sabato 30 novembre 2013

"HUNGER GAMES - CATCHING FIRE" DI FRANCIS LAWRANCE


 
“Welcome, welcome! The time has come to select the one courageous young man and woman for be honor of representing District 12 in the 74° annual Hunger Games!”.
 

Non sono mai stata più euforica nell’uscire da una sala cinematografica. Ieri sera sono andata con mio padre a vedere l’attesissimo sequel di "Hunger Games -  Catching fire" ("La ragazza di fuoco"). Il film, come il precedente, è tratto dall’omonimo romanzo della scrittrice statunitense Suzanne Collins.

Io che ho letto tutti e tre i libri, divorandoli in quattro giorni, posso dire che questo è uno dei rari casi in cui la versione cinematografica è nettamente superiore a quella letteraria. Il regista, Francis Lawrence, questa volta ha superato se stesso. La cura che ripone in ogni dettaglio, il modo in cui è riuscito ad essere fedele al libro, rispettandone testualmente anche i dialoghi,  amplificando enormemente ogni scena dal punto di vista emozionale,  è straordinario. Ha creato una drammaticità che, a mio parere, nel romanzo  è scarsamente presente.

Gli interpreti sono tutti da Oscar. La recitazione di Jennifer Lawrence (vincitrice del premio Oscar nel 2013 come migliore attrice per Il lato positivo – Silver Linings Playbook), nel ruolo della protagonista Katniss Everdeen, non poteva essere fatta meglio.

A dispetto di quello che pensa mio padre, credo che Jennifer Lawrence abbia reso perfettamente la tragicità del personaggio, fondamentalmente freddo e distaccato, una maschera con la quale protegge se stesso dagli sguardi degli altri. Per non parlare dei grandi attori di Hollywood che compaiono nella pellicola,  come Donald Sutherland (uno dei primi vampiri della produzione orrorifica americana), Philip Seymour Hoffman ( come al solito grandissimo) e Stanley Tucci( ve lo ricordate in Il diavolo veste Prada?).

Ma adesso passiamo alla trama, vediamo di capire di cosa stiamo parlando. Ci troviamo in un futuro post-apocalittico dove una sadica e superficiale Capitol City è circondata dalla povertà di dodici distretti che ogni anno, in occasione degli Hunger Games, devono offrire un “tributo” femmina e uno maschio che abbia una età compresa fra i dodici e i diciotto anni.
da sinistra Liam Hemsworth, Jennifer Lawrence e Josh Hutcherson alla Premiere di Roma (14/11/2013)

Questi verranno portati in un’arena per sfidarsi in un combattimento all’ultimo sangue, al termine del  quale  è ammesso solo un vincitore. Questa crudele realtà è vissuta come un normale show televisivo, nel quale  i “tributi”, per sopravvivere, dovranno saper piacere alle persone. La scrittrice si è palesemente ispirata all’antica Roma, dove il Populus Romanus  si divertiva a vedere i gladiatori uccidersi l’un l’altro. La vita eccessivamente lussuosa che conducono gli abitanti di Capitol City, richiama spesso il modo di vivere degli antichi romani,  i quali  vomitavano per ricominciare a mangiare,  e lo scopo della loro esistenza era panem e circenses.

Nel primo capitolo abbiamo visto Katniss offrirsi volontaria al posto della sorella ed entrare in  contatto con   Capitol City, il cui modo di vivere è anni luce distante da quello del Distretto 12, da cui proviene la protagonista. Dopo che nell’arena, con una manciata di bacche velenose, ha sfidato il Presidente Snow  (Donald Sutherland), in questa seconda parte si ritrova nuovamente a dover difendere la vita delle persone che ama: è per questo che lotta Katniss, per la sopravvivenza delle persone a cui tiene più di se stessa.

In questa saga, che si distingue nettamente dalle altre, l’eroina è un personaggio forte, indipendente, che, però,  non si sente tale. Lei vuole solo salvarsi la pelle -  come sostiene  il Presidente Snow - . Lei non vuole alcuna responsabilità sulle spalle, perché è troppo impegnata ad avere paura per la morte degli altri per pensare ad una ribellione. Ma ciò che vuole lei non conta più, perché è stata trasformata in un simbolo, nella Ghiandaia Imitatrice, ossia in  quella scintilla che non  può più essere contenuta e che incendierà   tutta Panem. La Ghiandaia Imitatrice è quella speranza che non può più essere soffocata dai Giochi della Fame.

In questo capitolo c’è molto di più del semplice stay alive, perché se c’è speranza non c’è sopravvivenza, c’è vita. E la vita non è quella degli Hunger Games, dove dei bambini si uccidono a vicenda, mentre le loro madri li guardano morire davanti ad uno schermo, ove l’unica aspirazione è quella di morire in fretta. La vita non è quella di vincere per poi tornare a casa ed essere tormentato dai sensi di colpa, perché la tua vita è stata pagata con altre ventitré. La vita non è non riuscire più a dormire,  perché ogni volta che chiudi gli occhi rivedi le pupille bianche di quel ragazzo o di quella ragazza che sei stato costretto ad eliminare  per puro istinto di sopravvivenza. E’ forse questa l’esistenza umana? Spedire con la forza  adolescenti  in un tritacarne ed aspettare che si ammazzino l’un l’altro, mentre nelle case dei ricchi tutto continua placidamente. No, non è questo vivere. Ora la vera vita, quella fatta di speranza, va conquistata con il sangue e con i denti. Basta ricordare chi è il “vero nemico”.

Se lo consiglio? Assolutamente si! Andate a vederlo, perché non capita spesso di trovare un film in cui, in due ore e venti di azione condita con l’angoscia, non ti addormenti sulla poltrona.

“Happy Hunger Games! And may the odds be ever in your favor!”.

