Il decreto legislativo 28 febbraio 2008, n. 32 («Modifiche e integrazioni
al decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30, recante attuazione
della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini
dell’Unione e loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente
nel territorio degli Stati membri»), integra e corregge il decreto
legislativo 6 febbraio 2007, n. 30, che disciplina il diritto dei
cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare
liberamente nel territorio degli Stati membri.
Il decreto legislativo 30/2007 è stato approvato dal Governo a
seguito della legge comunitaria 18 aprile 2005, n. 62, che lo ha
delegato a recepire la direttiva 2004/38/CE del 29 aprile 2004 del
Parlamento europeo e del Consiglio.
Questa direttiva contiene una sorta di testo unico in materia di
diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e
di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, eliminando
la precedente differenziazione tra lavoratori subordinati,
lavoratori autonomi e studenti.
Il diritto di ingresso è garantito in qualsiasi Stato membro a
qualsiasi cittadino comunitario richiedendo, come unico adempimento,
la presentazione di una carta di identità. Altresì sono
garantite tre tipologie di soggiorno, a seconda delle diverse
esigenze del cittadino dell’Unione e delle condizioni in cui versa:
soggiorno fino ad un periodo di tre mesi; soggiorno per un
periodo superiore a tre mesi; soggiorno permanente.
L’attribuzione della libertà di circolare e soggiornare liberamente
nel territorio degli Stati membri è oramai un diritto
garantito a tutti i cittadini europei a seguito della comunitarizzazione
degli Accordi di Schengen (siglati il 14 giugno 1985 e successivamente
integrati con la Convenzione di applicazione del 19
giugno 1990), incorporati nel quadro giuridico e istituzionale
dell’Unione per il tramite del Protocollo allegato al Trattato di
Amsterdam (2 ottobre 1997).
La libertà dei cittadini dell’Unione di circolare e soggiornare
liberamente nel territorio degli Stati membri ha iniziato a costituire
un problema in ordine alla sicurezza e alla incolumità delle
persone a seguito dell’adesione di altri dodici Paesi (1), di cui
dieci dell’ex blocco comunista e due dell’area mediterranea.
Il 1° maggio 2004 la Repubblica Ceca, l’Estonia, la Lettonia, la
Lituania, l’Ungheria, la Polonia, la Slovenia, la Slovacchia, Cipro
e Malta sono entrate a far parte dell’Unione Europea. Il 1°
maggio 2007 l’Unione Europea è diventata a ventisette con
l’entrata di Romania e Bulgaria.
L’Italia è fra gli Stati che maggiormente hanno risentito del
flusso dei cittadini rumeni e dell’impatto sociale che, specie le
comunità nomadi, hanno provocato all’interno della società
italiana, che ha visto incrementare sensibilmente il numero di
crimini, anche gravi, commessi sul proprio territorio nazionale (2).
Dopo i fatti di cronaca di particolare efferatezza relativi a reati
i cui autori sono risultati essere cittadini comunitari, il Governo
ha varato il decreto legge 1° novembre 2007, n. 181, che ha
dettato disposizioni urgenti in materia di allontanamento dal territorio
nazionale per esigenze di pubblica sicurezza, consentendo
l’espulsione di cittadini dell’Unione Europea, parimenti dei
soggetti extracomunitari.
La mancata conversione ha indotto il Consiglio dei Ministri ad
approvare un secondo decreto legge in tema di espulsioni e di
allontanamenti per terrorismo e per motivi imperativi di
pubblica sicurezza (29 dicembre 2007, n. 249). Anche questo
provvedimento d’urgenza non è stato convertito dal Parlamento.
Il Governo, per ovviare al problema del rientro in Patria dei
cittadini comunitari medio tempore allontanati essendo venuta
meno la base normativa su cui le espulsioni si reggevano e al fine
di dare una risposta alla esigenza di sicurezza della popolazione
italiana anche nei confronti dei cittadini comunitari di recente
adesione, ha riprodotto le disposizioni dei due decreti legge non
convertiti all’interno dell’articolato del decreto legislativo 32/2008.
Questa è la prima particolarità: fallito il tentativo della normazione
di urgenza, si è utilizzata la legge delega prevista dall’art. 1,
comma 5, legge 18 aprile 2005, n. 62, che autorizza il Governo ad
emanare disposizioni integrative e correttive dei decreti legislativi
di attuazione delle direttive comprese negli elenchi allegati alla
medesima legge, fra cui v’è il decreto legislativo 30/2007 attuativo
della direttiva 2004/38/CE.
