“Morte di un uomo felice” del bravo
scrittore trentatreenne lombardo Giorgio
Fontana (Sellerio editore Palermo),
vincitore lo scorso 13 settembre del Premio Campiello 2014, avendo superato in voti il concorrente “ Roderick Duddle” di Michele Mari (recensito in questa stessa Rubrica), nonostante quest’ultimo lavoro fosse di ben altra valenza
in stile, narrazione, erudizione, morfologia linguistica e fascino.
Immersa in un linguaggio scorrevole, gradevole e
vivace, la storia si alterna fra presente e passato; fra gli anni susseguenti al rapimento ed uccisione di Aldo Moro (1978) e
la guerra partigiana che seguì all’8 settembre 1943; fra la vita di Giacomo Colnaghi,
magistrato in prima fila nella lotta contro il terrorismo comunista e le
vicissitudini del padre, Ernesto Colnaghi, operaio e partigiano “rosso”.
Audace l’Autore
nell’alzare a ruolo di protagonista ed eroe un pubblico ministero, iscritto sì
a Magistratura Democratica, ma vicino
alle posizioni democristiane, seppur della corrente progressista, profondamente
cattolico, avverso all’aborto, al divorzio e alla ideologia marxista, in un periodo come quello attuale così
laicista e supino al relativismo etico.
Lascia
perplessi, però, la pietas (non
pagana ma cristiana) che Colnaghi mostra
nei confronti degli appartenenti alla confusa moltitudine delle frange criminali
“di sinistra” che in quegli anni seminavano morte in giro per l’Italia.
Lascia
dubbiosi la “compassione” (nel senso etimologico greco, syn-patheia, e latino,
cum-patior) che egli palesa nei confronti di chi uccideva senza pietas e senza “compassione” per alcuno.
Lascia una
sensazione di fastidiosa acidità in bocca la ricerca delle radici di questo
odio e delle sue ragioni (“…Più si
addentrava nella caverna che lo portava agli autori dell’omicidio….più scendeva
negli abissi e più tutto si faceva sfumato, e benché le sue certezze fossero
sempre solide come una muraglia, su questa muraglia cominciava a crescere l’edera
del disagio.... ”).
E’ vero che le
vittime non sono messe da parte, rimanendo presenti per tutta lo svolgimento
del racconto, incarnate sin dall’incipit
del romanzo dal figlio adolescente di Vissani (l’ultimo morto ammazzato per
mano delle formazioni brigatiste), ma rischiano lo stesso di essere sopravanzate
dalla possanza evocativa delle figure dei killer,
che si ammantano di idealità sociali e pauperistiche, incompresi combattenti dei
diseredati, degli umili e degli
oppressi.
Suggestiva è la
tensione morale in virtù della quale il magistrato tenta di comprendere come calare
la “Giustizia”, la “Diche”, lo “Ius” (“Noi
non dobbiamo essere gli uomini dell’ira”) all’interno della concezione
cristiana del giudizio, della sanzione e del perdono, per giungere ad inabissarsi,
in ultimo, nell’Assoluto, in un Dio infinitamente amorevole e illimitatamente misericordioso.
Intense le
ultime pagine, nelle quali i sogni e le speranze vengono demoliti dai colpi di una P38, la vita e la
morte si mischiano fino al trionfo di quest’ultima e il futuro viene cancellato
da una macchia di sangue, dalla esplosione di un’arma, da un atto di barbara
violenza.
Fabrizio Giulimondi
Credo che in questo romanzo Giorgio Fontana abbia presentato un punto di vista non comune che tende alla radice del problema, un'indagine sulle reali motivazioni che spingono un giovane ad uccidere. Il protagonista va oltre la politica pur riconoscendo l'atrocità del crimine, consapevole che da violenza nasce altra violenza in un circolo inarrestabile.
RispondiEliminaLa violenza era solo la loro e non era risposta a violenza perpetrata ai loro danni da parte di qualcuno, ma sorgeva solamente dalla loro farneticante ideologia comunista . Ad ogni modo, pur non ritenendo che l'Autore meritasse l'assegnazione del Premio, è indubbiamente un romanzo di valore.
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