Fra i tempi
musicali lenti troviamo l’adagio, che, come direbbe Sartre, è anche un avverbio
che esaspera la lentezza di un movimento, ma persino un film, “Adagio” di Stefano Sollima, che porta sul Grande Schermo un’azione scenica in
totale contrasto con avverbio e sostantivo.
Il
sottobosco suburbano e dell’anima percorre le rotaie di esistenza fatte di baccanali
orgiastici e dionisiaci moderni, non certamente dissimili da quelli antichi, lungo
pendii di storie di corruzione in divisa, nella cornice di una nuova Suburra
romana puntellata di volti pasoliniani, visi efebici e donne boccaccesche e
felliniane.
Al
ritmo del rap ed house, ma anche delle sonorità del Califfo, i migliori attori della
cinematografia italiana (Pierfrancesco
Favino, Toni Servillo e Valerio Mastandrea, accompagnati da un
ottimo Adriano Giannini) fanno vivere
le ultime battute degli epigoni degli uomini della Banda della Magliana.
Narrazione
avvincente e convincente immersa nei fumi tossici di uno dei tanti incendi di
rifiuti che hanno avviluppato la periferia romana, incorniciata in una
fotografia a tinte accentuatamente accese di una Roma infuocata dai rovi e dal
caldo asfissiante estivo.
I bassifondi
che fungono da set della malavita ruotano intorno al primo tratto della Tangenziale
Est della Capitale, riportando la memoria dello spettatore a “Suburra” (film e
serie), “Non essere cattivo” e a “Lo chiamavano Jeeg Robot”.
Film che,
come tutti quelli del filone cui appartiene, fa uscire l’ibristofilia che è in noi.
Fabrizio Giulimondi