogni lettore si fa un proprio film con il
libro che sta leggendo”.
“Fai bei sogni”, libera trasmigrazione
filmica di Marco Bellocchio del
bellissimo romanzo autobiografico di Massimo
Gramellini, probabilmente non è la pellicola che avrei tirato fuori io,
anche se inonda di emozioni violente lo spettatore.
Il
libro di Gramellini (di cui riporto a
piè di pagina la recensione al tempo redatta) tratta un tema tragico in maniera
poetica, lieve, talora quasi leggiadra, mentre la narrazione di Bellocchio è angosciante, carica di scene
che scuotono il pubblico sino a copiosi singulti.
Le
stesse tinte che signoreggiano la fotografia sono pallide, smorte, tendenti quasi
al bianco e nero.
La
storia, fra passato e presente, è intensa, densamente drammatica, trasudante un
commovente amore per la mamma , anzi le mamme tutte. La versione cinematografica
di “Fai bei sogni” esplora un vuoto incolmabile,
inenarrabile ed inaccettabile, specie per un ragazzino di nove anni e per l’uomo
che diventerà.
La lettura
della missiva che Gramellini scriverà in risposta ad un lettore de “La Stampa”
che si lamentava della propria madre con toni particolarmente aspri, ferma, durante
tutta la sua durata, il tempo e lo spazio.
Suggestivo
il richiamo, tramite le ripetute apparizioni di Belfagor immaginate dal
protagonista, alla Morte così come raffigurata ne Il settimo sigillo di Bergman.
Gli
attori sono tutti ineguagliabili per bravura e potenza degli sguardi, delle
espressioni mimiche, della capacità recitativa e dei silenzi.
Valerio Mastrandrea è
impareggiabile e i giovani attori che interpretano Gramellini bambino e ragazzo , Nicolò
Cabras e Dario del Pero, sono
fuori dal comune: entrambi esprimono nella loro corporeità l’indicibile
sofferenza che stanno vivendo e che segnerà il famoso giornalista. La durezza
sabauda del padre è magistralmente mostrata da Guido Caprino.
L’altalenante
musica fra il ruvido e lo spensierato penetra nelle immagini per giungere non solo
alle orecchie, ma soprattutto al cuore, alla mente e all’anima.
Fai
bei sogni…………...
Fabrizio Giulimondi
Recensione
del libro
“Se
un sogno è il tuo sogno, quello per cui sei venuto al mondo, puoi passare la
vita a nasconderlo dietro una nuvola di scetticismo, ma non riuscirai mai a
liberartene. Continuerà a mandarti dei segnali disperati, come la noia e
l’assenza di entusiasmo, confidando nella tua ribellione”.
E’
una delle 223 pagine del romanzo autobiografico di Massimo Gramellini “Fai bei
sogni” (Longanesi); è una delle 223 pagine che costellano un libro di rara
bellezza contenutistica e di rara profondità, paragonabili solamente alle opere
di Marcello Veneziani.
Pagine
commoventi, emozionanti, toccanti, delicate e tenere e, poi, ironiche nel
dramma, divertenti nella tragicità del racconto, leggere nella drammaticità
della narrazione. Pagine che ricordano il drama greco che toccava le corde
dell’anima e del cuore, senza infierire con la violenza e il sangue.
Pagine
intense che descrivono come possa determinarsi la vita di un bambino sino
all’età adulta privato della mamma, una madre che è morta quando egli aveva
appena 9 anni a causa di un infarto.
Quel
fanciullo è Gramellini, che ha avuto il coraggio di raccontare la sofferenza,
il dolore e la disperazione nascosta nelle anse più intime di se stesso; come
quel bimbo insieme al suo peso sia diventato l’affermato giornalista del
quotidiano la Stampa di Torino e il noto polemista televisivo che noi
conosciamo; quale percorso professionale abbia attraversato, dallo sport, alla
politica, ad inviato di guerra nell’inferno di Sarajevo, dove incontra Salem,
con lo stomaco squarciato da una pallottola sparata da un cecchino serbo. E
tutto questo mentre Belfagor è dentro di lui: ”Belfagor è il nome che da
bambino avevo dato al mostro che abita dentro di noi. Uno spiritaccio animato
da buone intenzioni, in realtà pernicioso, perché pur di tenerci lontano dalla
sofferenza ci chiude in una gabbia di paure. Paura di vivere, di amare, di
credere nei propri sogni”.
