Una lettura
che toglie il fiato. Scrivere questa recensione emoziona. Godere delle parole,
respirare della profondità di un pensiero. Un percorso iniziato da Marcello Veneziani in “Vivere non basta. Lettere a Seneca sulla
felicità” e che vede una sua ulteriore tappa in “Dispera bene. Manuale di consolazione e resistenza al declino” (Marsilio Nodi). Nel primo Veneziani
usa il metodo dialogico in forma epistolare, in “Dispera bene” v’è, invece, un dialogo diretto della voce narrante, prima
con un uomo disperato del nostro tempo, poi con un ragazzo del 2000 e, infine,
con un bambino appena nato.
Dialoghi
platonici e senechiani per consolare, come fecero Boezio e Leopardi, accompagnano
il lettore insieme a Pascal, Dostoevskij, Gabriel Marcel e altri che hanno
impreziosito la nostra Umanità.
Dov’è
l’argine fra filosofia, poesia e prosa? E quanto fascino possiede la semantica grazie
alla quale si comprende la distinzione tra mondi e la scoperta di nuovi
universi? Veneziani ci apre ad una
lettura palingenetica, al termine della quale non si è più quelli di prima: l’eterno,
l’immenso, l’infinito e, poi, l’uomo dinanzi al passare del tempo, al suo
tragico e meraviglioso fluire.
Al
pari delle terzine dantesche che contengono già in sé traccia dell’eterno per
la loro capacità di ripetersi senza fine, Veneziani
imprime una impronta di intramontabile, di imperituro, nell’uomo che l’arte
ha il compito di liberare. L’Autore di un’opera feconda la mente del lettore
che, di rimando, ne feconda il significato. Uno scambio di anime. Un sinallagma
di passione, intelletto e nostalgia di futuro.
L’uomo
è solo il suo presente, in cui passato e futuro sono in esso cancellati,
sradicato da se stesso, autodeterminantesi in tutto? Senza confini né orizzonti?
È puro materiale biologico alla propria mercé? Particella pulviscolare dove l’immensità,
il senso di infinito, l’eterno non albergano?
Le pagine
sull’arte e la preghiera, sulla vecchiaia, la morte, la potenza del ricordo, la
famiglia nella sua normalità domestica, sui figli e sull’insegnamento
scolastico, sono indelebili, imponderabili, irrinunciabili, imperdibili.
Riscoprire
confini metaforici, morali e fisici, ricercare una nuova farmacopea alternativa
all’“Io Panta Rei”, sovrano assoluto
del transitorio, del temporaneo, dell’immanente, del desiderio erto a divinità,
del “possibile quindi fattibile”. Indagare se sia ancora immaginabile un uomo che nutra una fiducia trascendentale, un uomo
che ancora provi stupore e meraviglia innanzi al Mistero, in quanto tale intangibile,
impalpabile, inspiegabile, posto al di fuori di sensi fatalmente fallaci. Guardare
con nostalgia e comprensione il “restante” e l’appartenente (sperduto e
impaurito) alla maggioranza. Una idea antica e nuova che volga lo sguardo all’amor fati e al Pinocchio che vuole diventare
bambino e non a quello che si trasforma in asino.
“Avaro di visioni sembra invece un libro,
affidato alla scrittura, ma quando feconda il lettore e non serve solo a
esaltare l’autore, ti apre altri universi. Ti fa vedere la vita e il mondo con
altre menti, altri sguardi, altri colori. Ogni bel libro apre un mondo e ne chiude
un altro. Ti apre la vita interiore, anteriore, ulteriore e superiore. Romanzo
o saggio, ti permette di conversare coi morti e i non ancora nati, e con i
distanti. Ti dona altre comunità, altre fratellanze. Ti fa capire che
conformarsi all’oggi è solo una delle possibilità. Quante succinte eternità ti
regala una lettura, quanti mondi diversi. Una pagina si apre e tu sei altrove.
E un libro dopo l’altro ti donano se non l’ubiquità almeno la bilocazione, ti
permettono di essere qui e là. Libertà allo stato puro.”.
Noi
siamo foglie. Un giorno ci staccheremo dai rami e cadremo a terra. L’albero
robusto, saldamente allacciato al suolo da ramificate radici, i cui rami sono ghermiti
da un vento invisibile ma gagliardo, rimarrà a raccontare cosa siamo stati, cosa
sono stati quelli che ci hanno preceduto, cosa saranno quelli che verranno dopo
e ancora dopo, tutti momenti essenziali e irripetibili di una Eternità indecifrabile,
di un Destino non imprigionabile nelle leggi della scienza, in cui una grande
anima, come disse Seneca, si deve saper abbandonare.
Fabrizio Giulimondi