Dopo
la rivisitazione cinematografica in
versione non comics di Biancaneve, Hansel e Gretel, Cappuccetto
rosso, La Bella e la Bestia e Cenerentola, ecco affacciarsi nelle sale
italiane “Maleficent” di Robert Stromberg, ossia la favola
rivista e corretta de La bella addormentata
nel bosco.
Gli
elementi della storia tracciata dai fratelli Grimm (Rosaspina) e animata sul grande schermo da Walt Disney nel 1959 vi
sono tutti, solo che vengono mischiati, invertiti, mutati, confusi fra di loro,
dando vita ad un film bello da vedersi - anche per gli affascinanti effetti
speciali e incantevoli, suggestive e sognanti immagini fiabesche e fatate - seppur distante dalla narrazione tradizionale
che abbiamo imparato a conoscere quando eravamo bambini.
Invero,
non si può dire che Malefica (perfettamente interpretata dall’algida bellezza
di Angelina Jolie che indossa un
costume- almeno quello - perfettamente
rispondente alle canoniche rappresentazioni) incarni il detto nomen, omen e capirete il perché gustandovi il film. Malefica è la
vera protagonista e la fabula è sviluppata
secondo il suo punto di vista, la sua visuale, la sua ottica.
Il
regista è pregno di cultura tolkieniana e fantasy, come appare con forza nella costruzione delle creature della
Brughiera e nella raffigurazione dell’impazzito re Stefano, padre di Aurora. La
potenza del “bacio del vero amore” (solo
quello materno secondo la visione degli Autori dell’opera), che libererà la fanciulla dal lungo sonno
simile alla morte, ricorda parecchio Come d’Incanto di Kevin Lima.
Anche se a sprazzi,comunque, Stromberg
è rispettoso dell’illustre precedente a disegni animati disneyniano,
riproducendo esattamente la scena della comparsa di Malefica a corte durante i
festeggiamenti per la nascita della piccola principessa, contro la quale viene
scagliato il terribile sortilegio.
Peccato
che sia uscito in questa stagione e non nel periodo natalizio, più confacente a
questa tipologia di pellicole, anche per ragioni di botteghino.
“X men: Giorni di un futuro passato” di Bryan Singer della inarrestabile Marvel si inserisce nel serial
cinematografico dedicato ai supereroi mutanti (X
Men; X Men 2, X Men: Conflitto Finale; X Men Le origini-Wolverine; X Men: l’inizio;
Wolverine- L’immortale), mentre si stanno già realizzando X Men: Apocalypse e Wolverine- L’immortale 2.
Il 3
D di “X men: Giorni di un futuro passato”
non è consigliabile perché il film è godibile benissimo anche nella visione
ordinaria in 2 D.
La
trama si inerpica nel ritorno al passato
degli X Men e, in particolare, del suo
più illustre personaggio Wolverine, che deve impedire che Mystica (nientepopodimeno che Jennifer Lawrence) uccida il nemico dei
mutanti, Oliver Trask, il quale nel
futuro (ossia il presente) creerà con il sangue della poliforme fanciulla
bluastra le “sentinelle”, capaci di annientare i nostri poliedrici eroi.
Il
racconto, quindi, balza fra il presente e
il gennaio del 1973 a Parigi durante la conferenza per gli accordi di Pace per la
fine della guerra in Vietnam, con special
guest il Presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon.
Lo
scontro è sempre fra due visioni opposte del rapporto fra mutanti e esseri
umani: quella del dottor Xavier, di amicizia e comunione con quella porzione della Umanità più accondiscendete e quella dura
di Magneto, di dominio anche violento del genere umano. Sono, in realtà, visuali
politiche che trasbordano in chiave fantasy
gli attuali dibattiti sulle relazioni fra minoranze (o presunte
tali) di vario genere e la maggioranza in
un determinato contesto spaziale e temporale.
Come
potete immaginare gli effetti speciali sono abbondanti, facendo
passare in secondo piano le capacità attoriali degli interpreti (oltre la Lawrence, Hugh Jackman, James McAvoy, Ellen
Page, Michael Fassbender, Patrick Stewart, Peter Dinklage, Ian McKellen, Halle
Berry e molti altri).