 Alessia Giulimondi
 
 

venerdì 29 novembre 2013

"IL CORPO UMANO" DI PAOLO GIORDANO


La sofferenza, la solitudine e il disagio dell’anima che possono devastare  l’organismo di una persona presenti ne La solitudine dei numeri primi, vincitore dei Premi Strega  e Campiello edizioni 2008, di Paolo Giordano, li troviamo anche nella sua opera seconda  Il corpo umano” (Mondadori). Non posso non condividere quanto detto da Massimo Gramellini: ”Una sensibilità chirurgica e una scrittura credibile nelle descrizioni come nei dialoghi. Pagine splendide e inesorabili.”.

Un battaglione di carabinieri attraversa una valle del Gulistan in Afghanistan,  in esecuzione di una missione che nasce sbagliata per ordini scellerati dei superiori  e finisce nella tragedia, con cinque soldati ammazzati e uno gravemente ferito dai talebani.

Ogni militare vivrà la propria distruzione interna in maniera diversa. Ognuno di loro è un eroe da tragedia greca e, primo fra tutti,  Renè, che emerge in mezzo ai commilitoni per drammaticità e volontà di riscossa. In Renè la determinazione di avere un futuro è superiore alla devastazione  del rimorso.
In Giordano v'è la corporeità del dolore, la fisicità dell'angoscia.

E’ un romanzo che per lunghi tratti tormenta il lettore  e, credo,  non lascerà  indifferenti neanche i più cinici e avvezzi a storie di umanità dilaniata e a conflitti  interiori ed esteriori.

Non può non essere letto.

 Fabrizio Giulimondi

mercoledì 27 novembre 2013

"L'ULTIMA RUOTA DEL CARRO" DI GIOVANNI VERONESI


 


"L'ultima ruota del carro" di Giovanni Veronesi presentato all’ultima  edizione del festival internazionale del cinema di Roma, dimostra che si possano produrre pellicole di buona qualità senza inzepparle di sesso, volgarità e violenza.

Il cast è di alto livello, con un Elio Germano che continua a stupirci con straordinarie interpretazioni, per alcune delle quali è stato insignito di prestigiosi premi nazionali e stranieri (basta pensare a Mio fratello è figlio unico e La nostra vita); una tenerissima Alessandra Mastronardi, un po’ Cesaroni e un po’ To Rome with love; il romanaccio ripulito in salsa craxian-berlusconiana Richy Memphis; un Sergio Rubini che non ha bisogno di presentazioni; Alessandro Haber, vero coprotagonista insieme ad Elio Germano, artista pop e mordace; Maurizio Battista, che forse rende meglio al teatro che nelle sale cinematografiche; e, infine, con  Dalila Di Lazzaro, che, dopo tragedie che le hanno sconvolto la vita, è tornata al suo pubblico.

Riuscire a rendere poetiche la prima e l’ultima scena, ove Ernesto (appunto Elio Germano) sguazza in mezzo alla monnezza e si abbandona su un letto di buste di plastica nella discarica romana  di Malagrotta è cosa non facile, ma il regista vi è riuscito  appieno.

E’ una storia di sentimenti semplici e, quindi,  veri, di amicizia e di momentanee illusioni. Di affetti puliti da dove vengono tenuti lontani certi -  oramai -  insopportabili intellettualismi distruttori della famiglia e della serena quotidianità. Si racconta dell’onestà imperturbabile di Ernesto che vuole solo lavorare tanto e, che si lascia coinvolgere per un breve lasso di tempo in avventure professionali vicine al mondo politico,  per poi tornare ineluttabilmente alla sua esistenza  di sempre, con la mogliettina, il figlio, il nipote che arriverà, lo zio ammanicato e gli amici che,  anche se qualche guaio glielo potevano combinare,  sempre amici sono.

La trama attraversa  le vicissitudini italiche  dagli anni sessanta ai giorni d’oggi in maniera lieve, con dolcezza e ironia, senza bava alla bocca, senza ditini alzati.

Il successo di Sole a catinelle di Checco Zalone e de L’ultima ruota del carro è la prova provata che il Popolo italiano non ne può più di essere abusato da certi tipi di film (che vincono, sì, premi, ma che lasciano vuoti i cinema) e  che, in realtà,  apprezza la pulizia dei  racconti, i volti sornioni e candidi di certi attori, la normalità che alcuni vorrebbero travolgere.

 

Fabrizio Giulimondi

domenica 24 novembre 2013

FABRIZIO GIULIMONDI: COMUNICAZIONE IMPORTANTE

Cari lettori di questo blog,
Vi informo che sono state inviate centinaia di e mail - attinte illecitamente dalla mia mailing list - a mio nome di cui sconosco assolutamente origine, contenuto e finalità.
Ne ho avvisato l'Autorità competente.
Se vi dovessero pervenire, cancellatele immediatamente.
Cordialmente.
Fabrizio Giulimondi

domenica 17 novembre 2013

"IO SONO MALALA - LA MIA BATTAGLIA PER LA LIBERTA' E L'ISTRUZIONE DELLE DONNE" DI MALALA YOUSAFZAI

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Spesso noi esseri umani non ci rendiamo conto di quanto Dio sia grande. Lui ci ha dato un cervello straordinario e un cuore sensibile e capace di amore. Ci ha benedetto donandoci due labbra con cui parlare ed esprimere i nostri sentimenti, due occhi con cui ammirare un mondo di colori e di bellezza, due piedi con cui percorrere le strade della vita, due mani che lavorano per noi, un naso capace di cogliere i profumi e due orecchie con cui sentire parole d’amore. Come avevo sperimentato nel caso del mio orecchio sinistro, non ci rendiamo conto di quanto potere ci sia in ciascuno degli organi del nostro corpo finché non ne perdiamo uno.


Ringrazio Dio per i medici che tanto lavoro hanno profuso su di me, per la mia guarigione e per averci mandati in questo mondo dove possiamo lottare per la sopravvivenza. Alcuni di noi scelgono via buone e altri vie cattive. La pallottola sparata da una persona mi ha colpito, mi ha fatto gonfiare il cervello, mi ha rubato l’udito e ha tagliato il mio nervo facciale sinistro, tutto nello spazio di un secondo. Ma passato quel secondo ci sono stati milioni di persone che hanno pregato per la mia vita e medici bravissimi che mi hanno restituito il mio corpo.

