Simona Vinci non
scrive libri ma capolavori. I suoi lavori sono “senza pelle”. Dopo La prima verità, vincitore del Premio
Campiello 2016, nell’ultima sua fatica letteraria “Parla, mia paura” (Einaudi),Simona Vinci mette a nudo se stessa,
senza pudore, senza reticenze, senza nulla nascondere. “Parla,
mia paura” è uno scarnificante viaggio nell’anima dell’Autrice, di
raffinata e intrigante bellezza, in cui il proprio “Io” diviene letteratura, ma
prima di tutto parola. La parola è un territorio dove la Vinci si incontra con se stessa, con le sua paure, con l’Altro, con
suo figlio. La parola non è il mezzo per raggiungere la soluzione ma la
soluzione stessa. La parola è una stanza e le stanze sono due e le stanze sono
mondi: “Ma una stanza può anche essere un
mondo, e uno stato della mente”. Ad un certo punto della vita della Scrittrice
l’esistenza si alternava fra la stanza dell’analista e quella dell’estetista.
Un seno florido che il corpo rifiutava perché alieno a sé doveva essere
estirpato, piallato. La ricostruzione della propria fisicità femminile per
ritrovare la propria identità di donna e, per mezzo di essa, la mente. Il
bisturi interviene sul petto ma prima di inciderlo attende che la parola operi
prima sulla mente. Il suono della bocca è il prius e il posterius: “Quella che cominciavamo a costruire insieme
era una rete che sarebbe stata forse capace di salvarmi. Era fatta della stessa
materia sulla quale da sempre avevo edificato la mia esistenza: le parole. La
lingua, la sintassi”.
Viene
offerta al lettore una lunga avventura in cui la parola diviene letteratura che
si fonde nell’arte e nella musica per confondersi nella filosofia e, infine,
tutto, tutto diventa un potente unicum
che conduce Simona “in fondo al tunnel (dove le) parve di vedere di nuovo l’azzurro, ancora
lontanissimo, di quella mattina di giugno”: “L’unica consolazione vera l’ho sempre trovata nell’arte. Nella letteratura
e nella musica, soprattutto, ma anche nel cinema e nella fotografia. L’espressione
di un sentimento, di un’emozione, attraverso il racconto mi ha sempre aiutata a
sedare l’angoscia”.
“Parla.
Mia paura” si inerpica lungo tre fil
rouge che si annodano fra di loro in modo inestricabile: la paura, il
dolore e il suicidio. La paura provoca dolore che determina il suicidio, o il suo
desiderio. La Vinci si era
attorcigliata la corda introno al collo: quel legaccio se l’è tolto, perché ha
affrontato la paura e lenito il dolore.
La
paura è “il buco, lo strappo, la cellula
impazzita, il mostro bavoso, il lupo nero, l’ombra ghignante dietro la porta,
il ba bau nascosto nel cespuglio in fondo al giardino, il fantasma che striscia
sul pavimento della soffitta”.
“La paura mangia l’anima” come
intitolava un film di Rainer Werner Fassbinder: “Un dolore troppo forte resta muto. O meglio, forse ti urla dentro e
urla in gola, ma non si sa trasformarsi in un discorso articolato. Il suo al
massimo è un balbettio, una lallazione”.
Le
ragioni di un suicidio sono tante e nessuna, ma tutte accumunate dalla “percezione di essere arrivati al limite
estremo”.
E poi
sopravviene la maternità che scatena la paura e la paura si sovrappone alla
maternità e perimetra la gestazione e ne conforma i lineamenti. Amore materno e
paura, paura e amore materno e, dopo, la maternità che ha dentro di sé le
energie per liberare Simona Vinci
dalle sue fobie. Il figlio è quell’ escrescenza che fa parte di te ma non è te e
in quanto non te ti libera da te, dalle tue paure, dal tuo dolore, dalla tua
angoscia, da tuo desiderio di passare dall’essere al non essere: “(il figlio) non è una valigia. Non è un pacco.
È un organo interno. Un’escrescenza inestirpabile. Fa parte di te. Anche se non
siete la stessa cosa”.
All’impalpabilità
del tormento si accosta la visibilità delle stanze della psicoterapeuta e del chirurgo
plastico che non sono solo luoghi dove alberga unicamente la materia, ma spazi
nei quali alla forma dei mobili si accompagna la psiche di chi vive quei mobili.
L’inconsistenza tattile del male dimora nella casa, ma rifugge dai giardini. É
qui che si apre, esplodendo, il commovente genio letterario della Scrittrice
emiliana che evoca prose e versi dedicati ai piccoli Eden che si affacciano a
villette tanto care all’Autrice, piccoli Eden in cui si incrociano animali, piante
e donne e uomini il cui animo cupo anela alla loro ariosità ed alla loro luminescenza:
“Nella solitudine più profonda la casa è
capace di ingoiarti, il giardino no, il giardino al massimo ti ingloba. Nel
giardino ci sono le piante se non gli animali – cani, gatti, scoiattoli,
lucertole – comunque ci saranno gli insetti, forme
di vita che ti impediscono di sentire il silenzio assordante della solitudine
assoluta dove l’unica cosa che produce rumore (in assenza di vicini
indisciplinati, caldaie e frigoriferi roboanti o traffico esterno) è il tuo
stesso corpo”.
“Parla, mia paura” ha un colore e una
musica.
La
tinta delle parole e delle loro sonorità, il tono della storia imposta all’animo
della Vinci dalla depressione che era
divenuta sgomento e attacco di panico, è il “beige, sabbia, rosa e grigio, con qualcosa di nero, color ombra”.
La
colonna sonora che si ode in maniera subliminale o imperiosa è quella dei
Soundgarden con la voce di Chris Cornell e dei Nirvana e del loro frontman Kurt Cobain.
Quando
giungerete all’ultima pagina proverete l’impulso di ricominciare daccapo.
lo devo leggere perché da come lo hai descritto credo che rappresenti me e tutte le donne che si confrontano sempre con la loro femminilità spesso in conflitto con le loro incombenze a volte non proprio "femminili" la nostra creatività penso sia la chiave di volta di noi donne
RispondiEliminaLa vinci parla del lungo periodo di profonda e patologica depressione che le ha fatto sfiorare il suicidio
RispondiEliminaSi lo leggero' molto interessante noi donne tutte, ci rappresenta con le ns paure leggere un libro sincero non può che esserci d'aiuto
RispondiElimina