“Padre Vostro” di Vinko Bresan: tragicomica e grottesca pellicola
croata, ambientata in una piccola isola dalmata, dove un giovane prete come mission si pone quella di incrementare
nascite e matrimoni bucando i molti preservativi venduti in zona.
Le
non sgradevoli e, talora, divertenti venature anticlericali si trasformano, nell’appropinquarsi il the
end, nel solito becero attacco alla
Chiesa Cattolica, identificata – secondo oramai cementificati luoghi comuni di certi mass media – in una moltitudine
magmatica di pedofili (assenti, evidentemente, presso le altre confessioni monoteiste).
“The german doctor-Wakolda”
della regista argentina Lucia Puenzo, con lo straordinario attore spagnolo Alex Brendemuhl - film di notevole valore artistico, fotografia
affascinante, intensa recitazione, atmosfera ipnotica - racconta il periodo di vita trascorso da Josef Mengele in Patagonia fra il 1960 e il
1962, sino alla cattura di Adolf Eichmann ad opera del Mossad.
Dietro
Mengele, il suo bel volto e l’eleganza e
la gentilezza dei modi, si cela una
delle incarnazioni della Bestia apocalittica. Il dottore tedesco dalle maniere
affabili intercetta una famiglia: figlie e figli divengono destinatari degli
interessi scientifici del genetista di Auschwitz e, in particolar modo, la loro
madre, incinta di una coppia di gemelli, i prediletti
dal demoniaco “medico” dei lager nazisti.
Assente
di crudezza nelle scene, priva di violenza efferata, l’opera possiede la capacità di mostrare all’assorto spettatore,
con tocco gentile e forme delicate, l’abissale
e incontenibile orrore che si nasconde
dietro alla normalità e alla banalità di un “essere umano”
“Uno, nessuno e centomila” di Luigi Pirandello (Girgenti 1867 –
Agrigento 1936), pubblicato “a puntate” su “La Fiera Letteraria” nel 1925 dopo
quindici anni di lavoro.
“Uno, nessuno e centomila”
assomma in sé elementi del romanzo introspettivo, della saggistica filosofica e
dei trattati psicoanalitici.
“Uno, nessuno e centomila” trasuda
continui richiami biografici e autobiografici del grande letterato italiano,
Premio Nobel per la letteratura nel 1934.
Le “stravaganze”
del protagonista Vitangelo Moscarda incarnano la malattia mentale della moglie di
Pirandello, che fu internata nel 1919 in
una casa di cura a Roma.
Vitangelo
Moscarda arriva a una convinzione che lo sconvolge: l’uomo non possiede una
identità ma è condannato a vivere le infinite personalità che gli altri gli
attribuiscono.
Il
percorso demolitorio della falsa, unica, identità che il protagonista
intraprende, appalesa nascostamente, come un fiume carsico, gli studi sulla
psicosi e sulla nevrosi che proprio in quegli anni Freud e Jung stavano
affrontando. Tutto il cammino è interpolato dalle teorie filosofiche esistenzialiste
di Heidegger e di Sartre.
“Uno, nessuno e centomila” è –
come commenta Giancarlo Mazzacurati in una edizione del
1994 curata dalla Einaudi – “una macchina narrativa che sbriciola la
trama in tanti sbalzi e andirivieni, soste riflessive, digressioni saggistiche
improvvise, soliloqui. Un fiume tumultuoso e straripante in cui si sviluppa la
lucida follia del protagonista”, un percorso di distruzione dell’”io” che viene chirurgicamente destrutturato, al pari di una
figura umana ad opera dei cubisti e dei surrealisti in pittura, delle sonorità
da parte di Stockhausen nella musica o di un corpo grazie all’astrattismo
scultoreo.
“Ai piedi del suo letto, con un aspetto a me
ignoto, e a lei impenetrabile, io stavo lì, naufrago nella sua solitudine; e
lei nella mia, là davanti a me, sul suo letto, con quegli occhi immobili e
lontanissimi, pallida, un gomito puntato sul guanciale e il capo arruffato
sorretto dalla mano.”.
“Il Cardellino” di Donna Tartt (Rizzoli), vincitore lo scorso 15 aprile del “Premio Pulitzer” 2014 , esprime il punto di unione e fusione fra letteratura, teologia, filosofia, pittura e arte antiquaria, che divengono un unicum attraverso il “sublime” che tutto condensa e assorbe.
