........E CHE DIO ABBIA SEMPRE PAZIENZA DI NOI E NON CI MOLLI MAI!
Sorelle e Fratelli italiani,
che il 2013 ci trovi degni
e realizzi le aspettative dei meritevoli!
Fabrizio Giulimondi
lunedì 31 dicembre 2012
FABRIZIO GIULIMONDI, ROMANZO DI FINE ANNO: "CHESIL BEACH" DI IAN MCEWAN
Romanzo
di fine anno!
“Chesil Beach” dello scrittore britannico
Ian
McEwan (Einaudi).
Storia
d’amore, fra intellettualismi e imbranataggine, dell’accademico Edward con la
violinista Florence (e la mia mente va alle impareggiabili pagine di Che cosa è la letteratura di Sarte sulla
parola Florence, che evoca una bella donna ma anche la superba città di Firenze),
nella Inghilterra elisabettiana dominata
dalla repressiva educazione inglese, dai loro primi incontri, al fidanzamento,
al matrimonio, sino alla prima tragicomica
notte di nozze, raccontata con elegante sensualità e qualche tocco di ironia.
Il
filosofo esistenzialista francese sembra sia un terzo incomodo per tutta la
narrazione proprio per l’uso che l’Autore compie del linguaggio, con il quale
gioca e fa divertire il lettore: l’aggettivazione è ricca, esuberante e variopinta;
i verbi sono utilizzati in maniera eccentrica (le piccole onde che sculacciano la barca) e poetica (sciabolio delle piccole onde); i
vocaboli sono affascinanti e pieni di significato (mesmerizzare); espressioni curiose cospargono qua e là i periodi ( imbottitura di premuroso silenzio). Lo sviluppo
narrativo si alterna tra l’arco temporale 1940-1945 (bombardamento missilistico
hitleriano su Londra) e il periodo che abbraccia la fine del 1950 ed i primi
anni del 1960, che il lettore focalizza grazie a distratti richiami a Kennedy,
alla invasione del canale di Suez, alla costruzione del muro di Berlino e all’inizio della corsa al riarmo nucleare.
Il
libro ha una sua colonna sonora, nelle vellutate sinfonie di un austero quartetto
d’archi. Il finale è triste e malinconico.
Fabrizio Giulimondi
sabato 29 dicembre 2012
JOSEPH RATZINGER- BENEDETTO XVI:"L'INFANZIA DI GESU'"
Ho letto “L’infanzia di Gesù” (Rizzoli e Libreria Editrice Vaticana, 2012),terzo splendido volume dell’opera teologica e pastorale di Joseph Ratzinger, Papa Benedetto XVI, composta anche dai due precedenti libri Gesù di Nazareth - Dal Battesimo alla Trasfigurazione (2007) e Gesù di Nazareth - Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione (2011).
Non
mi permetto di commentare o recensire uno scritto del Vicario di Cristo, fine
teologo e uomo di immensa erudizione cristologica.
Mi
limito a constatare che il saggio è di notevole interesse, fornendo ai lettori una
esegesi della nascita di Cristo, tramite un esame dei fatti storici con grande
acribia e nel rispetto delle metodologie storiografiche, geografiche, astronomiche, giuridico giudaiche
e teologiche, unitamente ad un attento studio delle Sacre Scritture vetero-testamentarie (partendo
dal versetto 7,14 del profeta Isaia del 733 A.C.:”Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dl
Signore per mezzo del profeta: ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un
figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi”,
per poi approfondire gli annunci
messianici degli altri profeti) e del Nuovo Testamento (Atti degli Apostoli e Vangeli di San Luca e San Matteo, gli
evangelisti che trattano, ambientandola storicamente e socialmente, la nascita
e l’infanzia del Figlio di Dio).
La
meditazione del Santo Padre sulle vicende storiche legate ai primi anni di vita
di Gesù e la loro interpretazione ermeneutica secondo le linee scientifiche
sopra evidenziate, sono supportate e
affiancate dalle citazioni di illustri pensatori, filosofi, Padri della Chiesa
e studiosi della figura umana e divina di Gesù, senza che siano esclusi gli storici
e i poeti pagani che hanno inciso sensibilmente sulla cultura dell’epoca romana antecedente e successiva
alla morte di Cristo, come Virgilio e Svetonio.
E’
un testo di particolare spessore conoscitivo ed intellettuale, che apre porte -
almeno per quanto mi riguarda -
assolutamente sconosciute e che può coinvolgere ed attrarre chiunque, senza
alcuna eccezione, per il linguaggio semplice e scorrevole e le tesi suggestive, rigorose e ben argomentate.
Fabrizio Giulimondi
venerdì 28 dicembre 2012
DARIA BIGNARDI: "NON VI LASCERO' ORFANI"
Ho letto il terzo libro di Daria Bignardi “Non vi
lascerò orfani” (Mondadori), in realtà la sua opera prima (cui sono
succeduti in ordine di tempo Un karma
pesante e Una acustica perfetta - il mio preferito - , entrambi
in commento in questa stessa rubrica),
destinataria di ben tre premi letterari: Rapallo Carige, Elsa Morante e Librai
Città di Padova .
Il titolo “Non vi lascerò orfani”
è tratto dal Vangelo di Giovanni ed è il nostalgico e commosso ricordo della
famiglia della Bignardi, a partire dai bisnonni. Il racconto si concentra sulle
figure del padre e, specialmente, della
madre, morta nelle settimane antecedenti alla scrittura e la pubblicazione, nel
2009, del libro.
In verità la storia parla diffusamente della madre, con numerose,
toccanti e, talora, vibranti pagine sul suo carattere, la sua personalità,
sull’amore profondo della Bignardi per lei, sul legame intenso che univa figlia e mamma, nonostante quest’ultima
fosse “imprigionata nel suo sistema di ansie, paure, sensi di colpa e strade
tracciate”.
Lo scritto trasuda di senso della famiglia, un antico, splendidamente
tradizionale, senso della famiglia che l’Autrice esprime e vuole trasmettere ai
due figli (Ludovica e Emilia), ai nipoti che verranno e, per il loro tramite, ai lettori. Qui l’immagine
lievemente aristocratica e gauche
della Bignardi televisiva cede il passo ad una figlia tenera, apprensiva,
familista, tesa a non far preoccupare mai la madre, assecondandone le sue mille
piccole e grandi manie e sempiterne preoccupazioni.