Difatti, come si è precedentemente detto, il D.Lgs. 32/2008, integrando
il D.Lgs. 30/2007, introduce lo strumento della espulsione
dei cittadini dell’Unione al pari dei cittadini extracomunitari.
Il decreto legislativo 32/2008 diventa lo strumento normativo
per veicolare buona parte della normativa contenuta nei decreti
legge non convertiti 181/2007 e 249/2007, riprendendo altresì le
norme del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (testo unico
delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e
norme sulla condizione dello straniero) — segnatamente l’art. 13
— nonché il disposto dell’art. 3, comma 1, del decreto legge 27
luglio 2005, n. 144, convertito con modificazioni con la legge 31
luglio 2005, n. 155, recante misure urgenti per il contrasto del
terrorismo internazionale (c.d. «decreto Pisanu»).
La valida adozione del provvedimento di espulsione del
cittadino europeo — qualificato di allontanamento presumibilmente
per distinguerlo da quello destinato alle persone extracomunitarie
— deve essere supportata da: motivi di sicurezza dello
Stato; motivi imperativi di pubblica sicurezza; motivi di ordine
pubblico o di pubblica sicurezza.
Sine dubio l’elemento di novità rispetto alle ragioni poste alla
base dei provvedimenti di espulsione degli stranieri è rappresentato
dai motivi imperativi di pubblica sicurezza, elemento introdotto
dal primo decreto legge non convertito.
I motivi imperativi di pubblica sicurezza sussistono quando la
persona da allontanare abbia tenuto comportamenti che costituiscono
una minaccia concreta, effettiva e grave ai diritti fondamentali
della persona ovvero alla incolumità pubblica, rendendo
urgente l’allontanamento del cittadino comunitario in ragione del
fatto che la sua ulteriore permanenza sul territorio è incompatibile
con la civile e sicura convivenza. Tale «fondamento motivazionale»
di supporto alla adozione del provvedimento di allontanamento è
una evidente creazione legislativa che plasma una forma giuridica
ai fatti criminosi avvenuti al momento della adozione del decreto
legge 181/2007.
Tramite la locuzione «motivi imperativi di pubblica sicurezza»
il Legislatore ha voluto compulsare l’azione amministrativa, spingendola
ad adottare il decreto di espulsione del cittadino comunitario
in tutte le ipotesi non rientranti nelle ragioni di ordine
pubblico o pubblica sicurezza, atteso che per la loro gravità
l’immediato allontanamento del soggetto dal territorio nazionale
risulta essere improcrastinabile.
I motivi di sicurezza dello Stato si concretano per quei comportamenti
di potenziale nocumento per l’interesse dello Stato, la
sua esistenza, la sua integrità territoriale, i rapporti intercorrenti
con gli altri Stati nazionali, la sua efficienza e prestigio, nonché
per la tutela e sicurezza delle sue Istituzioni.
In particolare modo l’art. 20, comma 2, D.Lgs. 6 febbraio 2007,
n. 30, così come riformulato dall’art. 1, comma 1, lett. c), precisa
che «i motivi di sicurezza dello Stato sussistono anche quando la
persona da allontanare appartiene ad una delle categorie di cui
all’articolo 18 della legge 22 maggio 1975, n. 152 (3), ovvero vi
sono fondati motivi di ritenere che la sua permanenza nel territorio
dello Stato possa in qualsiasi modo agevolare organizzazioni
o attività terroristiche, anche internazionali».
Il Legislatore, in luogo di effettuare un richiamo formale all’art.
3, comma 1, decreto legge 27 luglio 2005, n. 144, convertito con
modificazioni nella legge 31 luglio 2005, n. 155 (c.d. «decreto
Pisanu») (4), ne ha riprodotto interamente il contenuto, di tal ché
si possa provvedere alla espulsione di colui che è gravemente
sospettato di terrorismo anche internazionale, indipendentemente
dalla nazionalità del soggetto: è prevalsa la necessità della difesa
della sicurezza nazionale sulla appartenenza alla Unione Europea,
specie dopo gli accadimenti a New York, a Madrid e a Londra.
Per ordine pubblico si suole significare il buon assetto e il
regolare andamento della vita sociale; l’armonica e pacifica convivenza
dei cittadini sotto la sovranità dello Stato e del diritto.