Ero  una brava ragazza che nel suo cuore aveva solo il desiderio di aiutare gli altri. A interessarmi non erano premi o soldi. Ho sempre chiesto a Dio: Ti prego, voglio aiutare gli altri, aiutami a farlo!”

Questo è il desiderio che sgorga dal cuore di Malala Yousafzai, candidata al Premio Nobel per la Pace, autrice del libro autobiografico “Io sono Malala”(Garzanti), che sarebbe opportuno divenisse obbligatorio sui banchi di scuola degli istituti secondari e liceali, per dare aria alle menti di tanti adolescenti offuscate dal politically correct. A questa straordinaria pulsione intellettuale e morale di Malala i talebani rispondono con tre colpi sparati a distanza ravvicinata contro la sua testa.

Quale è la terribile colpa di Malala per meritare l’attentato? Vuole studiare. Malala ha quindici anni quando le hanno esploso tre colpi di pistola e vuole studiare, e vuole che studino tutte le ragazzine dello Swat,  valle dove vive con la sua famiglia, e vuole che in tutta la sua Patria, il Pakistan, vadano a scuola le bambine e le ragazze, e vuole che abbiano una istruzione anche le donne del vicino Afghanistan e tutte le musulmane a cui viene negata la conoscenza in molti  Paesi (tanti! troppi!) a prevalente religione islamica.

Chi è fra di voi Malala?” “Io sono Malala” e poi tre esplosioni.

Malala è così, semplicemente coraggiosa e umilmente straordinaria,  anche grazie a  un padre al di sopra del comune, che combatte per il diritto allo studio delle donne e, per questo,  mette su una scuola a rischio della propria vita, contro la volontà dei talebani, fra una bomba e un attentato kamikaze.

Malala ha una madre, analfabeta, che non vuole che lo sia anche la figlia.

Alla segregazione del purdah, che imprigiona il corpo con il burka e separa fisicamente  la donna dal mondo con tende appositamente montate o pareti a ciò  costruite, agli islamici radicali  per i quali quasi tutto è haran, forse la vita stessa, Malala  oppone una istruzione gratuita a tutti i bambini:  Prendiamo in mano i nostri libri e le nostre penne. Sono le nostre armi più potenti. Un bambino, un insegnante, un libro e una penna possono cambiare il mondo”. La cultura è halal, la vita è halal.

Le vicende di Malala – che  aspira ad  essere la nuova Benazir Bhutto -  si accompagnano con  la storia del Pakistan.

Lungo la narrazione –  che, nel suo incedere,  diventa sempre più marcata, trascinante  e vibrante, fino  alle note di grande drammaticità  dell’epilogo - si intravedono i costumi, gli usi, i precetti, le concezioni, i miti  di quelle regioni dell’Asia meridionale. Nel proscenio ammirerete le descrizioni delle bellezze naturali di quelle Terre e, talora, se presterete un attimo di attenzione, potreste scorgerne i colori e, magari, gustare i sapori delle pietanze tradizionali e, solo però se vi lascerete andare, udire anche i suoni che vagano nell’aria e fanno da sottofondo alle parole pronunziate da una ragazzina: una ragazzina  che viene da un villaggio sperduto nella valle dello Swat, che andava a scuola terrorizzata che le potessero buttare sul viso dell’acido, a cui hanno puntato un’arma sul viso,  e che adesso parla  alle Nazioni Unite a New York di fronte ai Grandi della Terra.

La malinconia e la nostalgia delle ultime pagine rispecchiano la luce che Malala emana dai suoi occhi: perché ora vive a Birmingham e non è più tornata a casa sua.

Sedermi a scuola a leggere i libri è un mio diritto. Vedere ogni essere umano sorridere di felicità è il mio desiderio. Io sono Malala. Il mio mondo è cambiato ma io no.”.

Fabrizio Giulimondi

domenica 10 novembre 2013

FABRIZIO GIULIMONDI: "MOMIX - ALCHEMY" AL TEATRO OLIMPICO IN ROMA.....IMPERDIBILE, UNICO, MAGICO,FANTASMAGORICO,ENTUSIASMANTE!






Momix - Alchemy
5 novembre - 1 dicembre 2013
Teatro Olimpico, Piazzale Gentile da Fabriano, 17, Roma

 

 
"La danza sprigiona tutta l'energia dei quattro elementi, terra aria acqua e fuoco, in uno spettacolo intenso e sensuale. Tra istinto e incanto, un vortice di suggestioni alla ricerca dell'armonia, essenza profonda della vita.   Quando l’occhio è rapito da un’alchimia di suoni, luci, colori, visioni, inizia a vedere cose che altrimenti sarebbe impossibilitato a vedere"
Novità per Roma
 
 
"Quando scenografia, colori, coreografia, musica, danza, luci, giochi pittorici e acrobatici diventano un unicum e, poi, solo bellezza pura"
Fabrizio Giulimondi
 
 

lunedì 4 novembre 2013

"SEI COME SEI" DI MELANIA G.MAZZUCCO


Melania G. Mazzucco con “Sei come sei” (Einaudi) conferma di essere la  grande scrittrice già manifestatasi in Vita, romanzo vincitore del Premio Strega edizione 2003, e in Un giorno perfetto, libro del 2005 da cui il regista turco Ferzan Ozpetek ha tratto l’omonimo film.

Sei come sei” contiene una evidente discrasia  fra la assoluta bellezza del linguaggio, lo stile elegante, l’accuratezza delle immagini descritte, la terminologia forbita, i colti riferimenti storici, architettonici e pittorici,  gli incantevoli tratti di penna sui quartieri romani e sulla ruvidezza affascinante dell’Armenia, i dettagli intriganti di cui è costellata la narrazione, l’intelligente uso morigerato dei dialoghi diretti per preferirvi quelli indiretti, e l’aspetto contenutistico che sposa tesi etico-comportamentali discutibili.