La morte è un’altra presenza costante del lavoro, ma non crea angoscia e
tristezza, ma è il collante dell’
insieme di scene di vita quotidiana, di affetti nascosti, saldi, veri, di immagini di una famiglia della Romagna,
unita, stretta nella propria terra,
nella propria casa, nelle proprie
vacanze sempre nei stessi periodi dell’anno, negli stessi luoghi di
mare, mangiando quelle gustose pietanze, bevendo quel buon vino, in quei
ristoranti: la Scrittrice
desidererebbe che lo stesso facessero il suo Ludovico e le sua Emilia, che
anche loro conoscessero il calore di una famiglia normale, i suoi vincoli, la sua unità.
Leggendo questo romanzo, introspettivo ed intimista, riuscirete a raffigurarVi davanti agli occhi quelle tavolate dove padri, madri, figli, cugini,
zii, nonni e nipoti si radunano, e dove i sentimenti parentali ancora sono
solidi e vivono di un tepore che la
Bignardi mirabilmente fa vivere e rivivere.
Fabrizio Giulimondi
mercoledì 26 dicembre 2012
"SEMINA IL VENTO" DI ALESSANDRO PERISSINOTTO
“Semina il vento”, di Alessandro
Perissinotto (Piemme), romanzo fra i finalisti del premio Bancarella 2012,
vinto da Marcello Simoni con “Il mercante
di libri maledetti” (recensito in questa rubrica), è talmente avvincente che non smetterete di
leggerlo finché non sarete giunti all’ultima riga…. e che ultima riga!
La docenza universitaria in letteratura a Torino di Perissinotto
è messa in luce per tutto lo sviluppo narrativo, sia per l’agilità e la
freschezza della scrittura che rende scorrevolissima la lettura del libro, sia
per le dotte ed interessanti spiegazioni, sotto l’aspetto etimologico e
semantico, di alcune espressioni di origine francese (la parola medusee, adoperata a pag. 219, intesa
come “impietrito”, fornisce il destro per una breve dissertazione infarcita delle
sfumature di significato che implicano la sua traduzione in italiano) e
dialettale di Molini, in Provincia di
Torino, ove si svolge la parte più corposa della storia.
Giacomo è in prigione e il racconto prende la forma del memoriale che,
su richiesta dell’avvocato, egli scrive per dimostrare alla Autorità Giudiziaria la sua innocenza.
Invero, il documento non assumerà il ruolo di strumento defensionale per
Giacomo, ma rappresenterà l’occasione per parlare minuziosamente, dettagliatamente,
scrupolosamente della sua storia d’amore con Shirin, ragazza iraniana
conosciuta a Parigi, laica, disinibita, colta, appartenente alla buona borghesia persiana e poi francese; del
suo profondo legame coniugale con lei; della decisione di entrambi di andare a vivere nella casa
natia di lui a Molini, per godere della bellezza dei piccoli centri e delle loro radicate tradizioni;
della iniziale cordiale accoglienza e delle prime avvisaglie di fastidio da parte della comunità
locale nei confronti Shirin.
La narrazione a questo punto procede celermente, travolgendo il lettore nella follia islamica, nel chador, nell’hijab e nella
tragedia.
Ovviamente la critica seguace del politically correct ha dato addosso alla sparuta comunità di
Molini, parteggiando per il maestro (personaggio, insieme alla consorte,
indubbiamente affascinante che, come tutte le
grandi figure dei romanzi, suscitano contrasti marcati, cha vanno, senza
troppe sfumature e gradazioni, dall’amore all’odio), il quale - credo - possieda
alcuni elementi biografici e autobiografici dell’Autore.
Io, invece, eccettuati alcuni eccessi, sono dalla parte della gente di
quella piccola località del torinese, sia per la distanza con alcune concezioni
atee e laiciste di Perissinotto, sia in ragione della giustezza della lotta di certe realtà
umane per la conservazione – e il rispetto da parte degli “ospiti” - della propria
tradizione, dei propri costumi, della
propria cultura e del proprio patrimonio
spirituale e religioso cattolico.
“Semina il vento”
richiama l’adagio chi semina vento raccoglie
tempesta e, il titolo con
forza anticipa la piega drammatica che prenderà il romanzo da un determinato
momento in poi, quando i due estremisti,
l’uno leghista, l’altro islamista, configgeranno e determineranno il dramma per i due protagonisti e la comunità
intera.
Fabrizio
Giulimondi.
lunedì 24 dicembre 2012
SORRIDI ORA! ANCORA SARA' NATALE!
“E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi”( Gv 1, 14)
e venne ad abitare in mezzo a noi”( Gv 1, 14)
...E
si pose sulle sue piccole spalle il nostro tradimento,
e ci indicò la stella della Speranza,
e davanti a Lui le tenebre si dissiparono perché Egli era la Luce!
Spes
contra spem.
Fabrizio
Giulimondi…………..AUGURI E ANCOR DI PIU’!
domenica 23 dicembre 2012
DARIA BIGNARDI:"UN KARMA PESANTE".
“Un karma pesante” (Mondadori)
è il secondo romanzo di Daria Bignardi,
successivo al pluripremiato “Non vi
lascerò orfani” (che a breve leggerò) e antecedente al molto più bello “Un acustica perfetta”(già recensito in
questa stessa rubrica).
Eugenia è una regista del cinema molto apprezzata. “Tutto o niente” è la
sua filosofia di vita. Perennemente in corsa, non godendo così di niente di ciò
che fa,è insicura, fragile, anche se stravagantemente – può apparire un
paradosso – decisionista. Ansiosa, vede sempre il lato negativo delle vicende e
si aspetta ogni volta il peggio dagli eventi. Si preoccupa di tutto, facendo
sentire sempre in colpa l’altro, a partire da marito Pietro, l’opposto in tutto
di lei. Egocentrica ed egoista, riesce però ad essere una buona madre delle due
figlie Lucia e Rosa.
La protagonista del libro è insopportabile e, a differenza di Sara ne “Un acustica
perfetta”, donna sì irritante
ma avente un suo fascino, Eugenia è irritante e basta! Eternamente
insoddisfatta di tutto, l’Autrice, utilizzando la consueta tecnica narrativa
che oramai si ritrova in molti racconti – la fa viaggiare avanti e indietro nel
corso della sua vita, passando dal presente, signora nevrotica con famiglia, al
passato, fra fidanzati, droghe, alcol e molte esperienze professionali. La
storia, con continui passaggi saltellanti nel tempo, è attraversata dai suoi
lutti (la morte prima del padre e poi della madre) e dai suoi viaggi, da Verona, a Padova, a Londra e New York, per
stabilizzarsi, infine, a Milano (con qualche puntata in Sicilia).