L’assenza
della mamma, la morte della madre, ha segnato profondamente sino alla età di 49
anni Massimo Gramellini, anche nelle sue relazioni con le donne, finché non ha
incontrato la attuale moglie, Elisa. Ecco il suo cuore risuscitato come parla
dei sentimenti: ” Le emozioni sono violente e brevi, colpiscono e svaniscono. I
sentimenti invece sono lenti e profondi, a volte noiosi. Ma parlano il
linguaggio universale del cuore, che non si esprime attraverso le parole e i
ragionamenti, ma con i simboli”.
E
sopraggiunge la verità, fatalmente ed ineluttabilmente la verità, non
conosciuta sino alla soglia dei 50 anni o, forse, sempre saputa e fuggita per
lungo, troppo, tempo. Madrina, una vecchia amica della madre e della famiglia,
gli consegna una busta……
Turbamento
e rigenerazione è quello che ho provato al termine della lettura di questo
libro “unico”: è un imperativo kantiano immergervisi!
Credo
che lo rileggerò almeno un’altra volta.
Vorrei
terminare con un pensiero di George Bernard Shaw, ripreso dallo stesso Autore
del romanzo: “La missione di un uomo consiste nell’essere una forza della
natura e non un grumo agitato di guai e di rancori che recrimina perché
l’universo non si dedica a renderlo felice”.
“Che vuoi che sia”, di e con Edoardo Leo e una sempre più brava Anna Foglietta, si inserisce e rafforza
quel nuovo filone cinematografico che amo definire della moral comedy. Edoardo Leo
riprende i temi trattati già nei suoi precedenti lavori Noi e la Giulia e - specialmente - Smetto quando voglio sul rigetto da parte di un mercato di lavoro “corrotto”
di intelletti vivaci. Il film è, ancora più degli altri, in salsa agro-dolce con
punte drammatiche ed è in buona compagnia con altre pellicole nel mostrare il
meccanismo luciferino del web, che tutto ricicla, nulla dissipa e arricchisce
solo ciò che gira intorno al mondo del porno.
Astuta la
trovata artistica che vede i due protagonisti parlarsi attraverso
circonvoluzioni di parole radicalmente opposte a ciò che si vogliono realmente dire.
Nelle
librerie v’è una biografia romanzata a forma di ballata, “Qualcosa
sui Lehman”(Mondadori), scritta
da un autentico genio artistico italiano, Stefano
Massini, che demolisce i consueti canoni stilistici e saltella fra
letteratura, cinema, fumettistica, musica, giudaismo, finanza e due secoli di
storia.
“Qualcosa
sui Lehman” è una summa di
linguaggi e di culture letterarie che abbraccia Grecia e futurismo. La varietà
di epiteti e di poliformi figure
letterarie scoppiettano con pirotecnici usi polifonici della parola. Massini è l’acrobata delle parole con
cui gioca e si diverte con il lettore facendogli attraversare avvenimenti
bisecolari che hanno coinvolto la potente e numerosa gens di finanzieri americani Lehman (i Lehman Brothers). Massini induce
il suo pubblico a dipanarsi fra i marosi di arditismi linguistici e fantasiose
architetture retoriche. Il lettore, avido di sapere “come va a finire”, in
alcuni momenti inconsapevolmente accantona la narrazione per seguire
costruzioni funamboliche per intere pagine ruotanti intorno all’avverbio NON; affascinato
si perde nel serrato dialogo duettante fra Peter Lehman e Peggy Rosenbaum,
tutto composto di frasi estrapolate da film cult
degli anni ’30 e ’40; si stupisce dinanzi all’improvvisa trasformazione della
prosa in fumetti che tramutano magicamente i discorsi in battute fra super-eroi;
si concentra sul lungo ed eccentrico periodare in cui parole evidenziate in
rosso si combinano fra di loro dando vita a locuzione di matrice
marxista-comunista; viene rapito dalla metamorfosi delle vicende dei Lehman in
quelle vissute dai protagonisti nel film King
Kong del 1933 (guarda caso finanziato proprio dalla Lehman Brothers!); è avviluppato dagli onirici incubi di Philip
Lehman e incespica in fitte discussioni in cui le parole si mischiano agli
indicatori numerici di quei “derivati” che determineranno la crisi economica mondiale
del 2008, trotterellando prima per il 24
ottobre 1929.