Apparentemente l’Autrice è distaccata dal proprio prodotto intellettuale, inzuppato invece di posizioni marcate a favore dei matrimoni omosessuali anche con prole, guardando benignamente  la Mazzucco alla surrogazione di maternità e al  c.d. utero in affitto.

Lo stesso prologo del racconto lascia sconcertati: la protagonista  dodicenne Eva (“non racchia, neanche figa – strana. C’è in lei qualche cosa di sfuggente, singolare”), alla sottrazione della foto che ritrae i due “padri” -  di cui uno, Christian,  è deceduto a seguito di incidente automobilistico -  reagisce spingendo virulentemente il compagno di classe, Loris,  reo del “furto”, sotto i binari di un treno, fortunatamente fermo. Il ragazzo non morirà, finendo fra i lungo degenti in ospedale: questo lo si  comprende, però,  soltanto  alla fine, come se la morte o meno del ragazzo sia un dettaglio ininfluente e trascurabile per Eva e la sua coscienza, troppo presa  a cercare di raggiungere l’altro  “padre”,  Giose, cantante rocchettaro, autore del brano da cui prende spunto il titolo del romanzo. Sembra quasi che alla adolescente  e, per il suo tramite, alla Mazzucco, non interessi tanto di Loris e  della sua sorte. Non emerge alcun pentimento o resipiscenza in  Eva per ciò che, fra il volontario e l’involontario, ha compiuto. Appare  che la condotta di Loris  e dei suoi compagni di branco, creatori di una infame pagina facebook contro  Eva e la sua “famiglia”, meriti quella “spinta”.  Si mostra troppo  indulgente l’atteggiamento di tutti i personaggi  della storia, a partire da quello di Giose e della madre di Loris.

Eruditi e stuzzicanti i due escamotage adoperati dalla Scrittrice per  introdurre  la storia e per spiegare l’insorgenza del desiderio di paternità in Christian (raffinato ed erudito) e in Giose (rozzo e  sessualmente maggiormente  disinibito).

Dionysius Exiguus (Dionigi il piccolo, VI sec D.C.) ha  inventato la misurazione del tempo storico prendendo a riferimento la nascita di Cristo, ma sconosceva  l’anno zero, passando il suo sistema  dall’anno 1 A.C. direttamente all’anno  1 D.C.: Eva colloca se stessa e la cronaca dei fatti  nell’anno 0, ossia nel  lasso temporale  che non esiste.

Christian e Giose sono compulsati verso un forte sentimento filiale dalla visione della tela  di Francisco de Herrera il Vecchio raffigurante San Giuseppe con Gesù nel Szépmuvészeti  Muzeum di Budapest. Il dipinto trasuda amore paterno per il Santo Bambino, generalmente raffigurato insieme alla  Vergine Maria.  

La paternità della coppia gay sarà finalmente realizzata grazie all’utero di una donna armena ben remunerata, che genererà Eva a seguito dell’impianto in esso di un embrione, frutto della “fusione a freddo” dello spermatozoo di Christian con l’ovulo di una sconosciuta.

La forza e l’energia della avvincente “forma” letteraria e linguistica prevale sulla “sostanza” e trascinano  poco nascostamente  il lettore verso lidi  che lasciano – non senza inquietudine - perplessi.

Fabrizio Giulimondi

CHECCO ZALONE "SOLE A CATINELLE": 55 MILIONI DI EURO DI INCASSO.........LA SEMPLICITA' AL POTERE!

TMNewsDopoCado dalle nubi e Che bella giornata Checco Zalone torna nelle sale cinematografiche con “Sole a catinelle di Gennaro Nunziante

Che dire? Checco Zalone è Checco Zalone, colui che insegna a fare la vera commedia brillante a tanti guitti e soloni della comicità, pregni oramai di cattiveria e noiosamente politicizzati.

Con la sua faccia un po’ scema, le sue espressione mimiche sempre simpatiche, il suo sorriso stampato sul viso, la sua allegria sorniona, pulita, serena, Checco garantisce un po’ di divertimento spensierato alle famiglie, che non saranno costrette a difendersi da alcun tipo di pattume.

Buona visione!

Fabrizio Giulimondi

domenica 3 novembre 2013

ABSTRACT DELLA TESI DI POST LAUREAM IN DIRITTO ED ECONOMIA EUROPEA CONSEGUITA DA FABRIZIO GIULIMONDI NEL NOVEMBRE 1994 PRESSO L’ISTITUTO DI STUDI EUROPEI “ALCIDE DE GASPERI” DI ROMA SU “IL DIRITTO ALLA VITA NELLE CARTE COSTITUZIONALI DEGLI STATI MEMBRI DELLA UNIONE EUROPEA”


La tesi esamina l’ esistenza giuridica  del diritto  alla vita sotto una visuale di diritto interno,  europeo ed  internazionale.

 

In primo luogo il lavoro delinea i contorni del diritto in parola.

Il potere del soggetto, certamente, esiste sul beni della vita e dell'integrità fisica, facenti parte del suo essere: beni il cui godimento è a lui attribuito e che quindi sono oggetto del suo diritto. L'attribuzione di tale godimento però comporta, sul piano giuridico, la sua difesa contro tutti i terzi, la facoltà di esigere da questi quel contegno negativo che è necessario per la conservazio­ne dei detti beni e per il loro godimento.

Quindi, il diritto sulla vita e sull'integrità fisica è anche diritto alla conservazione della vita e dell'integrità fisica, ossia, diritto all'altrui osservanza di quel contegno negativo che è necessario per tale conservazione.

L'uso ha consacrato l'espressione più idonea a marcare il lato esterno del diritto: si parla cosi di diritto alla vita, all'integrità fisica, intendendosi significare per alcuni Autori, con le cennate espressioni, non già il diritto al conseguimento della vita, dell'integrità fisica, bensì semplicemente il diritto verso i terzi alla conservazione dei beni medesimi. Per questa corrente di pensiero la vita è un bene insito nell'essere umano, che il diritto vuol conservare, di tal che la vita non può essere considerata come bene futuro, come che debba essere conseguito.

