“Scontenti. Perché non ci piace il mondo in
cui viviamo” di Marcello Veneziani
(Marsilio Nodi) è in qualche modo il
secondo tempo di “La cappa”. L’energia cinetica non si era ancora dispersa, non
aveva perso di potenza, la bellezza era in moto, in ansia di poter prorompere
dalla penna del filosofo pugliese.
Nel
tempo dell’apparire, dell’eterna giovinezza e dell’ossessione per l’autodeterminazione
dei capricci personali elevati a diritti umani universali, la scontentezza
fiorisce come un balsamo venefico fra le pieghe di un “Io” divinizzato.
L’essere
umano è in permanente mutazione, esiste e persiste in costante conflitto con la
Natura con cui ha ingaggiato una lotta per sostituirla con sempre nuove “non-identità”.
L’essere
umano si fabbrica come soggetto mutante, oggetto dei propri desideri volti a
plasmarlo sempre in qualche cosa di diverso, in un ansiogeno smarcarsi dalla
sua impronta primigenia. La Natura è sostituita dall’ecosistema, l’egocentrismo
si trasforma in eco-centrismo.
L’uomo
è responsabile di ogni nefandezza e si è messo al bando per essere governato
dalle sue vittime: l’Ambiente inclusivo ed animalista.
La
scontentezza è ciò che qualifica e aggettiva l’uomo d’oggi o, forse,
costituisce il carattere coessenziale della sua natura innata.
Rimanere legati alla propria memoria è uno dei più gravi peccati civili che possa essere compiuto: “Guy Debord notava: «Si sono tolte alle persone tutte le certezze fisse delle quali vivevano e si è anche sottratto e materialmente mutato, nel loro ambito effettivo, tutto ciò che conoscevano e credevano». In questo modo, concludeva, non li hanno resi più liberi; al contrario, sono più schiavi del loro scontento.”
Dopo
aver coltivato l’alienazione intorno a lui l’uomo si è industriato per alienare
se stesso: il corpo gli è dato, gli è disposto, gli è imposto, intollerabile
argine alla propria divina libertà. Alienarsi e sradicarsi sono gli ultimi atti
per affermare l’”Io” creatore, non succube di nessuno se non delle proprie
passioni transitorie, novello Prometeo che ruba il fuoco per donarlo al suo Ego.
Dal sistema tolemaico si è passati a quello copernicano per approdare al
modello “selficentrico”: l’essere umano gira intorno a se stesso in un vortice
asfittico di scontentezza, moderna accidia libera da ogni insopportabile
lacciolo morale, etico e religioso.
Il
desiderio si costruisce come soggetto e l’individuo ne è l’oggetto. Il
desiderio si sostituisce a Dio, agli Dei e al Mito, rompe gli argini e si fa
norma indiscussa, incontrovertibile e incontrastabile. Nel desiderio dover
essere ed essere coincidono.
Veneziani
a questo punto palesa la sua blasfemia: “L’uomo
non è il signore dell’universo, la nostra vita non è assoluta e perenne;
riduciamo le pretese e i desideri, recuperiamo il senso del limite, accettiamo
il destino con amor fati.”.
Il
transitorio rimuove le radici e rende la persona fluttuante e priva di
orizzonte. Riscoprire il senso dell’Assoluto e dell’Eterno, del Tempo e dello
Spazio, di noi come figli non di una incolore ripetitività ma discendenti
di quella Umanità che ha fecondato un
futuro fatto di scoperte e meraviglie, e non solo infarcito di catastrofi e
tragedie. La paura priva l’uomo del suo domani, rendendolo piccolo dinanzi alle
sfide che lo attendono, “in sintonia con
fonti a noi superiori e meno transitorie di noi; la tradizione, la
trascendenza, la comunità, i legami, l’amore.”.
Fabrizio Giulimondi
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