I motivi di pubblica sicurezza possono essere compresi per il
tramite dell’art. 13, comma 2, lett. c), D.Lgs. 286/1998, che indica
nei soggetti extracomunitari appartenenti alle categorie indicate
nell’art. 1 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (persone pericolose
per la sicurezza e per la pubblica moralità) e nell’art. 1 della
legge 31 maggio 1965, n. 575 (persone indiziate di appartenere ad
associazioni di tipo mafioso), coloro che possono essere espulsi,
in quanto la loro presenza sul territorio nazionale incide gravemente
sulla sicurezza della collettività nella sua interezza.
I motivi appena esemplificati sono determinanti non solo per la
adozione del provvedimento di allontanamento — rectius di
espulsione — del cittadino comunitario, ma anche per la individuazione
della Autorità pubblica a cui è conferito il potere di
adottare gli atti in parola (Ministro degli Interni o Prefetto territorialmente
competente); per la qualificazione del provvedimento
come immediatamente esecutivo o meno; e, infine, per la indicazione
di quale sia l’Autorità Giudiziaria innanzi la quale
impugnare il decreto di allontanamento (il T.A.R. Lazio ovvero il
Tribunale ordinario in composizione monocratica).
Non saranno di poco momento le difficoltà che talora le
Autorità amministrative e giurisdizionali avranno nel delineare
l’actio finium regundorum fra i motivi — sottesi al decreto
espulsivo — di sicurezza dello Stato, di pubblica sicurezza, imperativi
di pubblica sicurezza e di ordine pubblico. Una errata valutazione
di essi può condurre a conseguenze di particolare gravità:
mancata emanazione del provvedimento quando era legittimo
adottarlo — o viceversa —; individuazione erronea dell’organo
amministrativo competente; interpretazione sbagliata della
natura immediatamente esecutiva o meno dell’atto in questione;
e, last but not least, qualificazione non corretta del giudice competente
sui ricorsi giurisdizionali.
L’Autorità amministrativa a cui spetta l’emissione del decreto
di allontanamento, a differenza del decreto Pisanu in tema di terrorismo
internazionale collegato a soggetti di nazionalità
extraeuropea e della legislazione riguardante gli extracomunitari,
è individuata non per materia ma in base ai motivi sopra meglio
esplicitati ed elencati nell’art. 20, comma 1, D.Lgs. 30/2007, così
come sostituito dal D.Lgs. 32/2008.
Il Ministro degli Interni è competente ad adottare il provvedimento
di espulsione in presenza di motivi imperativi di pubblica
sicurezza (però solamente in relazione ai beneficiari del diritto di
soggiorno protratto nel territorio nazionale nei dieci anni precedenti
o che siano minorenni, ex art. 20, commi 7 e 9, D.Lgs.
30/2007), oltre che in presenza di motivi di ordine pubblico o di
sicurezza dello Stato.
Il Prefetto del luogo di residenza o dimora del destinatario
dell’atto è competente negli altri casi, non dettagliatamente
indicati dall’art. 20, comma 9, D.Lgs. 30/2007 così come modificato
dal D.Lgs. 32/2008, deducibili in forza del combinato
disposto fra l’art. 20, commi 1, 7 e 9, e l’art. 21, commi 1 e 2,
D.Lgs. 30/2007, così come sostituiti dall’art. 1, comma 1, lett. c),
D.Lgs. 32/2008. Il Prefetto dispone l’espulsione in base a motivi di
pubblica sicurezza; a motivi imperativi di pubblica sicurezza ma
non riguardanti i beneficiari del diritto di soggiorno protratto nel
territorio nazionale nei dieci anni precedenti e non riguardanti
minori; e, infine, in ragione della sopravvenuta mancanza delle
condizioni che determinano il diritto di soggiorno.
È sicuramente una anomalia l’individuazione delle Autorità
istituzionalmente preposte alla emanazione del provvedimento di
allontanamento in relazione ai cennati motivi.
Solamente per il Prefetto è stata individuata la competenza
anche con riferimento a un settore specifico, ossia quando sono
venute a mancare le condizioni che determinano il diritto di
soggiorno (a tre mesi; superiore a tre mesi; permanente).
Le legislazioni «confinanti» individuano le Autorità pubbliche e
suddividono fra loro le competenze, prestando attenzione alle
materie indicate da disposizioni di legge.
Pur essendo la competenza del Ministro degli Interni in
materia di espulsioni di cittadini extracomunitari configurata in
base a motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato (art.