Sento e faccio mie le espressioni adoperate dalla conduttrice delle “Invasioni
Barbariche”, nella parte destinata ai Ringraziamenti,
per mezzo delle quali descrive il suo stato d’animo tutte le volte che entra
in contatto con la letteratura: ” …che
quel che più mi emoziona, mi calma, mi avvince, sono le parole. La scrittura, e
prima ancora la lettura. Suona pomposo ma è così…..”.
Fabrizio Giulimondi
sabato 22 dicembre 2012
"RUBY SPARKS" DI JONATHAN DAYTON
"Ruby Sparks", di Jonathan Dayton, ambientazione
statunitense, stile francese, agro-dolce, brillante con momenti mesti, possiede
la peculiarità che, nonostante non sia
una pellicola inserita nel circuito dei film per ragazzi, è adatta alla
famiglia nella sua interezza, per le modalità e l’eleganza con cui viene
pensata ogni singola immagine. Andamento allegro – per mutuare terminologia più
vicine al mondo della musica classica- e finale, prima con qualche punta di tragicità, poi
aperto al sorriso sincero.
Un giovane e geniale scrittore affronta la redazione di
un nuovo romanzo dopo un periodo di stanca
e, si innamora del personaggio femminile protagonista della storia che via
via, sempre più convulsamente, viene messa nera su bianco. Misteriosamente
nella abitazione di lui comincia a sentirsi una presenza femminile, con la
comparsa di biancheria intima
sparpagliata qua e là. Di lì a poco si materializzerà una ragazza, Ruby, l’eroina
del suo racconto, non più frutto della immaginazione del romanziere, bensì una
fanciulla vera, in carne ed ossa,
visibile agli occhi di tutti. Prima il suo creatore pensa di essere
uscito fuori di senno, per poi adattarsi alla nuova realtà, manovrando Ruby
come una marionetta, intervenendo a suo piacimento sul suo carattere apponendo delle
semplici interpolazioni al testo del lavoro letterario: troppo indipendente?un
ritocco lessicale ed eccola più legata a lui; troppo appiccicosa e triste?
Qualche parolina in aggiunta ed eccola molto ilare, forse troppo. Un pupazzo
che da divertente diverrà, però, grottesco.
Opera Intelligente, pulita, bizzarra, diversa dal
comune panorama cinematografico. Tradotto in parole più concise e semplici: da
vedere, anche con figli minori a seguito.
Fabrizio Giulimondi.
giovedì 20 dicembre 2012
FABRIZIO GIULIMONDI: BRUEGHEL E GLI ALTRI PITTORI FIAMMINGHI A ROMA
La mostra sui pittori fiamminghi del XVI e XVII secolo allestita nello spettacolare Chiostro del Bramante, vicino piazza Navona, è imperdibile!
Potrete ammirare le pitture della dinastia dei Brueghel e dei loro allievi
sino al 2 giugno 2013, dal lunedì al venerdì dalle ore 10 alle ore 20.00,
mentre il sabato e la domenica dalle ore
10 fino alle ore 21.00.
La gens dei grandi artisti
olandesi dei Brueghel inizia con Pieter Brueghel il vecchio, che ebbe due
figli, Pieter Brueghel il giovane e Jan Brueghel il vecchio, il quale a sua
volta ebbe due discendenti, Ambrosius Brueghel e Jan Brueghel il giovane, con i
suoi cinque figli.
La stirpe dei Brueghel è stata l’ossatura portante della grande pittura
fiamminga che si ispirò, a partire da Pieter Brueghel il vecchio, al grande
Ieronymus Bosch, che io da bambino amavo molto. Conosciuto curiosando a casa fra i volumi di una collana che proponeva le
pitture (con relative descrizioni e spiegazioni) dei grandi artisti italiani ed
europei vissuti nel periodo basso medioevale,
umanista e rinascimentale, fui
impressionato dalle visioni infernali e dalle rappresentazioni mostruose e
deformi che si rinvengono negli incubi dei bambini (e non solo)
Bosch è il capostipite della corrente pittorica fiamminga, a cui la
famiglia Brueghel si ispirò. Bosch è un creatore visionario e geniale di mondi
alieni, ha la capacità di raffigurare emozioni, paure e sentimenti dandogli
qualsiasi tipo di forma. Interessante è l’elemento della “bruttezza” che
diventa oggetto principale dell’opera di Bosch e dei suoi ammiratori, discepoli
e seguaci. La “bruttezza” è un modo di raffigurare, ingigantendolo, il singolo
difetto fisico. In ogni personaggio ne viene esaltato uno e la sua
rappresentazione è resa sgradevole
proprio per quella determinata imperfezione del corpo e per quella
specifica deficienza dell’aspetto, rimandando invero ad un requisito di ordine metafisico, psicologico o morale: il
naso grosso arcuato verso il basso esprime cattiveria; quello rosso indica
festosità e ubriachezza; la pancia accentuatamente gonfia golosità.
Nei Brueghel, specie in Pieter il giovane, mi ha affascinato la massiva
presenza di fiori elegantemente colorati, che decorano le raffigurazioni di paesaggi
boschivi e campestri, divengono nature morte su piccole e grandi tele, o si
trasformano in splendide ghirlande che
incorniciano figure di Madonne da sole oppure insieme al Bambino, ovvero nella composizione della Sacra Famiglia.
Viene mantenuta in Pieter Brueghel il vecchio e il giovane la carica
grottesca e la visione disincantata e pessimistica dell’uomo propria di Bosch,
approfondendo entrambi, però, specie Brueghel il giovane, una chiave più
terrena dei propri sguardi onirici.
Troverete anche i quadri di altri appartenenti alla corrente fiamminga – come Marten van Cleve e Pieter
Coeche van Aelst - collaboratori dei
Brueghel e uniti a loro nelle gilde,
esperimenti interessanti compiuti dagli artisti del tempo per dare forma a cooperazioni fra di loro, talora in maniera
occasionale, altre volte in modo più strutturata.
Le gilde danno corpo a vere e
proprie compartecipazioni nella esecuzione della stessa opera, secondo le
specialità, le competenze e le sensibilità culturali di coloro che vi fanno
parte. Le gilde permettevano di
accettare la commissione di lavori particolarmente impegnativi, a cui potevano
partecipare più botteghe che si rifacevano ad un determinato tipo di scuola
figurativa, coordinate da un pittore di
chiara fama, abilità e genio artistico
in quel luogo e in quell’epoca.
