L’essere
umano privato delle sue radici è dimezzato senza che se ne accorga.
Quello
stato di inquietudine che, talora, rasenta l’angoscia potrebbe avere la propria
ragione su questa assenza, spesso avvertita negli strati profondi della
coscienza ma divelta dalla propria razionalità. Un malessere che non si riesce
a spiegare ma che insiste nelle esistenze di alcune persone: da dove vengo? Quali
sono le mie reali origini? Chi è mio padre? Chi è mia madre? Quale è la mia
autentica Terra natia?
È
questo l’humus da cui è composto il
retroterra della nostra dimensione quotidiana.
Milena Palminteri
morbidamente narra questo stato percettivo, spesso inavvertito a livello di
corteccia celebrale, in “Come l’arancio
amaro” (Bompiani).
In “Come l’arancio amaro” il racconto si
snoda in un lungo percorso interno all’anima tramite una complessa storia
personale e familiare, originata negli albori del fascismo e approdata nel 1965
e che ha come set una Sicilia
ancestrale e nobiliare, afosa e antica, dove le “serve” sono usate ad uso
sessuale del “padrone”, “serve” che subiscono questi fatali abusi con
vendicativa rassegnazione.
Ogni personaggio
possiede un carattere marcato e, per quanto piccolo e agli angoli della scena,
non v’è uomo o donna, giovane o vecchio, povero o ricco, che non dia un contributo
determinante alla trama, che non spicchi con la propria specifica configurazione
umana. Forse non esistono partecipazioni secondarie o comparse ma tutti sono resi
protagonisti e co-protagonisti, intorno ai quali gravitano vicende che si vanno
ad incastonare in altre vicende, e ancora e ancora.
L’Autrice
parla di una umanità composta dai tanti individui che si affastellano nel
romanzo, tutti legati da un unico filo conduttore: l’essere vittime, prima di
tutto, di se stessi.
“Come l’arancio amaro” riprende la
grande tradizione della letteratura verghiana del verismo siciliano.
La
tragicità di taluni accadimenti non è mai sospinta verso tinte fosche, sempre
attenuati dalla irriverenza, dalla capacità sorniona e sfottente, dal cinismo o
dalla dignità di attori che riescono a smussare i contorni cinerei dei fatti.
L’umanità
nella sua declinazione oscura, furbesca e canzonatoria modella i personaggi che
sembrano provenienti da un lontano passato, quello forgiato da commediografi Terenzio
e Plauto, immersosi poi nelle acque veneziane di Goldoni per assumere, infine, le
sembianze drammaturgiche e veristiche insulari.
Le pagine
sono pregne dei sapori della cucina siciliana e degli odori della zagara, autentiche
colonne “sonore” gustative e olfattive del romanzo che non è fatto solo di inchiostro,
ma anche di sensazioni corporali. Forse è lo stesso inchiostro che assorbe i
sapori culinari e il sentore della pianta di arancio amaro quando è in fiore: ”…io dell’arancio amaro conosco solo le spine
e oramai non mi fanno più male. Ma il profumo del suo fiore bianco è il tuo, ed
è quello della libertà”.
Quale
libertà? Quella di donne che prendono coscienza di cosa esse realmente siano e di
quanto possano dare, prima di tutto, a se stesse: “Nessun albero come l’arancio amaro merita il nome di “pianta madre”:
impavida, resiste a tutte le intemperie per compiere la sua missione, rendere
forte e rigogliosa la nuova pianta che è altra da lei eppure da lei germoglia.”.
Fabrizio Giulimondi
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