13, comma 1, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 - testo unico delle
disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme
sulla condizione dello straniero), le attribuzioni prefettizie, a
mente del comma 2 della medesima disposizione, sono «riempite
di contenuto» per relationem a dettagliate norme di legge (ad
esempio: normativa afferente le misure di prevenzione nei
confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la
moralità pubblica o indiziate di appartenere ad associazioni di
tipo mafioso), ovvero segnalando specificamente la condotta che
determina l’espulsione (extracomunitario entrato clandestinamente
nei confini nazionali e non respinto alla frontiera).
Ancora di più vi è l’individuazione delle competenze del Ministro
degli Interni e del Prefetto in ambito di terrorismo nazionale e
internazionale ex art. 3, comma 1, D.L. 144/2005, convertito nella
legge 155/2005: «Il Ministro degli Interni o, su sua delega, il Prefetto
può disporre l’espulsione dello straniero appartenente ad una delle
categorie di cui all’art. 18 della legge 22 maggio 1975, n. 152, o nei
cui confronti vi sono fondati motivi di ritenere che la sua permanenza
nel territorio dello Stato possa in qualsiasi modo agevolare
organizzazioni o attività terroristiche, anche internazionali». Oltre
alle esplicite condizioni alla luce delle quali si può addivenire alla
espulsione del cittadino straniero non comunitario in presenza di
fumus boni iuris di attività terroristiche, in subiecta materia il
Prefetto non possiede funzioni iure proprio ma su espressa delega
del Ministro degli Interni.
Pertanto, nel settore delle espulsioni di cittadini comunitari, la
determinazione della competenza del Ministro degli Interni o del
Prefetto in ragione della esistenza o meno di motivi di sicurezza
dello Stato, ovvero di motivi imperativi di pubblica sicurezza,
oppure di motivi di pubblica sicurezza, o infine per motivi di
ordine pubblico, non potrà non fare venire alla luce de futuro difficoltà
di non facile soluzione e possibilità di conflitti di attribuzioni
fra le due Autorità, anche per la complessità di inserire in
un comparto invece di un altro l’uno o l’altro motivo. Sarebbe
stato più razionale e foriero di una maggiore certezza del diritto
porre a fondamento dell’una o dell’altra competenza un riferimento
legislativo e/o l’indicazione di una specifica materia.
Stesso problema si pone per la natura immediatamente
esecutiva o meno del provvedimento espulsivo.
I commi 9, 10 e 11 dell’art. 20 D.Lgs. 30/2007, così come sostituiti
dal decreto legislativo 32/2008, qualificano come immediatamente
esecutivi i decreti promulgati per motivi di sicurezza dello
Stato o per motivi imperativi di pubblica sicurezza. In tale
evenienza il Questore, organo esecutivo delle decisioni del
Ministro degli Interni o del Prefetto territorialmente competente,
provvede all’immediato accompagnamento alla frontiera del
cittadino comunitario con l’ausilio della forza pubblica.
Nelle ipotesi di allontanamento per motivi di ordine pubblico e
pubblica sicurezza l’esecuzione non è immediata poiché il provvedimento
fissa un termine, non inferiore ad un mese, riducibile
a dieci giorni nei casi di comprovata urgenza, entro il quale il
destinatario ha l’obbligo di lasciare il territorio nazionale.
Qualora ciò non avvenga il Questore dispone la sua esecuzione
immediata.
Quindi: per i decreti posti in essere per motivi di sicurezza
dello Stato o per motivi imperativi di pubblica sicurezza l’opera
del Questore sostanzia una mera esecuzione, al pari della polizia
giudiziaria quando esegue un disposto della Procura della Repubblica;
in caso di espulsione per motivi di ordine pubblico e
pubblica sicurezza il Questore, sempre in veste di organo
esecutivo, adotta un proprio provvedimento che consente
l’immediata esecuzione dell’atto di allontanamento previamente
emesso dal Ministro degli Interni o dal Prefetto, contenente uno
spatium temporis entro il quale l’espulso deve oltrepassare i
confini italiani.
Il Questore ha l’obbligo di comunicare l’esecuzione del decreto
del Ministro degli Interni o del Prefetto — nella prima ipotesi (5)
— ovvero il proprio provvedimento — nella seconda ipotesi (6) —
al Tribunale in composizione monocratica del luogo ove avviene
l’esecuzione per la sua convalida.
L’Autorità giudiziaria competente per la convalida della esecuzione
(sia come mera operazione sia sotto la veste di provvedimento)
compiuta dal Questore è pertanto, ai sensi dell’art. 20
ter D.Lgs. 30/2007 così come inserito dall’art. 1, comma 1, lett.
d), D.Lgs. 32/2008, il Tribunale ordinario in composizione
monocratica.
