lunedì 28 settembre 2020

"PADRENOSTRO" di CLAUDIO NOCE

 

Dopo il lockdown finalmente si torna a vedere i film sul Grande Schermo con una bellissima pellicola di Claudio Noce, "Padrenostro", che vede co-protagonista un sempre bravissimo Pierfrancesco Favino, vincitore della Coppa Volpi come miglior interprete maschile all'ultimo festival del cinema di Venezia.

Il regista racconta se stesso da bambino, figlio del vice questore di Roma Alfonso Noce, vittima di un attentato da parte della organizzazione terrorista NAR, in cui persero la vita un poliziotto e un criminale.

In realtà l'opera non è sugli anni di piombo ma su cosa ha provato il regista (interpretato da uno straordinario Mattia Garaci, fanciullo con notevoli doti attoriali, mimiche ed espressive) nel vivere nel costante incubo di perdere il padre. Il ragazzino l'attentato lo ha visto, all'insaputa dei genitori, e questo apre una voragine nell'animo di Valerio, voragine a cui la famiglia non sa fornire una risposta, non capendola, anzi, non sapendone nemmeno l'esistenza.

È un film ambivalente sulla solitudine e la tragedia che hanno vissuto intere famiglie, sulla paura di vedere ammazzato un proprio familiare, il proprio padre, madre, figlio, figlia, fratello, sorella. Le vittime sono i bambini, anche quelli dei terroristi: i figli pagano la colpa dei crimini efferati compiuti dai genitori.

La dicotomia fra ragazzini, il figlio del vice questore e del terrorista ucciso (per legittima difesa), è anche fisica e comportamentale: Valerio è basso e biondo, tutto casa e regole, silenzioso, taciturno, perennemente impaurito, mentre Christian (Francesco Gheghi) è alto e bruno, slanciato e disinibito, senza regole e induce il primo a fumare, bere, leggersi i giornaletti pornografici e non rispettare gli orari. Le immagini vaste, immani, potenti, di ampio respiro, senza confini, della Calabria rafforzano la solitudine di Valerio, ne sottolineano l'angoscia. La respirazione ansimante e stertorosa punteggia le scene insieme alle musiche degli anni '70.

La tensione è l'argine entro cui si muove la trama: lo spettatore in ogni momento si aspetta che accada qualche cosa...di brutto.

L'unione della realtà con l'arte si palesa nelle ultime battute, quando il regista si manifesta da adulto, soggetto ad attacchi di panico, perché la paura se non curata è ancora lì, terribilmente presente: il padre si è salvato ma tanti come lui hanno perso la vita per mano di brigatisti che, dietro un linguaggio farneticante, hanno distrutto la vita di centinaia e centinaia di famiglie.

Il contatto delle mani di Valerio con il ritrovato Christian, oramai anche lui cresciuto, è un riinizio, una conciliazione fra due piccoli uomini che non erano stati mai nemici, ma uniti da un patto di sangue di eterna amicizia.

Fabrizio Giulimondi



lunedì 7 settembre 2020

"TERRA ALTA" di JAVIER CERCAS (UGO GUANDA EDITORE), VINCITORE PREMIO PLANETA 2019



La letteratura iberica, insieme a quella nordamericana, da anni attorciglia con tentacoli di vivida bellezza il lettore, avvolto nelle spire di passaggi letterari intensi e incantevoli, ricchi di avventurosi stilemi e giochi artistici che seguono le rotte imperscrutabili degli stormi di uccelli.
"Terra Alta" (Ugo Guanda editore), vincitore del prestigioso "Premio Planeta" 2019 e scritto da uno straordinario autore spagnolo, Javier Cercas, è un thriller letterario altamente consigliabile per la piacevolezza narrativa in cui ci si immerge, nella quale una rete di personaggi si incastra nella tela di Penelope di storie, prima risucchiate in sabbie mobili, poi tirate fuori dalla liana salvifica dallo Scrittore. Il registro è acuto sin dalle prime battute e nulla è scontato e lasciato a caso. Il monolitico protagonista è Melchor, amabile anti-eroe ellenico, verso cui il lettore gravita per cerchi concentrici attratto da una forza irresistibile cui non può opporsi: Melchor è una calamita, anzi, è "la" calamita.
Cercas raccoglie i mondi descritti e i caratteri linguistici presenti nelle grandi opere spagnole, assorbendo e facendo proprio, ma in maniera del tutto peculiare e personale, il genius loci che aleggia in Aramburu, Zafón e Cervantes: un tocco divino che accoglie e interiorizza la tradizione per restituirla con luci diverse, regole ruminate, mutati angoli prospettici.
Sullo sfondo, con garbo, si osservano le vicende legate all'indipendentismo catalano e ai crimini franchisti e repubblicani compiuti durante la guerra civile, una sorta di acufene necessario per non distogliere le discendenze dal ricordo. "Terra Alta" scava nel sentimento di giustizia che ognuno di noi possiede in cuor suo, scevro da forme, apparati e codicilli, indagando minuziosamente su quella tensione morale che "fa prevalere le proprie regole sulle regole comuni, la giustizia intima sulla giustizia pubblica, il diritto naturale sul diritto formale, la legge di Dio sulla legge degli uomini.".
Il libro di Javier Cercas è un lungo, imprevedibile e sommo commentario a "I miserabili" di Victor Hugo, una osmosi fra generi letterari, scambio generoso di energie culturali ed intelligenze che, come correnti sotterranee marine, fondono, confondono e mescolano l'800 francese con il 2020 ispanico.  
Non v'è magia più autentica ed emozionante che incontrare la Parola in un Romanzo con la R maiuscola, dove la spregevolezza di uomini meschini è appannata, forse offuscata o, probabilmente, oscurata, dalla nobiltà d'animo di persone non dimentichi della propria umanità.
Fabrizio Giulimondi