Un viaggio attraverso la sacralità della pittura, il mistero degli spazi museali, la bellezza struggente e immortale della letteratura, la polverosità invincibile, antica e immutabile dell’antiquariato, lungo un percorso di disfacimento mentale e fisico da assunzione massiva di droghe e alcol, da disperazione e solitudine.
“Il Cardellino” è una tempesta ormonale letteraria, una possente cascata di parole, un volumetrico scroscio di aggettivi, un roboante diluvio di descrizioni, una instancabile e mai noiosa narrazione, una densa rappresentazione scritta colorata, entusiasmante, ricca di un florilegio di allocuzioni. Affascinante l’incedere della narrazione di una Scrittrice che incarna la più nobile tradizione della letteratura americana e che fa restare senza fiato per lo splendido puntiglio linguistico, che infonde anche nel minimo dettaglio, senza mai stancare il lettore. Solo una letterata di raro talento – già Autrice di Dio di illusioni e prima in classifica con il lavoro in commento negli States, in Olanda e in Francia – può riuscire a non tediare il pubblico, anzi a tenerlo avvinto alla sua creazione, nella illustrazione compiuta con maestria di ogni passaggio, anche il più (apparentemente) inutile e ininfluente, della storia. Lo sviluppo narrativo è cesellato con la finezza di un linguaggio che saltella dall’inglese, al russo, all’ucraino, all’olandese, all’italiano, impreziosito da terminologia tecnica appartenente alle arti pittoriche e antiquarie.
Il lettore viene affascinato da ogni tratto di penna della Tartt - come se fosse il tocco di un artista espressionista - che rende aristocratico anche ciò che è putrido, sordido, immondo e meschino. L’improvvisa violenza di certi momenti ricorda alcune tele di Mirò, le opere cubiste di Picasso e la follia surrealista di Dalì: improvvisi spruzzi linguistici allucinatori, psichedelici e deliranti, pagine e pagine di uso delle parole come fuochi d’artificio che si ricompongono in quotidiane vicende che, dalla normalità, subitaneamente, si tramutano in impreviste scene di azione, per poi - al pari di una metamorfosi inaspettata - modificarsi in squarci di tenera effusione di sentimenti, amorosi o amicali, drammaticamente veri o astutamente camuffati. I vocaboli trasudano emozioni e provocano nel lettore esattamente la sensazione che la Tartt voleva che egli provasse: sofferenza morale, disagio psichico, dolore fisico, malessere nell’anima, dolcezza, odio, amore, amicizia, sentimenti violentemente contrastanti fra di loro e terribilmente autentici. Le parole sono plasmate come creta e l’Autrice ne fa l’uso indicato da Sartre: segni visibili che possano rendere intellegibile il mondo interiore, far fuoriuscire all’esterno come lava eruttata da un vulcano ciò che è dentro all’Autore. Donna Tartt sa che ciò che è nascosto nelle pieghe della sua anima è celato anche negli anfratti interiori dei suoi lettori ai quali, con una socratica opera maieutica, fa sgorgare sentimenti sino ad allora sconosciuti persino a loro stessi. L’utilizzo funambolico dei termini e delle espressioni idiomatiche anglosassoni della Tartt (mirabilmente tradotti da Mirko Zilahi de’ Gyurgyokai) ricorda lo stile di Tom Wolfe, distanziandosi però da questi per l’assenza dei caratteri futuristici e gotici.
Chi si accinge alla lettura di questo capolavoro scopre la vita di un bambino di tredici anni, Theo, a cui muore la madre in un museo newyorkese a causa di un attentato terroristico, e le pagine ad esso dedicate raffigurano con potenza evocativa l’orrore dell’11 settembre 2001. Theo si sente colpevole di quella morte, come anche una coetanea, Pippa, si sente colpevole della scomparsa dello zio, deceduto per gli stessi accadimenti. Le due storie si intersecheranno e si intrecceranno e coinvolgeranno anche Boris, un ragazzo tossico ed alcolista. La ragnatela ingloberà anche la placida vita di un antiquario, Hobie, dolce e onesto, lavoratore e appassionato, instancabile nell’amore e nella perseveranza nell’aiutare Theo, oltre la famiglia Barbour, devastata dalla pazzia e, ineluttabilmente, dalla morte.
