Sussiste
una sinergia perfetta fra il romanzo vincitore del Premio Campiello 2015 “L’ultimo arrivato” di Marco Balzano (Sellerio) e la produzione cinematografica neorealista del
dopoguerra. Seppur avrei preferito l’assegnazione del premio a Il tempo migliore della nostra vita di Antonio Scurati (http://giulimondi.blogspot.it/2015/08/verso-il-premio-campiello-2015-il-tempo.html),
attraverso “L’ultimo arrivato” Balzano riesce a far immergere il
lettore, senza illusioni, senza infingimenti, con implacabile assenza di
speranza, in uno spossante senso di solitudine, di mestizia, di tristezza, di
ripetitività (che solo trentadue anni di lavoro robotico alla catena di
montaggio può dare), di grigiore, di giorni tutti eguali, come se non ci fosse
differenza fra la permanenza decennale in un carcere, la vita in un bilocale di
un quartiere operaio milanese e il lavoro in fabbrica.
Il
lettore vive il senso di costante, persistente, reale abbandono di Ninetto
detto Pelleossa, che all’ età di nove anni, accompagnato da un parente, se ne
va dalla Sicilia a Milano (ma sempre un napulì
è), dove insieme ad altre migliaia di emigranti meridionali cerca di ricominciare
una vita che, invece, non si riavvierà mai.
Ninetto
è la summa di tutti quei terroni che, specie nel triennio
1959-1962, anche giovanissimi, hanno cercato fortuna nel triangolo industriale
Genova-Milano-Torino.
Ninetto
trova lavoro, si sposa a quindici anni di nascosto, alle quattro e mezzo del
mattino, con una coetanea, ha una figlia e una nipote, vive nel cupo di una
casa, anonima come altre centinaia, conosce la galera, ma rimane sempre un
emigrante, un senza Terra privo di radici e di futuro.
Alla fine Ninetto non è siciliano, non è milanese,
non un marito o un padre o un nonno, perché
non merita neanche il perdono dei familiari per il crimine compiuto.
Ninetto
è la summa delle biografie dei tanti emigranti meridionali interni ed esterni,
la cui esistenza è stata un “rosario”, un “tunnel” in fondo al quale, talvolta,
sembrava scorgere il baluginio di una luce…sembrava…
“Quando è arrivata la fabbrica, invece, mi
sarò pure sistemato. Ma sono entrato in un tunnel buio. E’ stato un rosario,
dottoressa. Sì, ha capito bene, un rosario, che è la preghiera più stupida
possibile perché a furia di ripetere a macchinetta la stessa solfa anche la
parola di Dio rimbomba a vuoto, come la voce in una pentola di rame. E il
carcere, cara dottoressa, lo sa cosa è stato per me il carcere? Secondo rosario
e secondo tunnel”……”Anche io sono straniero. Reietto e squalificato a vita.
Anche io sento che le ragioni non esistono e che quelle poche che si possono
trovare le so spiegare solamente in una lingua che gli altri non intendono”…..”Così,
anche se non ci credo più, ci spero. E anche se mi sono seccato di vivere, vivo”……”Sì, perché quando mi perdo nei miei racconti
non sono più corpo, ossa, muscoli. Solo anima e voce.”.
Fabrizio Giulimondi
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