martedì 27 agosto 2024

"COME L'ARANCIO AMARO" di MILENA PALMINTERI



L’essere umano privato delle sue radici è dimezzato senza che se ne accorga.

Quello stato di inquietudine che, talora, rasenta l’angoscia potrebbe avere la propria ragione su questa assenza, spesso avvertita negli strati profondi della coscienza ma divelta dalla propria razionalità. Un malessere che non si riesce a spiegare ma che insiste nelle esistenze di alcune persone: da dove vengo? Quali sono le mie reali origini? Chi è mio padre? Chi è mia madre? Quale è la mia autentica Terra natia?

È questo l’humus da cui è composto il retroterra della nostra dimensione quotidiana.

Milena Palminteri morbidamente narra questo stato percettivo, spesso inavvertito a livello di corteccia celebrale, in “Come l’arancio amaro” (Bompiani).

In “Come l’arancio amaro” il racconto si snoda in un lungo percorso interno all’anima tramite una complessa storia personale e familiare, originata negli albori del fascismo e approdata nel 1965 e che ha come set una Sicilia ancestrale e nobiliare, afosa e antica, dove le “serve” sono usate ad uso sessuale del “padrone”, “serve” che subiscono questi fatali abusi con vendicativa rassegnazione.

Ogni personaggio possiede un carattere marcato e, per quanto piccolo e agli angoli della scena, non v’è uomo o donna, giovane o vecchio, povero o ricco, che non dia un contributo determinante alla trama, che non spicchi con la propria specifica configurazione umana. Forse non esistono partecipazioni secondarie o comparse ma tutti sono resi protagonisti e co-protagonisti, intorno ai quali gravitano vicende che si vanno ad incastonare in altre vicende, e ancora e ancora.

L’Autrice parla di una umanità composta dai tanti individui che si affastellano nel romanzo, tutti legati da un unico filo conduttore: l’essere vittime, prima di tutto, di se stessi.

Come l’arancio amaro” riprende la grande tradizione della letteratura verghiana del verismo siciliano.

La tragicità di taluni accadimenti non è mai sospinta verso tinte fosche, sempre attenuati dalla irriverenza, dalla capacità sorniona e sfottente, dal cinismo o dalla dignità di attori che riescono a smussare i contorni cinerei dei fatti.

L’umanità nella sua declinazione oscura, furbesca e canzonatoria modella i personaggi che sembrano provenienti da un lontano passato, quello forgiato da commediografi Terenzio e Plauto, immersosi poi nelle acque veneziane di Goldoni per assumere, infine, le sembianze drammaturgiche e veristiche insulari.    

Le pagine sono pregne dei sapori della cucina siciliana e degli odori della zagara, autentiche colonne “sonore” gustative e olfattive del romanzo che non è fatto solo di inchiostro, ma anche di sensazioni corporali. Forse è lo stesso inchiostro che assorbe i sapori culinari e il sentore della pianta di arancio amaro quando è in fiore: ”…io dell’arancio amaro conosco solo le spine e oramai non mi fanno più male. Ma il profumo del suo fiore bianco è il tuo, ed è quello della libertà”.

Quale libertà? Quella di donne che prendono coscienza di cosa esse realmente siano e di quanto possano dare, prima di tutto, a se stesse: “Nessun albero come l’arancio amaro merita il nome di “pianta madre”: impavida, resiste a tutte le intemperie per compiere la sua missione, rendere forte e rigogliosa la nuova pianta che è altra da lei eppure da lei germoglia.”.

Fabrizio Giulimondi

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