Le loro esistenze prenderanno implacabilmente consistenza, vita, corpo, densità, anima, per tutte le 892 pagine del romanzo.
E poi c’è il dipinto, la cui presenza nella trama è la ragione stessa del libro: “Il Cardellino”, del pittore olandese Carel Fabritius - morto a causa di un incendio lo stesso anno della creazione del quadro, nel 1654 - attualmente esposto al Mauritshuis nella città dell’Aia. Nella mente di Donna Tartt tutto nasce con la tragica fine del pittore fiammingo (il migliore fra gli allievi di Rembrandt), del quale molte opere andarono irrimediabilmente perdute: Il Cardellino sopravvisse nella sua minuta dimensione e nella sua grande magnificenza. Anche la madre di Theo muore per un evento terribile per mano dei terroristi e il fil rouge di tutta la narrazione sarà proprio questa minuscola tela: “Perché fra la “realtà” da un lato, e il punto in cui la mente va a sbattere contro la realtà, esiste uno spazio sottile, uno spicchio d’arcobaleno da cui origina la bellezza, il punto in cui due superfici molto diverse tra loro si mescolano e si confondo per procurare ciò che la vita non ci da: e questo è lo spazio in cui tutta l’arte prende forma e tutta la magia………Ed è per questo che ho scelto di scrivere queste pagine così come le ho scritte. Perché solo entrando nello spazio intermedio, nel confine policromo tra verità e non verità, essere qui a scrivere tutto ciò diventa tollerabile.”.
Fabrizio Giulimondi
P.S. Il romanzo è stato tradotto nel 2019 in linguaggio filmico dal regista cinematografico, televisivo e teatrale irlandese John Crowlwy.
“La stirpe del male” dei
registi britannici Tyler Gillett e Matt Bettinelli-Olpin, vietato ai minori di anni quattordici, è
l’ennesima pellicola ascrivibile al filone demoniaco sulla nascita dell’Anticristo,
nato da film di ben altro valore quali Rosemary baby di Roman Polanski del 1968 e Il
presagio di Richard Donner del 1976.
Le
riprese schizoidi stile Paranormal
activity, effettuate con una telecamera portatile o fissa sulla scena, raccontano
la gestazione da parte di una dolce
sposina - che ne è ignara - del figlio del diavolo.
A
parte qualche momento di reale tensione, “La
stirpe del male” scorre noiosamente
verso un ridicolo finale.
“Dio di illusioni”, opera prima di Donna Tartt (BUR Rizzoli) - di cui l’ultima fatica
letteraria “Il cardellino” è
recensita in questa stessa Rubrica - , è uno di quei romanzi che segna lo
spirito del lettore, lasciando strascichi di turbamento per giorni.
“Dio di illusioni”,
ossia la blasfemia e l’oscenità del male avviluppate in un modus scribendi eccelso, che lascia senza fiato, dove la violenza,
la amoralità e il disfacimento fisico e psichico si mischiano, si amalgamano e
si fondono con lemmi, parole, aggettivi, espressioni lessicali sublimi; la lingua
inglese si intreccia con il greco antico e con l’idioma di Virgilio e di Orazio;
la letteratura statunitense con quella
ellenica e romana.
“Dio di illusioni” è dramma
shakespeariano e tragedia della Grecia del V secolo, dove la violenza e i
richiami sessuali si intuiscono, non si appalesano, per educare e non
sconvolgere il pubblico.
Bacheia, riti
e estasi dionisiache, paganesimo e
baccanali, cinque ragazzi, una ragazza e un esimio professore universitario di
culture classiche, un college di
prestigio del Vermont, droghe, alcol, farmaci, genitori assenti o spregevoli,
un thriller che si muove su un proscenio teatrale elisabettiano e che per
seicentoventidue pagine penetra nel
lettore tenendolo avvinto impietosamente alle parti più fascinose e buie dell’animo
umano, che comprendono “non solo il male,
ma l’infinità di trucchi grazie ai quali il male si presenta come il bene…. (giungono)
al cuore delle cose, all’intrinseco marciume del mondo.”.
quando sono entrato ho pensato di aver sbagliato porta, di essere entrato in un Kindergarten ...Mi scuso!