L’epoca si colloca nel pieno scontro bellico - religioso fra la
cattolicissima Spagna di Filippo II e l’area geografica belga-olandese – da
questi duramente dominata - di fede
protestante, calvinista e luterana, la
quale, al termine della guerra dei c.d. ottanta anni - iniziata con l’invio in quelle Terre nel 1567 da parte del re spagnolo dello
spietato duca di Alba che vi instaurò un
regno del terrore – si staccò dalla parte meridionale cattolica (il
Belgio), formando l’attuale protestante Olanda (Paesi Bassi).
Il prezzo del biglietto è di euro 12 (a parte le varie tipologie di riduzioni e di esenzioni): purtroppo non basso, ma Vi posso
assicurare che ne vale veramente la pena vederla, anche per godere della
suggestività della struttura ospitante e della bellezza unica e ineguagliabile
del centro di Roma.
mercoledì 19 dicembre 2012
MASSIMO GRAMELLINI, "FAI BEI SOGNI", LONGANESI
“Se un sogno è il tuo sogno,
quello per cui sei venuto al mondo, puoi passare la vita a nasconderlo
dietro una nuvola di scetticismo, ma non
riuscirai mai a liberartene. Continuerà a mandarti dei segnali disperati, come
la noia e l’assenza di entusiasmo, confidando nella tua ribellione”.
E’ una delle 223 pagine del romanzo autobiografico di Massimo Gramellini “Fai bei sogni” (Longanesi); è una delle 223 pagine che costellano un libro
di rara bellezza contenutistica e di rara profondità, paragonabili solamente
alle opere di Marcello Veneziani.
Pagine commoventi, emozionanti, toccanti, delicate e tenere e, poi,
ironiche nel dramma, divertenti nella tragicità del racconto, leggere nella
drammaticità della narrazione. Pagine che ricordano il drama greco che toccava le corde dell’anima e del cuore, senza
infierire con la violenza e il sangue.
Pagine intense che descrivono come possa determinarsi la vita di un bambino sino all’età adulta privato della mamma, una madre che è morta quando egli aveva
appena 9 anni a causa di un infarto.
Quel fanciullo è Gramellini, che ha avuto il coraggio di raccontare la
sofferenza, il dolore e la disperazione nascosta nelle anse più intime di se stesso; come quel bimbo insieme
al suo peso sia diventato l’affermato giornalista del quotidiano la Stampa di Torino e il noto polemista televisivo che noi
conosciamo; quale percorso professionale abbia attraversato, dallo sport, alla
politica, ad inviato di guerra nell’inferno di Sarajevo, dove incontra Salem,
con lo stomaco squarciato da una pallottola sparata da un cecchino serbo. E tutto
questo mentre Belfagor è dentro di
lui: ”Belfagor è il nome che da bambino
avevo dato al mostro che abita dentro di noi. Uno spiritaccio animato da buone
intenzioni, in realtà pernicioso, perché pur di tenerci lontano dalla
sofferenza ci chiude in una gabbia di paure.
Paura di vivere, di amare, di credere nei propri sogni”.
L’assenza della mamma, la morte della madre, ha segnato profondamente sino
alla età di 49 anni Massimo Gramellini, anche nelle sue relazioni con le donne,
finché non ha incontrato la attuale moglie, Elisa. Ecco il suo cuore
risuscitato come parla dei sentimenti: ”
Le emozioni sono violente e brevi,
colpiscono e svaniscono. I sentimenti invece sono lenti e profondi, a volte noiosi.
Ma parlano il linguaggio universale del cuore, che non si esprime attraverso le
parole e i ragionamenti, ma con i simboli”.
E sopraggiunge la verità, fatalmente ed ineluttabilmente la verità, non
conosciuta sino alla soglia dei 50 anni o, forse, sempre saputa e fuggita per
lungo, troppo, tempo. Madrina, una vecchia amica della madre e della famiglia, gli
consegna una busta……
Turbamento e rigenerazione è quello che ho provato al termine della lettura
di questo libro “unico”: è un imperativo kantiano immergervisi!
Credo che lo rileggerò almeno un’altra
volta.
Vorrei terminare con un pensiero di George Bernard Shaw, ripreso dallo
stesso Autore del romanzo: “La missione
di un uomo consiste nell’essere una
forza della natura e non un grumo agitato di guai e di rancori che recrimina
perché l’universo non si dedica a renderlo felice”.
Fabrizio Giulimondi
FABRIZIO GIULIMONDI: PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO
Ringrazio l’avv. Antonio
Cordasco, amico e illustre amministrativista del foro di Roma, per avermi
coinvolto nel team che avrà il
compito di redigere un nuovo testo universitario sull’importante tema - mai sviluppato a sufficienza! - avente ad oggetto “Il procedimento
amministrativo”.
Tratterò, presumibilmente,
l’accesso alla documentazione amministrativa, sviscerandone tutti gli aspetti
normativi, dottrinali e giurisprudenziali, con particolare attenzione alla sua
compatibilità con il diritto alla riservatezza, dando anche una doverosa occhiata agli ordinamenti giuridici europei
di maggior calibro.
Prof.
Fabrizio Giulimondi.
martedì 18 dicembre 2012
"LE LUCI NELLE CASE DEGLI ALTRI" DI CHIARA GAMBERALE
Vidi sulla metro di Roma una signora leggere “Le luci nelle case degli altri”, di Chiara Gamberale (ed. Mondadori numeri primi), alla quale la trama
stava piacendo parecchio. Incuriosito anche dal battage pubblicitario che v’era
stato intorno al libro, me lo sono comperato e letto.
Mandorla è una ragazzina che a sei anni perde la madre, Maria – donna particolarmente “frizzante” - in un incedente automobilistico. Il condominio
di via Grotta Perfetta 315 di Roma - presso il quale la defunta esercitava le mansioni
di amministratrice, molto amata, ma
anche molto odiata - “adotta” la bambina: giuridicamente il
soggetto adottante è Tina Polidori, la classica zitella, ma in realtà ognuno
degli abitanti degli altri quattro appartamenti, a turno, fungono da madri e
padri: famiglie con figli (qualcuno non proprio riuscito bene), coppie di fatto
eterosessuali e unioni omosessuali.
Il tempo trascorre con una narrazione senza particolari brividi, sino ad
arrivate al giorno di compleanno per i 18 anni di Mandorla, che trascorrerà in carcere a causa di un amore sbagliato con
Palomo, ragazzo che sin dall’inizio della sua esistenza nel romanzo si è
dimostrato un poco di buono.