A mio avviso, confortato da autorevole dottrina, il diritto alla vita implica come suo presupposto necessario il diritto alla nascita, spettante al concepito. Avere diritto all'atto iniziale della vita significa avere diritto a cominciare la vita, ovverosia diritto a che i terzi non ostacolino l'inizio della vita.

Vita e integrità fisica attengono all'essere fisico della persona. La vita si identifica con la mera esistenza biologica, laddove l'integrità fisica si sostanzia nella presenza integrale degli attributi fisici, ossia nell'assenza di menomazioni organiche, funzionali  ed estetiche.

Questione oggetto di discussione dottrinaria è stata quella riguar­dante la posizione che assume l'integrità fisica nei confronti del diritto alla vita. Si può ritenere il diritto all'integrità fisica come semplice complemento del diritto alla vita, ovvero entrambi i diritti possono essere riferiti a beni giuridici autonomi e distinti. Il diritto alla vita, però, assume una valenza sicuramente superiore al diritto all'integrità fisica: difatti è diritto essenziale tra gli essenziali. I diritti essenziali sono quelli che hanno per oggetto i beni più elevati. Poiché tra tali beni ve ne è uno che a sua volta sovrasta gli altri, il correlativo diritto non può non riceverne una nota distintiva tale da essere denominato diritto essenzialissimo: il diritto alla vita sovrasta tutti gli altri.

Il diritto alla vita è anche diritto innato, in quanto spetta all'indi­viduo per il semplice fatto di essere munito della personalità acquisita con la nascita.

Ulteriore carattere del diritto In parola è quello di avere natura privatistica — ossia un diritto soggettivo assoluto rientrante in quelli della personalità — che spetta al singolo come tale, vale a dire considerato nella cerchia degli scopi che ha come semplice essere umano, non perdendo tale aspetto neanche qualora collida con l'autorità statale.

Certamente, insieme all'interesse privato concorre un pregnante interesse pubblico, che è diretto oggetto della tutela penale.

Proprio per una necessità sociale di carattere fondamentale la tutela della legge penale è intervenuta, relativamente al bene della vita, con assoluta priorità storica.

Senza dubbio il diritto alla vita fu riconosciuto e protetto già nell'antichità: il diritto a non essere messo a morte a titolo dl vendetta o di pena al di fuori del casi e dei modi previsti dalle norme, che limitavano appunto sia il potere di vendetta, sia il potere dl infliggere ed eseguire la pena di morte. Mancando una di queste condizioni, il diritto alla vita dell'accusato avrebbe potuto essere salvaguardato, con conseguente illiceità dell’uccisione. Nelle fonti antiche una norma a tale riguardo si ritrova nella XII Tavola.

Il diritto in argomento possiede una spiccata inerenza soggettiva: questo diritto è intrasmissibile e irrinunciabile e, inoltre, in parte delle legislazioni europee, la sua indisponibilità comprende anche l'inefficacia del c.d. consenso dell'esente diritto.

L'inefficacia del consenso è dovuta proprio alla peculiare natura del diritto alla vita, in quanto il consensus non può avere la capacità dl poter sopprimere la vita umana; al più, detto consenso può avere la valenza del mutare la qualità del reato, degradandolo a crimine di minore entità (come, ad esempio, l'art. 379 c.p.).

La Tesi studia la dimensione del diritto alla vita nell'ordinamento internazionale.

Il diritto alla vita viene, esplicitamente o implicitamente, compreso nell'elenco del diritti fondamentali delle Costituzioni europee e delle Carte internazionali.

In primo luogo pietra fondamentale di una esplicita attribuzione di detto diritto è l'art. 3 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, approvata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre1948, che recita nel seguente modo: 'Ogni individuo ha il diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona.

L'art. 2 della Convenzione europea per la salvaguardia del diritti dell'uomo, firmata a Parigi il 20 marzo1952, resa esecutiva in Italia con la legge 4 agosto1955 n. 848, afferma: “il diritto dl ogni individuo alla vita è protetto dalla legge. La morte non può essere inflitta inten­zionalmente a nessuno, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un tribunale nel caso in cui li delitto sia punito dalla legge con detta pena.”.

Inoltre, la raccomandazione n. 874 del 4 ottobre 1979, approvata dall'Assemblea del Consiglio d'Europa, afferma con vigore il diritto alla vita come proprio del bambino fin dal concepimento. Tale raccomandazione è stata deliberata sulla base di una relazione  nella quale testualmente si legge: “ La scienza e il  buon senso mostrano che la vita umana comincia con il concepi­mento e che, da questo specifico momento, sono presenti In potenza tutte le proprietà biologiche e genetiche dell'essere umano maturo. I diritti appartenenti al bambino devono riguardare tutto il periodo della sua infanzia, senza escludere quello in cui egli si trova nel seno materno... ciascun bambino deve godere dei diritti dell'uomo ala prima che dopo la nascita.”.

Si può correttamente dire che nella espressione “ciascun bambino deve godere del diritti dell'uomo” sia incluso anche il diritto alla vita.

La Commissione per le questioni sociali e la salute del Consiglio d'Europa, nella medesima relazione, ha chiarito ulteriormente che: “ il diritto alla vita di ogni essere umano è il diritto fondamentale che precede e condiziona ogni altro diritto e che dovrebbe essere senza alcun limite o discriminazione….. genitori che danno origine ad una nuova vita non hanno alcun diritto su di essa, ma solo gli obblighi di proteggerla, nutrirla e metterla nelle migliori condizioni.”.

Nel preambolo della Dichiarazione dei diritti del bambino approvata all'unanimità il 20 novembre 1959 dall'Assemblea dell'O.N.U., si esprime la necessità di una protezione giuridica appropriata per il bambino, sia prima che dopo la nascita.

L'art. 6 par. 5 del Patto delle Nazioni Unite relativo ai diritti civili e politici, approvato dall'Assemblea Generale nel 1966, proibisce l'esecuzione della pena di morte nel confronti delle donne incinte. Anche basandosi su tale disposizione è lecito affermare che, presupposto della proibizione della applicazione della pena capitale ad una donna incinta, sia proprio il diritto che ogni soggetto concepito  consegua la vita.

