Dopo alcuni lungometraggi, romanzi giunti sulla soglia del Premio
Strega, pellicole apprezzate dalla critica, film di particolare valore estetico
e corposo significato contenutistico, come Il Divo (2008)
e This must be the place (2011), Paolo Sorrentino ha portato
l'anno scorso nelle sale italiane La grande Bellezza, un’opera che,
dopo aver vinto come miglior regista, miglior attore (Toni Servillo) e miglior
film gli E.F.A. 2013 (European Film Awards), al Festival internazionale del
cinema di Berlino, ha ricevuto a Los Angeles il
prestigiosissimo Premio Golden Globe come miglior
film non in lingua inglese, prodromico - speriamo! - alla
assegnazione dell'Oscar 2014 come miglior film
straniero, vista la nomination arrivata il 16 gennaio. Non si è fatto mancare neppure il londinese B.A.F.T.A. (British Academy of Film and Television Arts), che precede di quindici giorni il simile, ma più importante, Premio Oscar americano.
L’arte del regista Sorrentino oramai è indiscussa e non ha nulla
da invidiare a quella immaginata dai grandi autori europei e statunitensi.
Film di pregio, intenso, pieno, suggestivo e completo, a tutto
tondo, simbolico, articolato e complesso, arguto e disincantato, cinico e
bonario, intelligente e delicato, La grande Bellezza vede un
cast composto dal più importante cinema italiano, un florilegio di nomi
raramente compresenti in maniera così massiva in un produzione cinematografica:
Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Galatea Ranzi, Roberto Harlitzka, Isabella Ferrari, Giorgio Pasotti,
Vernon Dobcheff, Serena Grandi, Luca Marinelli, Giulia Di Quilio, Massimo
Popolizio, Giorgia Ferrero, Pamela Villoresi, Carlo Buccirosso, Ivan Franek,
Stefano Fregni.
Toni Servillo, oramai uno dei sommi interpreti del cinema
italiano, primeggia su tutti nella parte del protagonista Jep Gambardella,
anche se gli altri attori, ognuno per la propria parte, maggiore o minore che
sia, danno quel tratto di penna, quella pennellata, quel tocco musicale, che
rendono il lavoro corale grandioso e armonico.
Jep Gambardella è uno scrittore che ha pubblicato, decenni prima
dell’inizio della storia, un romanzo di discreto successo.
Jep Gambardella è un giornalista di una rivista di cultura, arte e
moda di buon accreditamento e diffusione.
Jep Gambardella è, soprattutto, il signore indiscusso della
mondanità notturna romana. Da quando è giunto a Roma all’età di ventisei anni
sino al compimento del sessantacinquesimo anno di età, non ha trascorso notte
senza partecipare, ravvivare ed essere il protagonista di feste, cene,
aperitivi, cocktail, organizzati da una borghesia festaiola quanto annoiata,
imbolsita e intristita dal Nulla.
Sono il Nulla, Il Niente, il Vuoto, l’Inconsistenza,
l’Insostenibile Leggerezza dell’Essere, il tessuto connettivo, la ragione
sociale, il leit motif, il canovaccio della vita di Jep e dei
compari mondani.
Il prologo del film è girato proprio nella villa di Gambardella,
dove si sta svolgendo la sua festa di compleanno: per dirla con Angelo
Branduardidanze, colori e allegria, canti e rumori, suoni di risa.
La mattina dopo, però, nulla della tristezza, della malinconia,
dell’angoscia, del senso di inutilità, è stato in alcun modo rimosso, anzi, a
dir del vero, tutto si è accresciuto.
E così è ogni sera, ogni notte e, poi, ogni risveglio.
Un concatenarsi di smarrimento in una apparente ricchezza e
giocosità.
E’ quella borghesia romana ingolfata in un benessere stantio e
monotono, non frutto di fatica e di lavoro, ma di rendite e di ricchezza altrui
che provengono dal passato, da altre mani, da altri sudori.
E’ quella borghesia progressista, sempre dalla parte giusta,
sempre con le idee giuste, sempre con le parole giuste sulle labbra pronunziate
nel momento giusto.
E’ quella borghesia che ha le sue radici nel ’68 e che viene
scenicamente interpretata con efficacia da Galatea Ranzi,
politicamente impegnata da studentessa, dedita alla carriera e
all’indottrinamento del figlio, secondo il corretto sistema valoriale che il
" politicamente corretto" impone a questa sterile borghesia. Jep
Gamabardella con poche, efficaci, potenti e dirompenti battute, che fuoriescono
dalla sua bocca con elegante, aristocratica, nobile ferocia, smantella la
signora il cui ruolo Galatea Ranzi ricopre abilmente.
La storia dell’impegno politico passato e dell’attuale capacità di
essere donna e madre viene smascherata nella sua falsità e, tramite il suo
disvelamento, viene messa alla berlina la borghesia dei salotti buoni,
bigia e piena di soldi, arrogante nel porsi con gli altri, stravagantemente
convinta di possedere una superiorità morale e culturale sulle genti, ma che,
invero, consuma la propria esistenza nella assenza di valori autentici, idee
vere, azioni concrete, obiettivi utili.
Jep sa questo, è cosciente che dalla pubblicazione del suo romanzo
anni prima nulla ha più costruito il suo pur vivace ingegno, niente hanno più
concepito la sua anima, il suo cuore, il suo intelletto, offuscati da una
mondanità brulla, che gli brucia ogni serata e notata da decenni.