L’unico colpo di scena è nel
prologo (a parte il finale), a seguito della scoperta di una lettera che Maria aveva
scritto alla figlia, per mezzo della quale le rilevava che il padre era un uomo con
cui si era intrattenuta fugacemente
nell’ex lavatoio (ambiente - ove si svolgono le riunioni condominiali - che si dimostrerà importante nel racconto).
Mandorla, ovviamente, vuole sapere chi sia il genitore, ma nessuno dei
condomini-adottanti ha l’intenzione di sottoporsi al test del DNA. In realtà
neanche lei lo desidera veramente!
La storia si snoda lungo la narrazione in prima persona di Mandorla che
riporta il dietro le quinte di tutti
i residenti dei cinque piani dello stabile di via Grotta Perfetta 315, nonché
dei vari personaggi con cui si imbatte nei suoi 12 anni di vita scrutati della
Gamberale. Fra di essi v’è anche Porcomondo,
il cattivo, l’uomo nero, che fino alla fine non capirete se sia un persona in carne ed ossa, oppure il
frutto degli incubi notturni e delle paure diurne di Mandorla.
Interessante è l’uso che fa della grafia l’Autrice, grafia che cambia,
tramutandosi in corsivo o variando i tipi di carattere, a seconda che il lettore abbia a che fare con
un ricordo, un fatto attuale, una
missiva o un dialogo diretto.
Altra peculiarità è la distribuzione fra le pagine di poesiole,
filastrocche e cantilene fanciullesche con cui la protagonista esprime il
proprio stato d’animo nel corso degli anni.
La trama, che alla signora della metro era piaciuta tanto, scorre
placida come un fiume carsico che
percorre lentamente il suo letto
sino ad un lago, con un arguta e inaspettata virata virulenta nelle ultime due
pagine, conducendo l’acqua verso un mare
in tempesta: un vero fulmine a ciel
sereno che non può non scuotere il lettore, a cui consiglio di non iniziare la
lettura dall’epilogo.
Fabrizio Giulimondi
lunedì 17 dicembre 2012
AMOUR: FILM VINCITORE DELLA PALMA D'ORO A CANNES
Probabilmente Amour di Michael Haneke è uno delle più belle opere cinematografiche
dell’ultimo ventennio. Meritatamente vincitore della Palma D’Oro a Cannes (2012),
vede come attori, protagonisti assoluti del film, due
strepitosi Emmanuelle Riva e Jean-Louis Trintignant, che esprimono con il proprio corpo, il proprio viso, la propria
gestualità, i propri silenzi, il dolore,
il dolore vero, il dolore drammatico, un dolore impietoso, sempre più
prepotente. Il regista non risparmia lo spettatore, entrando nelle pieghe più
profonde della sofferenza e della malattia.
Il dolore, la sofferenza e la malattia incarnano e sostanziano ogni scena del
film: eppure è l’amore ad essere il vero collante, il vero substrato, la vera
forza potente ed onnipresente per tutte le due ore, perché l’amore ha
cementificato la vita di questa coppia di anziani francesi, sposati da decenni,
con una figlia amata e da cui sono amati, unita in matrimonio con un inglese da
cui ha avuto due figli. Gli anziani
coniugi si amano ancora, si sono sempre amati, appassionati di musica,
concertisti, musicisti, maestri di pianoforte, con allievi che hanno toccato
vette eccelse nel panorama musicale europeo.
Anne e Georges hanno vissuto e
vivono in uno splendido appartamento a Parigi, quando sopraggiunge il demone del male fisico: lei ha una
occlusione della carotide e l’ operazione chirurgica la offende ancora di più,
impedendole l’uso di tutto il lato destro del corpo. L’amore di lui si accresce
ancor di più, accudendo la moglie in
ogni modo e maniera: la tenerezza di alcune scene è di non poco momento!
Ma un secondo attacco della patologia la aggredisce rendendole
massimamente difficoltosa la favella, determinandone l’incontinenza e
togliendole definitivamente l’
autosufficienza: il suo corpo è devastato; il suo volto, così espressivo e
luminoso, deformato. Tragica la scena del “dialogo”, fatto di pietosi e
incomprensibili fonemi, fra madre e
figlia; terribile la cacciata (un “Vattene!” articolato in maniera stentata e
gutturale) di quest’ultima perché la mamma si sentiva umiliata nella propria
prigione corporea; grandiosa la scena
del licenziamento ad opera del marito di
un’ infermiera che accudiva la moglie come se fosse una bambina idiota (come se
ne vedono molte nelle case private, nelle cliniche e negli ospedali: “Guardi che bella signora
che è diventata adesso che l’ho pettinata?” ponendo davanti ad un viso
deturpato uno specchio), e non una Signora,
una concertista, una musicista, una maestra di pianoforte di ottimi esecutori
d’orchestra, devastata dalla malattia.
La struttura portante di Amour sono i primi piani. Le scene
sono prevalentemente primi piani: primi piani degli ambienti della splendida
abitazione ove si svolge tutta la
narrazione del film; i primi piani delle pitture che decorano le eleganti
pareti; i primi piani dei volti di lei, che comincia ad avere le prime
avvisaglie del male per arrivare inesorabilmente ad un viso immobile incarnazione
della fisicità della afflizione; il
volto di lui, rassegnato e disperato, ma sempre determinato, sempiterna
espressione di amore e di dolcezza per la consorte. Amore fino alla fine, nella salute e nella malattia.
Le scene scorrono, legate dai
primi piani e da una colonna sonora fatta dal silenzio, assenza di “verbo” fra
gli interpreti, silenzio che pesa e comunica e suona e risuona nella sala,
interrotto da qualche breve brano di Schubert…e quando la proiezione termina,
nessuno spettatore si è alzato prima di qualche minuto.
Fabrizio Giulimondi
domenica 16 dicembre 2012
"LO HOBBIT" DI TOLKIEN: IL FILM DI PETER JACKSON
Lo Hobbit-il film
John Ronald Reuel
Tolkien (Bloemfontein, 3 gennaio 1892-Bournemouth, 2 settembre 1973),
scrittore, filologo, glottologo, linguista britannico, è
il capostipite indiscusso del genere letterario-cinematografico fantasy.
Il capolavoro Il Signore degli Anelli (edizione Bompiani), scritto
nel biennio 1954-1955, da cui il regista neozelandese, Peter Jackson, ha tratto
la straordinaria trilogia La Compagnia dell’Anello, Le Due Torri e Il Ritorno del
Re, determina la nascita del genere
fantastico, i cui tratti distintivi li troviamo copiosi nei romanzi
– e nelle conseguenti traduzione sul grande schermo - La
storia infinita, Eragon, la Saga di Narnia e, qui in Italia, nei tanti e suggestivi libri
di Licia Trosi.