La legge del 25 ottobre 1977 n. 881, con la quale è stato ratificato e reso esecutivo il  Patto citato nei territorio Italiano, a sua volta dichiara, all'art. 6 comma 11, che: “ il  diritto alla vita é inerente alla persona umana. Questo diritto deve essere protetto dalla legge. Nessuno può essere arbitrariamente privato della vita.”.  Anche se il diritto internazionale positivo non precisa il significato dell'avverbio arbitrariamente  usato nell'art. 6 del Patto solenne dei diritti civili e politici (“Nessuno può essere arbitrariamente privato della vita”) e nell'art. 4 della Convenzione americana dei diritti dell'uomo (“No one shall be arbitrarily deprived of his life”), le Dichiarazioni delle Nazioni Unite sui diritti degli handi­cappati e degli insufficienti mentali impongono che queste persone godano degli stessi diritti degli altri e, dunque, del diritto di vivere.

La tesi riporta in subiecta materia una vasta giurisprudenza delle Corti Costituzionali degli Stati Membri della Unione Europea.

Altresì, il lavoro esamina le disposizioni delle Costituzioni europee dirette a  riconoscere, tutelare e garantire, direttamente o indirettamente, lo ius vitae.

Prima fra tutte la Costituzione italiana, che all'art. 2 recita: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua persona­lità.”.

Se si analizzano alla luce di quanto affermato le disposizioni della nostra Costituzione relative ai diritti e ai doveri dei cittadini, si può constatare che le loro potenzialità normative sono talmente ampie ed elastiche, da ricomprendere qualsiasi ulteriore ipotesi che lo sviluppo della coscienza sociale o della civiltà propongano come “nuovi diritti”. Del resto, se si procede ad una verifica puntuale della relatio dei presunti diritti non-enumerati (nuovi diritti) alle disposi­zioni costituzionali sulle libertà fondamentali, si trae conferma che l'ipotesi interpretativa del diritti inviolabili come clausola aperta,  rappresenta un appiglio nella costituzione formale a imperiosi “diritti dell'uomo,  non collocabili in nessuna delle caselle sino ad ora riempite dai diritti attualmente considerati tali”.

Il lavoro  si espande verso i temi dell’aborto e dell’eutanasia, valutando il conflitto sussistente fra il diritto alla vita e tali pratiche, tramite lo studio, la comparazione  e il bilanciamento dei principi giuridici sottesi ad entrambe le “posizioni” in contrasto.

La trattazione avviene seguendo il perimetro della giurisprudenza delle più importanti Alte Corti degli Stati europei e al di fuori dei confini comunitari oltre il vaglio accurato della normativa prodotta  dagli ordinamenti europei,  nordamericani ed australiani.
 

Fabrizio Giulimondi

ABSTRACT DELLA TESI DI LAUREA IN GIURISPRUDENZA CONSEGUITA NEL LUGLIO 1989 DA FABRIZIO GIULIMONDI PRESSO L’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI ROMA “LA SAPIENZA” DI ROMA SULLA “INDISSOLUBILITÀ DEL VINCOLO MATRIMONIALE RELATIVAMENTE ALLA DISPENSA ‘SUPER RATO’”


 La Tesi in prima battuta si  sofferma sul significato e sul ruolo del matrimonio canonico. Dopo averne ricordato taluni fondamentali richiami codicistici e conciliari relativi alla sua fondamentale essenza, sottolinea come dagli stessi emerga il profondo rilievo sociale che il rapporto coniugale  è chiamato ineluttabilmente a svolgere nella società contemporanea, costituendone “essenziale e irrinunciabile elemento fondativo”.

In seconda battuta il lavoro studia la  disciplina concordataria del matrimonio intervenuta tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica con l’Accordo siglato a Villa Madama in Roma il 18 febbraio 1984, a modifica della precedente disciplina dettata dal  Concordato Lateranense del 1929.

Si valuta  la compatibilità della disciplina del matrimonio concordatario con il principio di laicità dello Stato e  come lo stesso non si rinvenga affatto compromesso dai vari accordi intervenuti tra lo Stato e le confessioni religiose in Italia, ivi compreso quello intervenuto con la Chiesa cattolica. Infatti, la laicità, pur elevandosi al rango di “principio supremo dell’ordine costituzionale”, di per sé “implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale” (Corte Cost., sentenza n. 203/89). E ciò nel rispetto – come approfondisce in più recenti argomentazioni la stessa Corte – di quei fondamentali principi costituzionali di uguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di religione (art. 3 Cost) e di uguale libertà davanti alla legge di tutte le confessioni religiose (art. 8 Cost), secondo i quali “l’atteggiamento dello Stato non può che essere di equidistanza e imparzialità nei confronti di queste ultime, senza che assumano rilevanza alcuna il dato quantitativo dell’adesione più o meno diffusa a questa o a quella confessione religiosa …., imponendosi la pari protezione della coscienza di ciascuna persona che si riconosce in una fede quale che sia la confessione di appartenenza”. Ciò comunque non frappone alcun ostacolo – ritiene altresì la Corte – alla “possibilità di regolare bilateralmente e quindi in modo differenziato, nella loro specificità, i rapporti dello Stato con la Chiesa cattolica tramite lo strumento concordatario (art. 7 della Costituzione) e con le confessioni religiose diverse da quella cattolica tramite intese (art. 8)”.