Jep vuole scomparire, come la giraffa (uno dei tanti elementi
simbolici della pellicola) che un amico “mago” rende evanescente nell’ambiente.
Jep vuole dissolversi oppure ricominciare. Non si darà alla fuga
al pari dell’ unico amico - raccontato da Carlo Verdone -
disgustato da tanta inedia, da troppa superficialità e inganno, di cui la
“fidanzata”(Anna della Rosa) è impareggiabile maestra, infame nel
comportamento quotidiano, tatertyp della comune percezione
della moralità delle tante ragazzotte che deambulano nottambule in ricerca
del tutto e subito perché del domani non v’è certezza,
idolatre dell’unico attuale dogma: denaro senza fatica e privo di etica.
Fra queste dame brillano per assenza di luce negli occhi la
onnipresente a feste e cene Pamela Villoresi e, per ovvietà
negli incontri sessuali, oramai riti scontati, Isabella Ferrari. Serena
Grandi, nella suo truculento disfacimento fisico, fornisce plasticamente
corporeità al vizio stratificato nel tempo.
Il personaggio interpretato da Verdone scappa disgustato e senza
speranza, Gambardella no: rimane e cerca. Cerca qualche vibrazione che possa
scuotergli cuore, riattivarli l’anima e galvanizzarne l’intelletto.
Non la trova certamente in un cardinale in predicato per il soglio
pontificio (il sempiterno straordinario Roberto
Herlitzka), pervicacemente attratto dalla goliardia terrena ed
esperto dell’arte culinaria, irrimediabilmente allergico alla spiritualità:
qui, nella rappresentazione cinematografica del principe della Chiesa,
Sorrentino si avvicina sensibilmente agli stilemi propri delle opere di
Fellini. L’aspetto lievemente luceferino dell’attore ben esprime l’assenza di
religiosità dentro la coscienza dell’alto prelato.
La narrazione di questo cammino è punteggiato da scene improvvise,
quasi subliminari, di suore che irrompono nella proiezione senza che tali
apparizioni fuggevoli abbiano alcun senso, raffigurate in maniera ridanciana e
un po’ volgare, quasi pasoliniana.
L’incontro con suor Anna in odore di santità traccia il confine
fra un prima e un dopo.
Suor Anna è molto anziana e il regista la raffigura fisicamente
simile a Madre Teresa di Calcutta, esasperandone però la rigidità dei
movimenti, l’avvizzimento della pelle, il ragrinzimento dei tratti mimici,
atteggiandola ad una mummia dalle fattezze somatiche incartapecorite. La suora
non parla di povertà, ma la vive. E’ questo l’aspetto dirimente che separa l’ante con
il post, lo “ieri” con il “domani”. I salotti radical chic fanno
un gran parlare di miseria ma se ne tengono ben lontani, ingozzandosi di un
quotidiano superfluo, andando a dormire mentre gli altri si alzano.
Forse per Jepi è il momento di andare, di riaccendere le passioni
che molti anni addietro lo hanno spinto a scrivere e che una Roma, incupita da
appartamenti illuminati dal baluginio della luce artificiale, ne ha spento lo
scintillio interiore, quello che traduce le emozioni in parole, la tribolazione
dei sentimenti in lettere: “ è tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il
rumore, il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura. Gli sparuti e
incostanti sprazzi di bellezza, e poi lo squallore disgraziato e l’uomo
miserabile: quel posto si chiama vita.” L’umanità che lo ha accompagnato nel
tempo, circondandolo di effimero, rimane inalterata e il commilitone di tanta
esteriorità privata della bellezza, Carlo Buccirosso, il più
pervicace mondano delle terrazze della Capitale, non cesserà di proferire il
suo Te chiavasse a qualunque femmina intercetti nel suo
percorso danzante.
Lo stormo di gru che si alza nel cielo di Roma tinto dei colori
del tramonto primaverile-estivo, dopo un lieve soffio emesso dalla bocca di
suor Anna, descrive allegoricamente l’ultima notte di un Jep Gambardella, che
vergherà di nuovo su pagine vuote da troppi lustri nuove sensazioni, narrate
alla luce del giorno, mentre la notte lo vedrà dormiente giacere sul suo letto,
incurante della lugubre ed sempre eguale mondanità che persisterà sulle
splendide terrazze del centro di Roma.
Ora Gepy conosce sentimenti nuovi, non attraversati
necessariamente dall’obbligato rispetto del codice del sesso, ma che si
realizzano in pienezza nello scambio di affetti fra lui e una
spogliarellista romanaccia (Sabrina Ferilli), la cui
grave patologia di cui è affetta determinerà anche un momento drammatico,
rendendo La grande Bellezza difficilmente classificabile e
sussumibile entro una categoria specifica.
Gep Gambardella, ora, può aspirare alla Grande Bellezza, che trasparirà
attraverso i pori di piazza di Spagna, di Trinità dei Monti, di piazza Navona e
di via Veneto - non più teatro della sorniona dolce vita degli anni ’60 - ,
occhieggerà lungo quella linea sfocata che si intravede fra i tetti delle
Basiliche e dei monumenti romani e il cielo e lo dirigerà, finalmente e fatalmente,
verso un nuovo orizzonte…e un nuovo romanzo.
Fabrizio Giulimondi