“Il fu Mattia Pascal” è
un romanzo di Luigi Pirandello
pubblicato nel 1904. E’ inizialmente ambientato in una piccola cittadina
siciliana, Miragno, dove è nato il protagonista, ma poi la storia si sposta per
un lungo periodo a Roma dove il nostro personaggio troverà una nuova vita. Il
tempo non è specificato, ma si potrebbe dedurre che abbia luogo nel tempo in
cui è vissuto Pirandello, quindi verso l’inizio del Novecento. La storia è
narrata in prima persona e in primo piano troviamo i pensieri che viaggiano
vorticosamente nella mente di Pascal, tecnica assolutamente efficace dato
l’incredibile talento dell’autore di raccontare l’animo umano senza sfociare in
banalità. Ecco, forse è la storia meno banale che abbia mai letto, incredibilmente
realistica nella sua assurdità.
E’
una storia che parla in siciliano, che descrive tutti noi in tutti quei piccoli
particolari che abbiamo paura di andare a scovare sotto la pelle, dentro le
ossa. Scrive senza peli sulla lingua né inutili giri di parole, parla della
felicità, della paura, della rabbia, del dubbio, dell’odio e dell’amore, ma
soprattutto della solitudine. Parla di noi come tante isole in mezzo ad un mare
troppo profondo e troppo vasto; parla della lontananza, dell’impossibilità di
raggiungerci, di capirci fino in fondo, di toccarci o di sfiorarci appena.
Parla di quel bozzolo di nebbia in cui lentamente ci siamo raggomitolati,
diventando pigri e diffidenti, reduci di noi stessi, proprio come Mattia
Pascal.
Ma
chi è Mattia Pascal? O meglio, chi fu Mattia
Pascal?
Mattia
Pascal è un uomo scontento della vita, imbrigliato in una vita che sembra
soffocarlo. Continuamente deluso e schiacciato dalla propria esistenza, decide
di partire per Nizza, per cercare quel po’ di fortuna che fino ad allora sembrava
avesse voluto voltargli le spalle. La Fortuna, però, ha un sorriso malizioso,
alla Fortuna piace giocare. Si presenta a Mattia sulle pagine di un giornale:
Avevo
il giornale ancora in mano e lo voltai per cercare in seconda pagina qualche
dono migliore di quelli del Lama. Gli occhi mi andarono su un suicidio così, in
grassetto.
Pensai subito che potesse esser quello
di Montecarlo, e m'affrettai a leggere. Ma mi arrestai sorpreso al primo rigo,
stampato di minutissimo carattere: « Ci telegrafano da Miragno ».
« Miragno? Chi si sarà suicidato nel mio
paese? »
Lessi: « Jeri, sabato 28, è stato
rinvenuto nella gora d'un mulino un cadavere in istato d'avanzata
putrefazione... ».
A
un tratto, la vista mi s'annebbiò, sembrandomi di scorgere nel rigo seguente il
nome del mio podere; e, siccome stentavo a leggere, con un occhio solo, quella
stampa minuscola, m'alzai in piedi, per essere più vicino al lume.
« ... putrefazione. Il molino è sito in
un podere detto della Stìa, a circa due chilometri dalla nostra città. Accorsa
sopra luogo l'autorità giudiziaria con altra gente, il cadavere fu estratto
dalla gora per le constatazioni di legge e piantonato. Più tardi esso fu
riconosciuto per quello del nostro... »
Il cuore mi balzò in gola e guardai,
spiritato, i miei compagni di viaggio che dormivano tutti.
« Accorsa sopra luogo... estratto dalla
gora... e piantonato... fu riconosciuto per quello del nostro bibliotecario...
»
« Io? »
« Accorsa sopra luogo... più tardi...
per quello del nostro bibliotecario Mattia Pascal, scomparso da parecchi
giorni. Causa del suicidio: dissesti finanziarii.»
« Io?... Scomparso... riconosciuto...
Mattia Pascal... »
La
maniera di scrivere va al ritmo dei pensieri e dei battiti del cuore,
lasciandoci sfiorare dallo sgomento dello stesso personaggio, costringendoci a
continuare a leggere, in un crescendo incalzante che non cessa fino all’ultima
riga del libro. Il modo di scrivere di Pirandello non lascia spazio né tempo
per respirare, solo la voglia di continuare a leggere.
A
questo punto della storia avviene la svolta, la scelta, il cambio treno. Da questo momento in poi Mattia Pascal è solo un'ombra, ora esiste Adriano Meis.
Adriano
Meis rappresenta la liberazione, la nuova gioventù di quello che era stato
Mattia Pascal, un castello meraviglioso costruito su una nuvola; ma le nuvole,
come Adriano Meis, sono belle, interessanti e libere, ma la loro forma
apparente non contiene nulla di consistente, né di reale. Piano piano, da una
vita riscaldata dal sole di una nuova libertà, sull’orizzonte comincia a
depositarsi un filo di nebbia.