A tale proposito è evidente l’errore compiuto dal Legislatore
nel richiamo effettuato dall’art. 20, comma 11, D.Lgs. 30/2007
all’art. 13, comma 5 bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n.
286, in materia di espulsioni dei cittadini non comunitari.
Tale disposizione prevede anch’essa la convalida della esecuzione,
posta in essere dal Questore, del decreto precedentemente
emesso dal Ministro degli Interni o dal Prefetto, ma ad opera del
giudice di pace. Confligge il disposto dell’art. 20 ter («ai fini della
convalida dei provvedimenti emessi dal Questore ai sensi degli
articoli 20 e 20 bis, è competente il tribunale ordinario in composizione
monocratica») con il richiamo compiuto dall’art. 20,
comma 11 (disposizione richiamata — come appena accennato
— dall’art. 20 ter che assegna la competenza della convalida al
Tribunale ordinario in composizione monocratica), all’art. 13,
comma 5 bis, T.U. sulla disciplina della immigrazione, che invece
indica nel giudice di pace l’organo giurisdizionale per la
convalida dell’attività esecutiva per facta concludentia o provvedimentale
del Questore.
È inconfutabile la svista del Legislatore, che non ha riportato
nel testo in esame la formulazione dell’art. 2 del secondo decreto
legge non convertito 249/2007 che, nel richiamare la predetta
disposizione, si premuniva di sostituire le parole «giudice di
pace» — inserite all’interno degli artt. 13, 13-bis e 14 del decreto
legislativo 286/1998 — con l’espressione «tribunale ordinario in
composizione monocratica».
È opportuno precisare che per il tramite della relatio alla disciplina
dettata dall’art. 13, comma 5-bis, D.Lgs. 286/1998, il dies ad
quem entro il quale il Questore deve comunicare l’esecuzione al
giudice è fissato in quarantotto ore dalla emissione del decreto di
allontanamento e al Questore è stata data la possibilità di trattenere
il soggetto comunitario da espellere presso un centro di permanenza
temporanea.
Inoltre non di facile lettura — sempre in tema di convalida dei
provvedimenti del Questore da parte del Tribunale ordinario in
composizione monocratica — risulta essere il richiamo realizzato
dall’art. 20 ter all’art. 20 bis D.Lgs. 30/2007. Questa ultima norma
affronta la questione relativa alla pendenza di un procedimento
penale a carico del destinatario del provvedimento di allontanamento.
Il percorso per una corretta comprensione di quale sia
l’atto esecutivo del Questore oggetto di convalida da parte del
Tribunale è particolarmente tortuoso. Non può essere quello in
seno al comma 5 dell’art. 20-bis in quanto il Questore autorizza il
rientro in Patria dell’espulso nel caso in cui questi, al fine di esercitare
il proprio diritto di difesa, abbia la necessità di partecipare
al giudizio che lo riguarda ovvero di compiere atti per i quali è
indispensabile la sua presenza. È di palmare evidenza che un tale
atto autorizzatorio non abbisogna di una convalida giudiziaria,
necessaria solo se il suo oggetto consista in un provvedimento
restrittivo o ablativo della libertà personale.
Per comprendere cosa debba convalidare il Tribunale civile in
composizione monocratica quando il soggetto da espellere abbia
in corso un processo penale a suo carico, l’ermeneuta ha l’onere
di realizzare una serie di passaggi da un articolo all’altro, non
proprio in linea con una tecnica legislativa chiara ed agile che
consenta una immediata comprensione del contenuto della
norma.
Il primo passaggio è dall’art. 20-ter all’art. 20-bis D.Lgs.
30/2007, che al comma 1 rinvia all’art. 13, commi 3, 3-bis, 3-ter,
3-quater e 3-quinquies, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n.
286.
Il Questore, alla luce di questi ultimi articoli, non può
procedere alla esecuzione senza ottenere previamente il nulla
osta da parte dell’Autorità giudiziaria innanzi la quale pende il
processo penale a carico del soggetto comunitario destinatario
del provvedimento di allontanamento: se questi non si trova in
stato di custodia cautelare il giudice penale può concedere il
nulla osta; altresì se è in stato di arresto in flagranza o di fermo il
nulla osta può essere concesso solo dopo loro convalida e se non
vi sia una contestuale emissione della misura della custodia
cautelare in carcere; infine il nulla osta può essere concesso se
l’Autorità giudiziaria penale dichiara estinta o revocata la misura
della custodia cautelare in carcere (7).