Il Signore degli
Anelli è preceduto da un primo lavoro di Tolkien del 1937 Lo
Hobbit, che può essere correttamente qualificata
l’opera antesignana del Il Signore degli
Anelli.
Lo Hobbit-il libro
Lo Hobbit (edizioni Gli Adelphi) in nuce contiene la storia e i personaggi di quest’ultimo, iniziando a delinearne le ambientazioni e le morfologie dei mondi (La Contea, dimora degli hobbit; Gran Burrone, regno degli elfi; la Terra di Mezzo, patria degli uomini), il profilo dei protagonisti e il filo conduttore delle loro vicende guerriere ed eroiche, storie e racconti che esploderanno compiutamente nella loro bellezza e vigore con Il Signore degli Anelli.
Lo Hobbit è la straordinaria bozza de Il Signore degli Anelli e lo stesso film - sempre mirabilmente girato negli
affascinanti scenari della Nuova Zelanda - anche se è stato realizzato
dopo anni dell’arrivo nelle sale cinematografiche del Il Signore degli Anelli, narra allo spettatore avventure antecedenti
a quelle sviluppate in quest’ultimo.
Il Signore degli Anelli-il film-trilogia: LaCompagnia dell'Anello-Le Due Torri-Il Ritorno del Re
Il Signore degli Anelli-il film-trilogia: LaCompagnia dell'Anello-Le Due Torri-Il Ritorno del Re
Nel Il Signore degli Anelli il protagonista è l'hobbit - un mezzo uomo con grandi orecchie a punta e piedi grandi e pelosi - Frodo che, insieme al toccante Sam ed agli altri valorosi amici della Compagnia nani, elfi e uomini, porterà l’anello del Potere e del Male, pesante fardello coniato per la volontà malvagia e distruttiva di Sauron, signore di Mordor, verso il Monte Fato per essere una volta per tutte distrutto dalle fiamme e dalla lava del vulcano: la vittoria sarà raggiunta solo dopo aver contrastato spasmodicamente le potenti orde degli orchi e dei mannari, le forze magiche e nefaste di Saroman, lo stregone bianco, anche grazie all'aiuto del saggio mago-guerriero, Gandalf e, le continue insidie del mostriciattolo Smeagol-Gollum.
Nel film Lo Hobbit la figura centrale,
invece, è lo zio di Frodo, Bilbo
Beggins, che farà conoscere gli accadimenti precedenti alla Compagnia
dell’Anello e in che modo si
sia giunti alla scoperta dell’anello.
Anche Bilbo è un
hobbit che, coinvolto suo malgrado da
Gandalf, metterà a disposizione la sua piccola statura e il suo grande coraggio per restituire al
popolo dei nani la loro Città, occupata da un grande drago, impegnandosi a combattere, insieme agli stessi nani, agli
elfi e agli uomini, le massicce e forti guarnigioni degli orchi, dei mannari,
dei troll, dei goblin e degli altri esseri ributtanti e deformi, capeggiati dall’orco pallido “Il
profanatore”.
Nonostante la
solita critica intellettualmente sofisticata, Tolkien e la sua versione cinematografica piace perché Lo Hobbit e la trilogia de Il Signore degli Anelli hanno come
canovaccio costante il senso dell’onore e l’amore per la propria Terra. La
saggezza e l’intelligenza dell’Autore impregnano ogni singola pagina e ogni
singola scena. La dedizione, il sacrificio e il coraggio, l’eroismo e le virtù
sono il sinfonico sottofondo della narrazione.
Tolkien e il regista Jakson riempiono il cuore dei lettori e degli
spettatori di emozioni di sapore romantico ed epico, e i sistemi valoriali sono
il baricentro delle loro opere:
l’amicizia e la lealtà anche a costo della propria vita (pugna e brando) perché la vita è un
bene assoluto e primario, ma non può essere superiore alla sconfitta di Sauron
(ne Il Signore degli Anelli)
e, del grande drago e dell’orco pallido il profanatore (ne Lo Hobbit).
Nel leggere il
lunghissimo romanzo Il Signore degli
Anelli e, prima ancora, Lo Hobbit e, nell’assistere alla visione dell’altrettanto
lunghissima proiezione delle traduzioni filmiche (Lo Hobbit dura 2 ore e 50 minuti) respirerete, assorbirete ed
interiorizzerete quei principi e quegli ideali
che stanno inesorabilmente precipitando nel Nulla, con le sembianze di
un grande lupo rabbioso contro cui Atreju combatte ne La storia infinita.
Ritroverete la
colonna sonora che accompagna la trilogia de il Signore degli Anelli, rafforzata da brani abbelliti da sonorità classiche e celtico-irlandesi.
Il Signore degli Anelli - il libro
Il Signore degli Anelli - il libro
Tolkien, i suoi scritti e i film che ne sono derivati non solo, come abbiano nell’incipit già ricordato, hanno dato corpo ad un nuovo e vincente filone culturale nella letteratura e nel cinema, ma hanno anche influenzato settori ad essi alieni, come la politica (basta pensare negli anni ’70 ai c.d. campi hobbit organizzati da Pino Rauti, nonché ad alcuni attuali esponenti politici); al mondo dell’associazionismo (quelle tolkeniane sono diffuse sul territorio nazionale con loro circoli e luoghi di ristorazione e di ritrovo), alle realtà ludiche come i giochi di ruolo.
Lo Hobbit è perfetto per i ragazzi, è perfetto per le
famiglie, è perfetto per ogni singolo essere umano che non ha intenzione di
arrendersi al Nulla.
Fabrizio Giulimondi
lunedì 10 dicembre 2012
FABRIZIO GIULIMONDI VI CONSIGLIA IL CONVEGNO PRESSO L'UNIVERSITA' "GABRIELE D'ANNUNZIO" DI CHIETI-PESCARA
13.12.2012: Iniziative degli Studenti – “ I sicofanti- Irene - Dilogia del potere” Presentazione del libro di Giovanni Maddalena
Verrà presentato in Auditorium, nel Campus universitario di
Chieti, il volume di Giovanni Maddalena, I sicofanti – Irene- Dilogia
del potere, giovedì 13 dicembre alle ore 20.00.
All’incontro interverrà il Prof. Edoardo Rialti, docente di Letteratura Inglese e Americana.