Poste tali preliminari precisazioni, è stato altresì osservato come neanche sia ravvisabile alcun contrasto con il principio di laicità il procedimento relativo alla (probabile, ma non sempre scontata) esecutività delle sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio concordatario nell’ordinamento giuridico statale (c.d. delibazione), poiché lo Stato conserva comunque la sua giurisdizione esercitando – ai sensi della nuova normativa pattizia del 1984 (art. 8, n. 2) – un concreto potere di controllo su quelle decisioni in ordine al rispetto o meno del diritto di difesa delle parti nel processo canonico: un potere che è sicuramente più incisivo e penetrante rispetto alla precedente normativa del 1929 (art. 34, c. 6), la quale – viceversa – consentiva un’esecutività ex officio totalmente sottratta al potere di disposizione delle parti stesse, anche in relazione ai provvedimenti amministrativi di dispensa dal matrimonio rato e non consumato emessi dal Romano Pontefice, i quali non sono più attualmente suscettibili di ricevere tale esecutività in quanto esclusi dalla nuova normativa concordataria, attesa la loro natura graziosa e non giudiziaria.

Del resto, anche dal confronto europeo si rinviene parimenti disciplinata in svariati Concordati con la Chiesa cattolica la concessione degli effetti civili sia al matrimonio canonico che alla sua eventuale declaratoria giudiziale di nullità, purché non in violazione del divieto di trattamento differenziato senza giusto motivo delle confessioni religiose, nonché  del diritto di ogni cittadino a riconoscersi in un ordinamento informato al principio di laicità.

Ne consegue che solo in presenza di una grave e radicale violazione del diritto di difesa o di altri diritti fondamentali delle parti nel processo canonico potrebbe configurarsi una lesione del richiamato principio di laicità; ipotesi che, allo stato, rimane in ogni caso scongiurata, in quanto unanime e consolidato orientamento giurisprudenziale già ravvisa in quella lesione una contrarietà all’ordine pubblico, impedendo – proprio in virtù di quel preventivo controllo testé richiamato – l’ingresso nell’ordinamento dello Stato a decisioni che siano in aperto contrasto con proprie norme fondative ed inderogabili.

A questo punto viene compiuta una approfondita disamina degli istituti della nullità e del matrimonio rato e non consumato.

La nullità del matrimonio canonico si verifica quando il vincolo, contratto davanti al ministro della Chiesa Cattolica, è nullo per la presenza di un impedimento, in ragione di  un vizio del consenso o di un difetto (grave) di forma.
Se il matrimonio è dichiarato nullo dal Tribunale ecclesiastico competente, per la Chiesa il matrimonio non è mai esistito e quindi le parti possono contrarre nuovo matrimonio dinanzi alla Chiesa.
A differenza dell’annullamento che interviene su un contratto che è venuto giuridicamente ad esistenza, sebbene  viziato, la nullità non fa sorgere il legame negoziale, che risulta, pertanto, essere un simulacro di contratto.

Il matrimonio canonico è un Sacramento che ha - per semplificare - la forma di un contratto, in cui è essenziale il consenso delle parti, libero, consapevole, posto nella debita forma e in assenza di impedimenti.

La procedura comporta l’audizione di  coloro che hanno contratto matrimonio, unitamente ai testimoni, che possano avvalorare la deposizione delle parti sulla loro vicenda matrimoniale e, soprattutto, che possano riportare fatti significativi su ciò che attiene più strettamente il motivo di nullità addotto.
Nel caso in cui il motivo di nullità attenga a problemi psicologici,  psichici o fisiologici, il Tribunale si avvale dell’opera di un perito.
Al termine dell’istruttoria, si ha una prima decisione, che può essere o affermativa  o negativa.
Nel caso di sentenza affermativa, la causa passa automaticamente al Tribunale ecclesiastico di appello, che potrà con decreto confermare, senza svolgere  ulteriore istruttoria,  la pronunzia di prime cure , che a questo punto  diviene definitivamente esecutiva, sancendo la nullità del matrimonio:  le parti possono passare a nuove nozze davanti alla Chiesa.
Il Tribunale d’Appello può, in alternativa,  ritenere che la causa meriti approfondimento, e quindi riaprire l’istruttoria, riascoltando le parti ed i testimoni o nominando un nuovo perito. Al termine di questa seconda fase istruttoria, se il Tribunale d’Appello conferma la sentenza resa in primo grado, il matrimonio è nullo. Se invece riforma la sentenza in primo grado, ritenendo che non consta della nullità, la parte interessata dovrà ricorrere in terzo grado di giudizio presso la Sacra Rota.

Nel caso in cui, invece, la sentenza in primo grado sia negativa, la parte interessata alla dichiarazione della nullità deve appellare o davanti al Tribunale ecclesiastico d’Appello normalmente competente, oppure dinanzi la Sacra Rota.

La procedura, sia che la sentenza di primo grado sia affermativa, sia che sia negativa, prosegue fino a che non si ottengano, in ogni caso, due decisioni conformi: due sentenze favorevoli alla nullità, emesse da due tribunali di grado diverso, nel qual caso il matrimonio è nullo;  due sentenze negative sfavorevoli alla nullità, emesse da due tribunali ecclesiastici di grado diverso, nel qual caso il matrimonio viene confermato valido sin dalle sue origini.

Il matrimonio si dice rato quando le parti si sono sposate con la debita forma ed in assenza di impedimenti del matrimonio canonico o di vizi del consenso del matrimonio canonico. E’ consumato quando i coniugi hanno posto in essere la copula coniugale. Se il matrimonio è rato e consumato non può essere sciolto da nessuno, nemmeno dal Romano Pontefice. Se invece il matrimonio non viene consumato, ciascun coniuge può chiedere al Papa la grazia di essere sciolti dal matrimonio, per una giusta causa. Il procedimento è di tipo amministrativo e non giudiziale, e si conclude con la dispensa del Pontefice, dopo l’accertamento (per dichiarazione delle Parti, di testimoni e – se necessario – per perizia) della mancanza di consumazione. Gli argomenti che possono essere portati sono il c.d. “argumentum phisicum”, ovvero la verginità della donna, il c.d. “argumentum morale”, o ancora la prova può essere fornita  con altri mezzi, oppure si dimostra che i due coniugi sono vissuti sempre separati. Per sé il matrimonio rato e non consumato è un matrimonio valido, da cui si è dispensati per assenza  di consumazione, a beneficio dell’anima dei contraenti.