Do il mio cordiale benvenuto a ciascuno di voi. Saluto l’Onorevole Carlo Casini e lo ringrazio per le sue parole, ma soprattutto gli esprimo riconoscenza per tutto il lavoro che ha fatto in tanti anni nel Movimento per la Vita. Gli auguro che quando il Signore lo chiamerà siano i bambini ad aprigli la porta lassù! Saluto i Presidenti dei Centri di Aiuto alla Vita e i responsabili dei vari servizi, in particolare del “Progetto Gemma”, che in questi 20 anni ha permesso, attraverso una particolare forma di solidarietà concreta, la nascita di tanti bambini che altrimenti non avrebbero visto la luce. Grazie per la testimonianza che date promuovendo e difendendo la vita umana fin dal suo concepimento! Noi lo sappiamo, la vita umana è sacra e inviolabile. Ogni diritto civile poggia sul riconoscimento del primo e fondamentale diritto, quello alla vita, che non è subordinato ad alcuna condizione, né qualitativa né economica né tantomeno ideologica. «Così come il comandamento “non uccidere” pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire “no a un’economia dell’esclusione e della inequità”. Questa economia uccide … Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 53). E così viene scartata anche la vita.
Uno dei rischi più gravi ai quali è esposta questa nostra epoca, è il divorzio tra economia e morale, tra le possibilità offerte da un mercato provvisto di ogni novità tecnologica e le norme etiche elementari della natura umana, sempre più trascurata. Occorre pertanto ribadire la più ferma opposizione ad ogni diretto attentato alla vita, specialmente innocente e indifesa, e il nascituro nel seno materno è l’innocente per antonomasia. Ricordiamo le parole del Concilio Vaticano II: «La vita, una volta concepita, deve essere protetta con la massima cura; l’aborto e l’infanticidio sono delitti abominevoli» (Cost. Gaudium et spes, 51). Io ricordo una volta, tanto tempo fa, che avevo una conferenza con i medici. Dopo la conferenza ho salutato i medici - questo è accaduto tanto tempo fa. Salutavo i medici, parlavo con loro, e uno mi ha chiamato in disparte. Aveva un pacchetto e mi ha detto: “Padre, io voglio lasciare questo a lei. Questi sono gli strumenti che io ho usato per fare abortire. Ho incontrato il Signore, mi sono pentito, e adesso lotto per la vita”. Mi ha consegnato tutti questi strumenti. Pregate per quest’uomo bravo!
A chi è cristiano compete sempre questa testimonianza evangelica: proteggere la vita con coraggio e amore in tutte le sue fasi. Vi incoraggio a farlo sempre con lo stile della vicinanza, della prossimità: che ogni donna si senta considerata come persona, ascoltata, accolta, accompagnata.
Abbiamo parlato dei bambini: ce ne sono tanti! Ma io vorrei anche parlare dei nonni, l’altra parte della vita! Perché noi dobbiamo aver cura anche dei nonni, perché i bambini e i nonni sono la speranza di un popolo. I bambini, i giovani perché lo porteranno avanti, porteranno avanti questo popolo; e i nonni perché hanno la saggezza della storia, sono la memoria di un popolo. Custodire la vita in un tempo dove i bambini e i nonni entrano in questa cultura dello scarto e vengono pensati come materiale scartabile. No! I bambini e i nonni sono la speranza di un popolo!
Cari fratelli e sorelle, il Signore sostenga l’azione che svolgete come Centri di Aiuto alla Vita e come Movimento per la Vita, in particolare il progetto “Uno di noi”. Vi affido alla celeste intercessione della Vergine Madre Maria e di cuore benedico voi e le vostre famiglie, i vostri bambini, i vostri nonni, e pregate per me che ne ho bisogno!
Quando si parla di vita viene subito il ricordo alla madre. Rivolgiamoci alla nostra Madre perché ci custodisca tutti. Ave Maria
Benedizione
Un’ultima cosa. Per me quando i bambini piangono, quando i bambini si lamentano, quando gridano, è una musica bellissima. Ma alcuni bambini piangono di fame. Per favore dategli da mangiare qui tranquillamente!
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
ALLA DELEGAZIONE DELL'UFFICIO INTERNAZIONALE
CATTOLICO DELL'INFANZIA (BICE)
Venerdì, 11 aprile 2014
Vi ringrazio di questo incontro. Apprezzo il vostro impegno in favore dei bambini: è una espressione concreta e attuale della predilezione che il Signore Gesù ha per loro. A me piace dire che in una società ben costituita, i privilegi devono essere solo per i bambini e per gli anziani. Perché il futuro di un popolo è in mano loro! I bambini, perché certamente avranno la forza di portare avanti la storia, e gli anziani perché portano in sé la saggezza di un popolo e devono trasmettere questa saggezza.