L’uomo da solo può resistere al potere? Perché possiamo tradire ogni
valore e affetto? L’intelligenza è una barriera contro l’ideologia? Lo
sono forse la fede, l’amore, l’amicizia? Giovanni Maddalena, filosofo
prestato saltuariamente al teatro (“perché ci sono esperienze che la
filosofia non è in grado di rappresentare”), prova a rispondere- in
questa dilogia scritta in forma di tragedia greca antica. - a queste e
molte altre domande sul rapporto tra l’uomo e il potere
FABRIZIO GIULIMONDI VI CONSIGLIA IL CONVEGNO PRESSO L'UNIVERSITA' "GABRIELE D'ANNUNZIO" DI CHIETI-PESCARA
12.12.2012: Dipartimento di Scienze Economico-Quantitative e Corso di Dottorato in Studi Umanistici, Curriculum in Logica, Ontologie ed Etica – Conferenza su “La filosia inglese prima di Locke: contesti e fonti”.
Mercoledì 12 dicembre, dalle ore 8.00 alle ore 10.00,
nell'aula 5 del Polo didattico del Campus Universitario di Chieti, il
dott. Marco Sgarbi, Jean-François Malle Fellow presso Villa "I Tatti" -
The Harvard University Center for Italian Renaissance Studies, terrà una
conferenza sul tema: La filosofia inglese prima di Locke: contesti e
fonti.
L'incontro è organizzato dal Dipartimento di Scienze Economico-Quantitative e Filosofico-Educative e dal Corso di Dottorato in Studi umanistici, curriculum in Logica, ontologia ed etica.
L'incontro è organizzato dal Dipartimento di Scienze Economico-Quantitative e Filosofico-Educative e dal Corso di Dottorato in Studi umanistici, curriculum in Logica, ontologia ed etica.
giovedì 6 dicembre 2012
DON GIOVANNI D'ERCOLE:"NULLA ANDRA' PERDUTO, IL MIO GRIDO DI SPERANZA PER L'ITALIA"
Questa recensione si allontanerà da quelle fino ad ora pubblicate su
questa rubrica, perché l’Autore di "Nulla andrà perduto, il mio grido di speranza per l’Italia" (Piemme incontri) è don Giovanni D’Ercole.
Padre Giovanni d’Ercole, prima di
essere Vescovo Ausiliario della Arcidiocesi dell’Aquila dal 20 dicembre 2009,
eminente esponente della Segreteria di Stato della Santa Sede per venti anni, ancor prima
Vice Direttore della Sala Stampa vaticana e, prima ancora, Provinciale per il centro-meridione d’Italia
della Congregazione di don Orione, ha ricoperto, a cavallo fra il 1984 e il 1985, il ruolo di Parroco
della chiesa orionina di Ognissanti in Roma -
ove esercitava la propria missione il “gruppo Speranza” da me fondato e
diretto, teso all’aiuto dei tossicodipendenti, farmacodipendenti e alcolisti – e
vi era approdato dopo nove anni come missionario in Costa d’Avorio.
L’ho rincontrato dopo un lungo lasso di tempo lo scorso anno a l’Aquila,
nel corso della inaugurazione di una struttura destinata a riavvicinare le
donne e uomini dell’Aquila, devastati dal terremoto del 6 aprile 2009 dentro e fuori.
L’ho rivisto in abiti talari vescovili, ma per me è sempre don Giovanni,
o, meglio, Giovanni.
Le sue doti letterarie già mi erano note, frutto anche delle esperienze
avute in veste di giornalista della
carta stampata prima, del video poi , passando da Telepace, per arrivare a programmi di contenuto religioso - spirituale alla RAI, molto apprezzati da credenti e non.
Il lavoro letterario di Padre D’Ercole è strutturato intorno al dialogo
fra lui e una giovane ragazza, Alice, da cui ha ricevuto una mail che
manifestava il suo disgusto per il mondo e la sua volontà di farla finita.
A questa mail don Giovanni
risponde con questo libro.
Una mail: sono passati 22 anni da quando don Giovanni pubblicò nel 1990
“Lettere dalla droga” (ed. Piemme), scritto centrato sul dialogo epistolare fra
lui e ragazzi che uscivano dalla tragica esperienza della tossicodipendenza, attraverso
il duro cammino terapeutico e di lavoro della “Comunità Incontro” di Don Pierino Gelmini.
L’epistola, la missiva, la lettera cartacea era lo strumento
comunicativo adoperato dall’Autore per relazionarsi con i suoi interlocutori e
trattare temi delicati e drammatici.
Oggi con “Nulla andrà perduto” è la e mail: il dialogo scritto è telematizzato, lo scambio di idee è
informatizzato, la trasmissione delle idee, del pensiero e delle emozioni avviene
per mezzo della elettronica. Cambia il mezzo, evolve e si sviluppa la
comunicazione, ma le domande sono le
medesime.
A pagina 155 don Giovanni riporta questi interrogativi: “Perche vivere?
Perché morire? Perche la sofferenza e l’ingiustizia?”
Sono domande che nascono con
l’uomo. L’essere umano è tale in quanto
si pone queste questioni. Appena l’homo sapiens
apparve in Etiopia 195.000 anni prima della nascita di Cristo e la sua
mente ha cominciato a cogitare, i
primi quesiti posti a sé stesso sono stati questi.
Cogito ergo sum, la locuzione
cartesiana in forza della quale è innalzato l’essere a essere umano in quanto
pensante e svolgente attività raziocinante e, quindi l’uomo è tale perché pensa
e il pensiero è l’uomo stesso, ha come suo
corollario: “Sum perché mi pongo gli interrogativi sulle
ragioni del male, sulle ragioni del dolore, sulle ragioni della sofferenza, specie se il male, il dolore e la
sofferenza coinvolgono innocenti e bambini, non comprendendo perché debbano
essere vittime del libero arbitrio esercitato diabolicamente da altri”.
Sono interrogativi coessenziali alla stessa esistenza umana, ai quali
Papa Benedetto XVI ha risposto in maniera grandiosa definendo il male
uno scandalo: lo scandalo del male.
Il male è inspiegabile e inaccettabile,
irrompe scandalosamente dentro l’ uomo creato a immagine e somiglianza di Dio.