La
parola fatta segno trasloca nel frastuono delle contrattazioni borsistiche, intrappolando chi vi si imbatte similmente a
sabbie mobili.
“Qualcosa
sui Lehman” è la storia di una famiglia di mercanti di bestiame, che ha le sue radici in Germania prima di inondare gli States con il proprio volumetrico
mercanteggiare su tutto, dal cotone, al ferro, al caffè, al petrolio al
tabacco, per giungere agli arei, alla computeristica e ai titoli “sporchi”.
Il
ritmo narrativo seguito è sincopato in quanto vi confluisce la metrica greca e
latina unitamente ad una singhiozzante estetica grafica che incolonna frasi e
periodi, oltre ad incanalare in una stessa colonna ripetute parole,
identiche fra di loro o fra di loro in alterco, ossessivamente ticchettanti nelle
orecchie di chi legge. Al pari di una
canzone, reiterati fraseggi a mo’ di irriverenti ritornelli sono posti all’inizio,
nell’intermezzo e al termine di brani e capitoli.
Il
lucro è al centro di tutto, perversa patologica brama di denaro che deve fruttificare
altro denaro e altro ancora per l’immortalità della famiglia Lehman, sino alla
malattia mentale, che si insinuerà nelle intelletti di ogni suo singolo membro.
La
lettura ondeggia fra Vecchio Testamento e finanza, ebraismo e lavoro
parossistico, per la sempiterna gloria del cognome Lehman, per la glorificazione
dell’unico idolo da adorare: “il vitello d’oro”.
Ogni
passaggio è infarcito di ironia, tutto è ironia, non c’è momento della vita dei
Lehman che non sia maneggiata da Massini
con ironia, non leggiadra, ma sprezzante, feroce ironia; e poi il gioco fra termini
italiani e in lingua yddish, e il motteggio e l’allegro connubio tra plurimi
idiomi con cui vengono tradotte medesime espressioni, per rendere allegro ciò
che è tragico, un tragico mercato
globale fatto a immagine e somiglianza della
biblica Torre di Babele.
Il film
di Michele Placido (di cui è anche
sceneggiatore, soggettista e attore) - da
standing ovation finale con nodo alla
gola - “7 Minuti” ha un cast quasi tutto al femminile, che vede interpreti
neofiti e di lunga data tutte egualmente straordinarie: Ambra Angiolini, Cristiana Capotondi, Fiorella Mannoia(che richiama alla mente un
poco la grande Anna Magnani), Maria Nazionale,
Violante Placido, Clémence Poésy, Sabine Timoteo, Ottavia Piccolo, Anne
Consigny, Balkissa Maiga, Luisa Cattaneo, Erika D’Ambrosio.
Vera
nella sua autentica drammaticità, la pellicola racconta una storia che sarebbe veritiera
anche se non trattasse una storia accaduta realmente nel 2012 fra l’Italia e la
Francia.
Veri
i volti tesi, veri gli sguardi spauriti, vero il senso di smarrimento, di gioia
ed incredulità, vera la tensione dentro e fuori la fabbrica, vere le facce
smunte di undici operaie che devono decidere il destino proprio e di altre
trecento colleghe dinanzi ad una proposta dei nuovi datori di lavoro
apparentemente innocua: nei dettagli si nasconde il demonio.