Del primo inverno, se rigido, piovoso,
nebbioso, quasi non m'ero accorto tra gli svaghi de' viaggi e nell'ebbrezza
della nuova libertà. Ora questo secondo mi sorprendeva già un po' stanco, come
ho detto, del vagabondaggio e deliberato a impormi un freno. E mi accorgevo
che... sì, c'era un po' di nebbia, c'era; e faceva freddo; m'accorgevo che per
quanto il mio animo si opponesse a prender qualità dal colore del tempo, pur ne
soffriva. (…)
La mia fortuna - dovevo convincermene -
la mia fortuna consisteva appunto in questo: nell'essermi liberato della
moglie, della suocera, dei debiti, delle afflizioni umilianti della mia prima
vita. Ora, ero libero del tutto. Non mi bastava? Eh via, avevo ancora tutta una
vita innanzi a me. Per il momento... chi sa quanti erano soli com'ero io!
«
Si, ma questi tali, » m'induceva a riflettere il cattivo tempo, quella nebbia
maledetta, « o son forestieri e hanno altrove una casa, a cui un giorno o
l'altro potranno far ritorno, o se non hanno casa come te, potranno averla
domani, e intanto avran quella ospitale di qualche amico. Tu invece, a volerla
dire, sarai sempre e dovunque un forestiere: ecco la differenza. Forestiere
della vita, Adriano Meis. »
Adriano
Meis sente il bisogno di un luogo che può chiamare casa, perché, pur
sforzandosi, l’uomo non è in grado di essere solo uno spettatore, non può
vivere in eterno ai margini della vita, perché altrimenti questa non può essere
chiamata tale. L’uomo ha la necessità di andarsi ad attorcigliare nei fili
taglienti e pericolosi che lo tengono legato a questo mondo. Adriano Meis aveva
preteso troppo dalla sua nuova vita. La tentazione di gettarsi ancora nelle
viscere di una nuova esistenza era troppo grande per essere ignorata e solo
così ricomincia veramente a vivere. Perché per sentire veramente scorrere la
vita nelle nostre vene, è necessario ferirsi e solo così avremo la
consapevolezza della nostra pelle, è necessario piangere e solo così
avvertiremo i nostri occhi, è necessario gridare e solo così sentiremo la
nostra voce vibrare fuori e dentro di noi, è necessario togliersi la maschera perché
questa è pur sempre una maschera non è in grado di vivere appieno tutte le
sfumature della vita.
Pirandello
era un uomo con cui la vita non ha voluto affatto scherzare: il figlio Stefano
fu deportato nei campi di concentramento allo scoppio della Prima Guerra
Mondiale, l’altro figlio Fausto morì in guerra, mentre la moglie veniva
divorata dalla malattia mentale. Eppure, Pirandello ha la capacità di non
colmare di disperazione i suoi scritti, lui semplicemente si pone delle domande
a cui da risposte immediate e semplici, scrive come se fosse l’anima a parlare
e la più grande caratteristica dell’anima è che non può fare a meno della speranza.
In questo romanzo non vige un pessimismo irreparabile, ma piuttosto uno
smarrimento infantile, tipico di chi sta cercando se stesso e non si può
pretendere di cercare al buio, senza quel fuoco fatuo che è la speranza.
Ciò
che più mi ha colpito è stato il modo in cui l’autore è riuscito a trasmettere
le emozioni attraverso un paesaggio, un semplice odore o colore. Mentre Adriano
Meis camminava per le strade di una Roma semiaddormentata, mentre calava la
notte, si riusciva quasi a vedere il colore arancio del tramonto pitturare
placidamente il Colosseo di quella luce rossastra, e allora si avvertiva la
malinconia diffondersi fra le parole.
Si
sentiva nello stomaco il senso di confusione, il disorientamento della sua
identità, mentre il personaggio, diviso tra Adriano Meis e Mattia Pascal,
cercava di calpestare la sua ombra, di schiacciarla, di ucciderla nella notte
di una Roma dormiente, che andava ad occultare ogni segreto che si sarebbe
andato a gettare nel Tevere all’alba del giorno successivo.
- Morta anche Roma? - esclamai,
costernato.
- Da gran tempo, signor Meis! Ed è vano,
creda, ogni sforzo per farla rivivere. Chiusa nel sogno del suo maestoso
passato, non ne vuol più sapere di questa vita meschina che si ostina a formicolarle
intorno. (...)
Roma giace là, col suo gran cuore
frantumato, alle spalle del Campidoglio. Son forse di Roma queste nuove case?
(...) Ebbene, signor Meis, i papi avevano fatto di Roma un'acquasantiera, noi
italiani ne abbiamo fatto un posacenere. D'ogni paese siamo siamo venuti qua a
scuotervi la cenere del nostro sigaro, che poi è il simbolo della frivolezza di
questa miserrima vita nostra e dell'amaro e velenoso piacere che essa ci da.
Alessia
Giulimondi