Colpiscono a tale riguardo le citazioni del pensiero di alcuni pensatori, come il
francese Leon Bloy, vissuto fra l’800 e il ‘900, Pellegrino dell’Assoluto, che definisce il male come necessario. Affermazione forte e, se
vogliamo, sconcertante: il male è necessario per arrivare a stadi
successivi e superiori verso il Bene e la
Felicità, per giungere all’unico Bene e Felicità a cui
l’essere umano deve aspirare: Dio
Don Giovanni D’Ercole percorre il suo cammino narrativo indicando
la vita di molti eroi e campioni del coraggio, dell’amore e della vera coerenza, contemporanei e non, laici ed ecclesiastici ,
alcuni di loro martiri del nazismo (il sacerdote polacco padre Massimiliano
Kolbe); del comunismo (il cardinale
vietnamita Francois Xavier Nguyen Van Thuan: 13 anni in carcere in Vietnam, di
cui 9 in completo
isolamento in un buco senza luce e in compagnia di un serpente); dell’islam
oltranzista, oramai massicciamente
diffuso negli Stati a maggioranza musulmana; e della follia brigatista,
armata dalla menzogna dei soliti noti, come nell’omicidio del commissario di
polizia Luigi Calabresi il 17 maggio 1972.
La fatica letteraria di Giovanni
affronta molti temi pruriginosi, incluso
quello mediaticamente molto sentito
della pedofilia di cui alcuni preti si sono resi ignobilmente responsabili.
Due premesse e una curiosità a
tale proposito.
Gesù dice: “Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in
me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e
sia gettato nel mare (Marco 9,42).
L’art. 61 del codice penale, nell’elencare le circostanti aggravanti
comuni, inserisce fra esse la condotta delittuosa posta in essere da un
ministro di culto: io, se non fosse tacciata di violare l’art. 3 della Carta
Costituzionale, trasformerei
quest’ultima da aggravante comune (aumento di un terzo della pena base) ad
aggravante ad effetto speciale (aumento
oltre il terzo della pena base, ossia
prescrizione di autonoma e
sensibilmente superiore sanzione in relazione a quella base).
La curiosità che mi assilla è conoscere i casi criminali similari presso
le altre confessioni cristiane e acristiane.
Date le premesse e in attesa di avere risposte alla mia curiosità, mi
preme condividere quanto affermato da Giovanni: la pedofilia è la conseguenza
estrema della più assoluta libertà sessuale. Dal tutto è permesso passare alla pedofilia non è un salto così lungo. Ricordo Maurizio Costanzo decantare la libertà
di una donna ospite della sua trasmissione di fare la porno attrice,
scandalizzandosi, però, della
proposta fattale di avere
rapporti sessuali con animali. E perché
no? E’ Costanzo – o chi per lui – a decidere i confini della morale? La Chiesa no, Costanzo si? e perché non con le bestie? o
altro? Se è tutto permesso!
La assoluta, incondizionata, incontestabile libertà sessuale non è altro
che la filiazione del relativismo etico, pilastro (insieme a quello religioso,
culturale e cognitivo, come ben argomentato da Magdi Cristiano Allam in Grazie Gesù, Mondadori,
collana Frecce), dell’unica ultima e vera ideologia rimasta: il politicamente corretto (su cui Tony
Blankley, in L’ultima change
dell’Occidente, ed. Rubettino, si intrattiene
ampliamente), interpretazione decadente e versione radicaleggiante di certo pensiero
progressista, orfano della concezione
marxista.
Profetico fu il grande romanziere e intellettuale russo Fedor
Dostoevskij - come viene riportato a
pag. 170 del libro – nel romanzo I demoni:
“Molti pensano che sia sufficiente credere nella morale di Cristo, per essere
cristiani. Non la morale di Cristo, né l’insegnamento di Cristo salverà il
mondo, ma precisamente la fede del Verbo che si è fatta carne.” E monsignor
D’Ercole aggiunge: “C’è chi segue un cristianesimo senza Cristo; si parla di
valori cristiani indipendentemente da Cristo. Corollario della miscredenza-
afferma Dostoevskij – è la superficialità, che è una appendice della ignoranza
e si nutre di dilettantismo culturale. Questa superficialità emerge nel modo
con cui sono affrontate le grandi questioni etiche.”.
Il linguaggio è diretto e colloquiale - talora a mo’ di omelia, di quelle omelie
profonde e, nello stesso tempo, accessibili a tutti (senza cadere nel banale e
nel semplicistico), oramai in via di estinzione
- e si rivolge alle tante e ai tanti Alice,
alle loro grida silenziose, a quelle grida inascoltate di ragazze e ragazzi che ricordano la potenza evocatrice
pittorica dell’Urlo di Edvard Munch
(che a me fa venire subitaneamente alla mente le voci strillanti dei non nati).
La parola Speranza è il leitmotif del libro, la linea di pensiero guida del
racconto, il canovaccio della narrazione, la lente attraverso cui guardare gli
accadimenti della vita, la weltanschauung dell’Autore.
Mi è piaciuta l’agilità comunicativa (e qui si vede il Giovanni
televisivo, dispensatore anche di consigli
a ecclesiastici e suore poco avvedute nell’accettare certi inviti ad alcuni
tipi di talk show), il periodare infarcito di richiami culturali e di idee
supportate e rafforzate dai pensieri dei grandi filosofi, pensatori, scrittori
e teologi antichi e moderni, il richiamo
agli aforismi di vecchi saggi africani e di anziane, altrettanto sagge,
abruzzesi.
Il lettore, però, non è
abbandonato a se stesso (non lo ha ordinato il medico di conoscere la Patristica, ossia le
opere dei Padri della Chiesa, primi fra tutti San Tommaso D’Aquino e
sant’Agostino), perché ogni enunciato
riportato fra le pagine è spiegato in maniera didascalica e chiara …tanto che
anche il sottoscritto riesce a comprenderlo!
Signore e Signori, consiglio natalizio di lettura: acquistatelo (euro 15),
leggetelo e poi mi saprete dire
Fabrizio Giulimondi
Post Scriptum: doverosa postilla
dovuta al fatto che mentre il mio antico amico Monsignor Giovanni D’Ercole, Vescovo ausiliario de L’Aquila, metteva nero
su bianco il suo cuore, ancora erano in corso i due procedimenti giudiziari che
lo riguardavano. Ovviamente i giornali, specie quelli che godono delle
disavventure vissute da cattolici, ancor di più se indossano il clergyman, sono zelanti nel riportare
notizie di avvisi di garanzia, indagini penali e iscrizioni in registri
tribunalizi, ma non altrettanto solerti nel rammentare alla Comunità, con la
stessa dovizia di particolari, che il destinatario delle attenzioni della
magistratura penale è risultato completamente estraneo ai fatti a lui
contestati.
Bene: Monsignor (o don o Padre, come meglio desiderate) Giovanni D’Ercole, Vescovo ausiliario de
L’Aquila, è stato, nell’uno archiviato, nell’altro, il 14 giugno 2012, assolto
con formula piena perché in fatto non costituisce reato.
Fabrizio
Giulimondi.
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