L’art. 13, comma 3, richiama il comma 4 del medesimo articolo
che stabilisce che l’espulsione è sempre eseguita dal Questore con
accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica. Di
conseguenza è inevitabile il collegamento al comma 5 bis che stabilisce,
nei casi dettati dal comma 4 (mera esecuzione del decreto
espulsivo) e dal comma 5 (provvedimento autonomo del Questore
di immediato allontanamento, nel caso di inottemperanza da
parte del soggetto espulso all’ordine di porsi al di fuori dei confini
nazionali entro il tempo perentoriamente determinato nell’atto di
espulsione), l’obbligo da parte del Questore di ottenere nelle 48
ore successive alla adozione del decreto del Ministro degli Interni
o del Prefetto la convalida dell’esecuzione da parte del Tribunale
ordinario in veste monocratica.
Dunque il richiamo dell’art. 20 ter all’art. 20 bis D.Lgs. 30/2007 —
oltre che all’art. 20 già fatto oggetto del nostro studio — costituisce
l’obbligo da parte del Questore di comunicare al Tribunale per la
sua convalida anche l’esecuzione dell’allontanamento del cittadino
comunitario indagato o imputato, libero o in vinculis, ma solo dopo
il rilascio esplicito o implicito del nulla osta da parte della Autorità
giudiziaria competente per il processo penale che lo interessa (8).
L’incostituzionalità della normativa in parte qua per contrasto
con l’art. 3 della Carta Costituzionale non può essere messa in
discussione.
L’esecuzione del decreto di espulsione necessita della convalida
sia se i destinatari siano comunitari che di nazionalità al di fuori
della Unione europea: mentre per i primi, però, il passaggio giurisdizionale
è compiuto dinanzi il Tribunale ordinario, id est
innanzi un giudice togato, per i secondi è il giudice di pace,
quindi appartenente alla magistratura onoraria, a dare corpo alla
convalida. Il discrimen non è ragionevolmente fondato su nulla di
razionalmente e giuridicamente argomentabile. Per quale ordine
di motivi l’esecuzione del decreto di allontanamento, rectius di
espulsione, dei cittadini comunitari deve esser oggetto del vaglio
giurisdizionale di un giudice di carriera mentre l’esecuzione del
decreto relativo ad un extracomunitario di un giudice onorario?
La stessa questione di incostituzionalità si pone per i ricorsi
giurisdizionali avverso i decreti in sé e per sé, indipendentemente
dalla loro esecuzione. Alcune tipologie di provvedimenti di allontanamento
dei cittadini comunitari sono impugnate di fronte al
Tribunale ordinario in composizione monocratica ove ha sede
l’organo che le ha disposte (art. 22, comma 2, D.Lgs. 30/2007,
così come sostituito dall’art. 1, comma 1, lett. e), D.Lgs. 32/2008),
mentre i provvedimenti di espulsione dei cittadini non appartenenti
alla Unione Europea — emessi dal Prefetto nelle condizioni
previste dall’art. 13, comma 2, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 —
possono essere posti all’attenzione del giudice di pace (art. 13,
comma 8, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286).
Anche nel caso dei ricorsi giurisdizionali avverso i decreti di
espulsione, come nella ipotesi della convalida della esecuzione
degli stessi, si appalesa una inspiegabile differenza fra i cittadini
comunitari e quelli extracomunitari, i primi tutelati in sede giudiziaria
dal Tribunale ordinario in composizione monocratica, i
secondi dal giudice di pace che non è passato attraverso lo
scrutinio di un concorso pubblico.
Le impugnazioni in parte qua includono un’altra questione
giuridica, sempre di rilevanza costituzionale, di non poco
momento.
In primo luogo è opportuno evidenziare che il citato art. 22 al
comma 1 attribuisce al Tribunale Amministrativo del Lazio, sede
di Roma, la giurisdizione sui provvedimenti di allontanamento
per motivi di sicurezza dello Stato e per motivi di ordine
pubblico, mentre il comma secondo riconosce — come già
riportato — nel Tribunale ordinario in composizione monocratica
la giurisdizione sui provvedimenti di allontanamento per
motivi di pubblica sicurezza, per motivi imperativi di pubblica
sicurezza e per i motivi contenuti nell’art. 21 (9).