Questa
opera, ambientata prevalentemente al chiuso fra le quattro mura di una stanza, è una scuola di recitazione dove la
finzione scenica si schiude alla quotidiana tragica realtà di centinaia di
migliaia di donne e uomini che devono cedere invisibilmente, lentamente ed
inesorabilmente diritti pur di tenersi uno straccio di lavoro che riconosca loro uno straccio di stipendio.
Michele Placido,
che mostra il lato attoriale della regia, mette in scena una piece teatral-cinematografica che
riprende la tradizione neorealistica italiana con un incisivo tocco del cinema
di Ken Loach.
Ho
una lunga esperienza recensoria dei racconti (La velocità dell’angelo nella raccolta Cocaina) e dei romanzi (Ragionevoli
dubbi, Il silenzio dell’onda, Il bordo vertiginoso delle cose, Le regole dell’equilibrio)
del magistrato-scrittore Gianrico
Carofiglio.
L’ultima
sua fatica proposta al pubblico edita dalla Einaudi
è “L’estate fredda”, la cui storia si
svolge fra la “Strage di Capaci” del 23 maggio 1992 e quella del 19 luglio che coinvolse
Paolo Borsellino e la scorta. Seguendo il cliché
della recente giallistica propria di De Giovanni e Camilleri ci imbattiamo di
nuovo nel maresciallo dei carabinieri Pietro Fenoglio (il cui cognome evoca
quello del grande Scrittore piemontese). Il maresciallo Fenoglio incarna i tratti caratteriali peculiari dei
protagonisti dei libri di Carofiglio:
il pensiero moraleggiante e ideologicamente orientato; il loro essere precisini
e perfettini; il volteggiare sopra gli altri con un indubbio sentore personale
di superiorità nascosto dietro una apparente, quanto falsa, modestia. L’attenzione
e l’attrazione è per i criminali, anche di alto cabotaggio, contestualmente ad un certo senso di fastidio per la
gerarchia e l’autorità. I veri eroi sono gli appartenenti alle forze dell’ordine
(precipuamente i carabinieri), mentre i magistrati sono attori non protagonisti
che apportano alla narrazione il caratteristico elemento tecnico proprio dello
stile di Carofiglio. Il magistrato
prevale sullo scrittore intrattenendo il suo pubblico con numerosi ed utili
richiami al codice penale e di procedura
penale, oltre con dettagliate descrizioni degli istituti giuridici coinvolti e
dei passaggi procedimentali e processuali.
In
maniera stravagante ed inspiegabile in pieno core delle vicende raccontate, durante un lungo ed intenso interrogatorio
di un malavitoso pugliese collaborante di giustizia, l’interrogato nel giro di
poche pagine compie due affermazioni in netto
contrasto fra di loro, senza che gli inquirenti eccepiscano alcunché.
Incredibile
ma Autore ed editor non si sono
accorti di nulla!
Carofiglio
adopera l’usuale forma linguistica
piacevole ed estremamente scorrevole,
consentendo un’agile e veloce lettura.
Piuma è la bambina che sta
per nascere da due ragazzi che sono in procinto di fare la maturità e il
tosco-londinese Roan Johnson si
avvicina ad un simil tema con una delicata, emozionante e commovente tragi-comica
carezza.
La
trama pulsa di tenerezza, una tenerezza che traspira dalla immatura incoscienza
di ragazzi che non si fanno in alcun modo ingannare dalle pressanti ed insidiose
richieste di aborto provenienti dalle famiglie dei ragazzi, nuclei molti
eterogenei fra di loro e sociologicamente ben analizzati.
Film
corale, con attori tutti molto bravi e un notevole Sergio Pierattini nella parte del futuro nonno dal lato paterno.
Artisticamente
coinvolgente la tecnica filmica di punteggiare il racconto mediante passaggi
immaginifici, che vedono i due protagonisti nuotare per un mare che funge da
cielo e sovrasta un paesaggio fatto dai “casermoni” del quartiere tuscolano di
Roma.