Ciascun coniuge può passare a nuove nozze davanti alla Chiesa. Tuttavia, essendo una grazia papale, non può avere alcuna efficacia per lo Stato:  il provvedimento di dispensa non può essere delibato, id est non è prevista la delibazione, diversamente dai provvedimenti tribunalizi ecclesiastici di nullità del vincolo nuziale.

La sentenza di nullità resa dai Tribunali ecclesiastici vale per lo Stato italiano solo se è affermativa e se è divenuta esecutiva in virtù del  controllo realizzato dalla Corte d’Appello statale competente, che deve valutare, oltre a quanto appena detto, che siano stati rispettati i principi di difesa delle parti in giudizio e che la pronunzia non sia contraria ai principi statuali; tutto ciò non è automatico, ma avviene attraverso una procedura detta di delibazione, che deve essere portata avanti da uno o da entrambi i coniugi.

In conclusione,  non tutte le sentenze sono delibabili.

Fabrizio Giulimondi

sabato 2 novembre 2013

FABRIZIO GIULIMONDI: 3 NOVEMBRE 1964 - 3 NOVEMBRE 2013


Non importa quanto stretto sia il passaggio
Quanto piena di castighi   la vita
  Io sono il padrone del mio destino
Io sono il capitano della mia anima
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venerdì 1 novembre 2013

A CATERINA, A MASSIMO MAZZER ED A TANTI ALTRI......

Mi piace pensare che Massimo sia ancora in mezzo a noi, che se avessimo occhiali speciali lo vedremmo con il suo volto un pò sornione.
Chi combatte in vita continua a farlo anche dopo perché non dimentica l'amore di cui si è circondato e che ha dato.
Massimo anche se non lo vediamo è con noi.
In realtà una persona muore veramente solo quando la cancelliamo dalla nostra vita quotidiana.
Continuiamo a fare vivere Massimo nelle nostre speranze di tutti i giorni e lui ci terrà una mano, libera oramai dalla malattia, sulla spalla.
Con amicizia.
Fabrizio.


....continuate a pensarmi...continuate a parlarmi...continuate a raccontarmi quello che fate...proprio come se fossi lì, con voi, perché potrei essere davvero lì, con voi.
Caterina

FABRIZIO GIULIMONDI: "SOLO IL BELLO CI SALVERA' DALLA MEDIOCRITA' " - GEMME DI IMPRESSIONISMO AL MUSEO DELL'ARA PACIS IN ROMA


Dopo il commento in questa Rubrica alla suggestiva mostra sull’opera pittorica di Paul Cezanne al Complesso del Vittoriano (Roma), ecco un’altra visita culturale  - assolutamente da non perdere! -  sugli artisti impressionisti “Gemme dell’impressionismo”,  al Museo dell’Ara Pacis, Lungotevere in Augusta (Roma), dal 23 ottobre 2013 al 23 febbraio 2014.

I locali dell’Ara Pacis ospitano la raccolta dei dipinti impressionisti e post impressionisti provenienti dalla National Gallery of Art di Washington.

L’atmosfera di  raccoglimento degli spazi che accolgono le opere rispecchiano il gusto dei collezionisti privati statunitensi, che hanno goduto di queste “gemme di pittura” prima di donarle,  con grande atto di mecenatismo,  alle gallerie per garantirne la pubblica fruizione.

I quadri  esposti fanno conoscere all’incantato visitatore tutte le diverse sfumature dell’arte impressionista e le diverse sensibilità degli artisti che hanno costellato la sua galassia: Pierre Bonnard (il giallo e il verde in Scale nel giardino dell’artista sono extra ordinem), Eugene Boudin, Paul Cezanne, delle cui nature morte e della cui produzione impressionista e non abbiamo già parlato in questa stesso angolo culturale), Jean-Baptiste Camille Corot, Edgar Degas, Henri Fantin-Latour, Jean-Louis Forain, Paul Gaugin,  con il suo Autoritratto dedicato a Carriere e Auguste Renoir  con il Ritratto di Claude Monet (che fanno dire a Baudelaire nel 1860:  una bella testa d’uomo conterrà qualcosa di ardente e di triste - dei bisogni spirituali, delle ambizioni tenebrosamente represse - l’idea di una potenza grondante e senza impegno”), Vincent Van Gogh, con il suo meravigliosamente avvolgente Campo di Girasoli, Johan Barthold Jongking, Edouard Manet, Claude Monet, Berthe Morisot, Camille Pissarro, Odilon Redon, Pierre Auguste Renoir (“Le due qualità di un’opera d’arte? Deve essere indescrivibile e inimitabile”), George Pierre Seureat, Alfred Sisley (dinanzi i suoi lavori si rimane senza parole e senza fiato), Henri de Toulose-Lautrec, con la sua rappresentazione di nani, ballerine, giocolieri e gente del circo,  perché è a quel mondo che si sentiva di appartenere per il suo sgraziato aspetto fisico, Antoine Vollon e, last but non least,  Edouard Vuillard.

Come diceva dei seguaci della scuola impressionista Emile Zola “sono pittori che amano il loro tempo…cercano prima di tutto di penetrare il senso esatto delle cose. Le loro opere sono vive perché le hanno prese nella vita e le hanno dipinte con tutto l’amore che provano per i soggetti moderni”.

Le pitture sono prevalentemente su olio e realizzate en plein air, tecnica a cui Paul Cezanne diede ampio respiro (come potrete ammirare nella mostra al Vittoriano) e di cui il precursore fu all’inizio del XIX secolo l’artista francese Pierre-Henri de Valenciennes, che nel trattato ”Elementi di prospettiva pratica” (1800) invitò i pittori di paesaggio ad osservare dal vero la natura e iniziare i dipinti ad olio direttamente all’aperto: “tutti gli studi sulla natura devono essere realizzati in due ore e, se eseguiti al tramonto o al sorgere del sole, per non più di mezz’ora”.

Andateci, perché solo il Bello ci salverà dalla mediocrità e dalle brutture da cui siano circondati e che ci vendono autoritariamente imposte.

Fabrizio Giulimondi