Appare prima facie di immediata percezione che i criteri di
ripartizione della giurisdizione fra T.A.R. Lazio e Tribunale
ordinario trovano il proprio fondamento sui motivi sottesi alla
emissione dell’atto espulsivo e non sulla Autorità che li ha
adottati, né sul tipo di materia su cui essi incidono, se non in via
residuale in virtù del riferimento dell’art. 22, comma 2, all’art. 21,
segnatamente al comma 1.
Esaminando la parallela normativa che disciplina le espulsioni
degli extracomunitari si può capire la anomalia di tale scelta.
La prima disciplina organica del settore si è manifestata con il
decreto legge 30 dicembre 1989, n. 416, convertito, con modificazioni,
nella legge 28 febbraio 1990, n. 39, che all’art. 5, comma 3,
ammette il ricorso contro i provvedimenti di espulsione dal territorio
dello Stato e contro il diniego e la revoca del permesso di
soggiorno al Tribunale Amministrativo Regionale, che può essere
adito a prescindere se l’Autorità emittente sia il Ministro degli
Interni (art. 7, comma 5) o il Prefetto (art. 7, comma 4): ciò che
rileva è che oggetto della impugnativa sia un provvedimento di
espulsione o un diniego o una revoca del permesso di soggiorno.
La rivisitazione di questa legislazione è stata realizzata ad
opera della legge 6 marzo 1998, n. 40, assorbita poi nel Testo
Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione
e norme sulla condizione dello straniero (D.Lgs. 25 luglio
1998, n. 286) che, in ambito giurisdizionale, individua nel
Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, sede di Roma, il
giudice competente per i provvedimenti adottati dal Ministro
degli Interni per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello
Stato (ex art. 13, commi 1 e 11), mentre nel pretore (10)
l’Autorità giudiziaria a cui spetta iurisdicere sui decreti propri del
Prefetto nei settori a lui riconosciuti (ex art. 13, commi 2 e 8).
La legislazione sulle espulsioni delle persone di nazionalità non
comunitaria ha in prima battuta previsto una unica giurisdizione
amministrativa (T.A.R. del luogo del domicilio eletto dallo
straniero) — per chi scrive il criterio più conforme, anche attualmente,
alla Costituzione e alla giurisprudenza costituzionale e di
legittimità —; poi ha dicotomizzato le giurisdizioni in amministrativa
per i ricorsi avverso le espulsioni riferite al Ministro degli
Interni e in ordinaria (prima il pretore, poi il tribunale civile in
composizione monocratica e, infine, il giudice di pace) per le
impugnazioni contra i decreti emessi dal Prefetto. In questa
ultima evenienza si è riconosciuta al giudice ordinario una giurisdizione
piena ed esclusiva, prescindendosi dalla distinzione fra
diritti soggettivi e interessi legittimi lesi dalla azione autoritativa
pubblica, similmente a quanto previsto dall’art. 22 legge 24
novembre 1981, n. 689, che ha assegnato al pretore la competenza
sulle opposizioni alle ordinanze-ingiunzioni nel campo degli
illeciti amministrativi depenalizzati.
Confrontando quanto sino ad ora rappresentato con i criteri di
riparto della giurisdizione in seno alle espulsioni dei cittadini
della Unione Europea, così come indicati nell’art. 22, commi 1 e
2, D.Lgs. 30/2007, è di facile intendimento il terreno argilloso in
cui si è andato ad immettere il Legislatore.
La giurisdizione del T.A.R. o del Tribunale ordinario è individuata
unicamente in base ai motivi posti alla base della adozione
del provvedimento di allontanamento, indipendentemente dalla
materia (salva l’ipotesi ex art. 21, comma 1) o dal tipo di organo
pubblico che ha formulato l’atto impugnato.
Gli stessi motivi imperativi di pubblica sicurezza che incardinano
la giurisdizione ordinaria sono alla base di un provvedimento
del Ministro degli Interni se riferiti ai soggetti indicati
all’art. 20, comma 7; in caso contrario sono fondamenta di un
decreto prefettizio.
Non è oscuro capire — come già è stato affermato in precedenza
— la difficoltà di costituire paletti precisi fra le varie tipologie
di motivi, da cui dipende la instaurazione di giudizi aventi natura
completamente diversa fra di loro.
Il vulnus agli artt. 24, 103 e 113 della Costituzione spicca maggiormente
nella attribuzione al Tribunale ordinario in composizione
monocratica di una giurisdizione su provvedimenti amministrativi,
adottati da Autorità amministrativa, incidenti su
interessi legittimi.