Possiamo dire che il BICE è nato dalla maternità della Chiesa. Infatti prese origine dall’intervento del Papa Pio XII in difesa dell’infanzia all’indomani della II guerra mondiale. Da allora questa organizzazione si è sempre impegnata a promuovere la tutela dei diritti dei minori, contribuendo anche alla Convenzione dell’ONU del 1989. E in questo suo lavoro collabora costantemente con gli uffici della Santa Sede a New York, a Strasburgo e soprattutto a Ginevra.
Lei con delicatezza ha parlato del buon trattamento. La ringrazio per questa espressione delicata. Ma mi sento chiamato a farmi carico di tutto il male che alcuni sacerdoti – abbastanza, abbastanza in numero, ma non in proporzione alla totalità - a farmene carico e a chiedere perdono per il danno che hanno compiuto, per gli abusi sessuali sui bambini. La Chiesa è cosciente di questo danno. E’ un danno personale e morale loro, ma di uomini di Chiesa. E noi non vogliamo compiere un passo indietro in quello che si riferisce al trattamento di questo problema e alle sanzioni che devono essere comminate. Al contrario, credo che dobbiamo essere molto forti. Con i bambini non si scherza!
Ai nostri giorni, è importante portare avanti i progetti contro il lavoro-schiavo, contro il reclutamento di bambini-soldato e ogni tipo di violenza sui minori.
In positivo, occorre ribadire il diritto dei bambini a crescere in una famiglia, con un papà e una mamma capaci di creare un ambiente idoneo al suo sviluppo e alla sua maturazione affettiva. Continuando a maturare nella relazione, nel confronto con ciò che è la mascolinità e la femminilità di un padre e di una madre, e così preparando la maturità affettiva.
Ciò comporta al tempo stesso sostenere il diritto dei genitori all’educazione morale e religiosa dei propri figli. E a questo proposito vorrei manifestare il mio rifiuto per ogni tipo di sperimentazione educativa con i bambini. Con i bambini e i giovani non si può sperimentare. Non sono cavie da laboratorio! Gli orrori della manipolazione educativa che abbiamo vissuto nelle grandi dittature genocide del secolo XX non sono spariti; conservano la loro attualità sotto vesti diverse e proposte che, con pretesa di modernità, spingono i bambini e i giovani a camminare sulla strada dittatoriale del “pensiero unico”. Mi diceva, poco più di una settimana fa, un grande educatore: “A volte, non si sa se con questi progetti - riferendosi a progetti concreti di educazione - si mandi un bambino a scuola o in un campo di rieducazione”.
Lavorare per i diritti umani presuppone di tenere sempre viva la formazione antropologica, essere ben preparati sulla realtà della persona umana, e saper rispondere ai problemi e alle sfide posti dalle culture contemporanee e dalla mentalità diffusa attraverso i mass media. Ovviamente non si tratta di rifugiarci in ambienti protetti nasconderci, che al giorno d’oggi sono incapaci di dare vita, che sono legati a culture che già sono passate… No, questo no, non va bene. Ma affrontare con i valori positivi della persona umana le nuove sfide che ci pone la cultura nuova. Per voi, si tratta di offrire ai vostri dirigenti e operatori una formazione permanente sull’antropologia del bambino, perché è lì che i diritti e i doveri hanno il loro fondamento. Da essa dipende l’impostazione dei progetti educativi, che ovviamente devono continuare a progredire, maturare e adeguarsi ai segni dei tempi, rispettando sempre l’identità umana e la libertà di coscienza.
Grazie ancora. Vi auguro un buon lavoro.
Mi viene in mente il logo che la Commissione della protezione dell’infanzia e dell’adolescenza aveva a Buenos Aires, e che Norberto conosce molto bene. Il logo della Sacra Famiglia sopra un asinello che scappa in Egitto per difendere il Bambino. A volte per difendere, è necessario scappare; a volte è necessario fermarsi per proteggere; a volte è necessario combattere. Però sempre bisogna avere tenerezza.