Mentre possiede un razionale fondamento giuridico l’opzione
legislativa di conferire al giudice di pace (11) la giurisdizione sui
ricorsi avverso i decreti prefettizi di espulsione dei cittadini extracomunitari,
in quanto la competenza è ristretta alle materie
elencate ex lege (art. 13, comma 2, T.U. immigrazione), anche in
ragione della indubbia interconnessione in esse fra diritti soggettivi
e interessi legittimi, tale opzione, in riferimento alle ipotesi
indicate nell’art. 22, comma 2, perde completamente di una ratio.
I provvedimenti di allontanamento, sia se adottati dal Ministro
degli Interni, sia se disposti dal Prefetto territorialmente competente,
sono manifestazioni di volontà aventi affioramento esterno,
provenienti da un organo della Pubblica Amministrazione
nell’esercizio di una attività amministrativa, funzionali al raggiungimento
del fine pubblico imposto dalla norma attributiva di
potere, posti in essere a conclusione di un procedimento amministrativo,
indirizzati a soggetti determinati: i motivi sottesi ad essi
ex art. 20, comma 1, sono una superfetazione che nulla rileva ai
fini del diritto amministrativo.
La giurisprudenza costituzionale e di legittimità può essere di
conforto per meglio comprendere la violazione degli artt. 24, 103
e 113 della Costituzione ad opera dell’art. 22, comma 2.
Le recenti sentenze delle Sezioni Unite della Cassazione (12) e
del Consiglio di Stato (13) hanno confermato l’indirizzo giurisprudenziale
delle Supreme Corti ordinaria e amministrativa, in
linea con gli enunciati delle decisioni della Corte Costituzionale
191/2006 (14) e 204/2004 (15).
Il plesso giurisdizionale T.A.R. - Consiglio di Stato è il giudice
del potere pubblico, sicché è l’inerenza dell’attività contestata
all’esercizio di un potere autoritativo di natura pubblicistica a
radicarne la giurisdizione. La giurisdizione amministrativa
comprende ogni contesto caratterizzato dalla presenza della
funzione pubblica, anche in via mediata, che si esprime attraverso
un concreto esercizio del potere pubblico, riconoscibile per
tale in base al procedimento svolto e alle forme utilizzate, in consonanza
con le norme che lo regolano; la giurisdizione amministrativa
privilegia inequivocabilmente non la posizione giuridica
soggettiva attiva in sé e per sé (diritto soggettivo o interesse
legittimo), ma la considerazione della incidenza su di essa
dell’illegittimo esercizio della funzione pubblica, sia in via provvedimentale
che fattuale. La sentenza delle Sezioni Unite della
Cassazione 27187/2007 ha precisato che, anche in materia di
diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, come il diritto
alla salute e alla salubrità ambientale (16), allorché la loro lesione
sia dedotta come effetto di un comportamento o di un provvedimento
indirettamente o direttamente espressione di poteri autoritativi,
imperativi e unilaterali della Pubblica Amministrazione
di cui sia denunciata la illegittimità, la giurisdizione è demandata
al giudice amministrativo.
In conseguenza di un attento esame della giurisprudenza della
Corte Costituzionale, del Consiglio di Stato, della Corte di Cassazione,
degli articoli 24, 103 e 113 della Costituzione, nonché
della stessa normativa in materia di immigrazione, risulta
fondato il dubbio di illegittimità costituzionale dell’art. 22,
comma 2, D.Lgs. 30/2007, così come sostituito dall’art. 1, comma
1, lett. e), D.Lgs. 32/2008. Il giudice ordinario ha la giurisdizione
sulle espulsioni dei soggetti comunitari, in base a criteri «incerti
e fumosi», correlati unicamente alla esistenza di alcuni motivi
invece che altri. I criteri di ripartizione della giurisdizione come
formulati dal decreto legislativo 32/2008 sono in netto contrasto
con quelli consolidati nella dottrina e nella giurisprudenza: i
provvedimenti di allontanamento hanno inequivocabile natura
amministrativa, in quanto espressione immediata e diretta di
Autorità centrali e periferiche appartenenti al potere pubblico e,
quindi, sono esplicitazione di una funzione autoritativa e unilaterale,
concludono un procedimento amministrativo e rientrano
nella categoria degli atti ablatori personali, sub specie di quelli
denominabili «ordini».
In conclusione, la giurisdizione non può che essere del T.A.R.
territorialmente competente, così come era correttamente
previsto dall’art. 5, comma 3, della c.d. legge «Martelli» (D.L.
416/1989, convertito nella legge 39/1990).
Prof. Fabrizio Giulimondi