Io ho
due mostri sacri: Steven Spielberg, incarnazione del cinema, e Stephen King, inveramento della
letteratura horror, thriller, poliziesca e psico-crime.
Il
momento di stanca capita a tutti, anche ai giganti, specie dopo produzioni
artistiche senza precedenti al mondo.
“Billy Summers” (Sperling & Kupfer) è l’ultima fatica letteraria di Stephen King e credo che, purtroppo,
risenta del clima di campagna elettorale delle presidenziali statunitensi del
novembre 2020.
Io non
ho mai letto un romanzo lontano dal genere politologico o fantapolitico che attaccasse
in continuazione, in maniera posticcia, improvvida, petulante, anche
sconclusionata, una personalità che si avversa. In questo libro Trump è pura
espressione del male, i suoi elettori berciati, tutti i suoi fan trattati come
criminali.
Il
personaggio principale, il protagonista ed eroe indiscusso è un vero e proprio
killer che uccide a pagamento, ma solo quelli che lui ritenga persone cattive,
come se un assassino possa ergersi ad angelo vendicatore, a giustiziere, a
latore del Bene previo cospicuo compenso.
L’Autore
sta con lui, lo coccola e lo vezzeggia, ritenendo giusto usare ogni mezzo per
ricevere la “giusta mercede” promessa ed “ingiustamente” negata. La violenza adoperata da Billy in qualche modo
è giustificata, vista quasi con simpatia: forse in via subliminale si vuole
sussurrare che un pluriomicida è migliore di Trump?
I noti
tratteggi dei caratteri e delle personalità di Stephen King qui scompaiono. Alice, diciannovenne vergine brutalmente
violentata da tre uomini, ha solo qualche fugace crisi di panico e segue senza
colpo ferire un assassino abbracciandone “usi e costumi”: si va ben oltre la
Sindrome di Stoccolma, che qui appare subitanea.
Billy
prima di dedicarsi ad ammazzare le persone per denaro era un marine a Falluja
nella guerra irachena voluta da Bush (ovvio!), ed è lì che ha imparato a
sparare, e ad uccidere. Forse Billy è diventato un eliminatore prezzolato di
uomini per colpa di Bush?
Il
Sommo Scrittore è sequestrato da un manicheismo parossistico in cui il Bene sta
tutto da una parte e il Male da un’altra. Che fine hanno fatto le descrizioni
della complessità dell’uomo, miscuglio di distoniche verità in un apparente unicum?
Il
finale, invece, è bello e ben costruito, con una chiara filosofia che lo
sottende: la scrittura mantiene in vita chi amiamo, crea nuovi spazi e libera le
menti dalla schiavitù del presente e della realtà.
“Alice Maxwell, studentessa di economia e reduce
da uno stupro, è seduta su un vecchio furgone con un uomo che si è guadagnato
da vivere uccidendo la gente”.
Non v’è
né drammaticità, né suspense, né pathos, mentre Dickens ed Émile Zola, padri
spirituali di King, questa volta
restano stupiti da tanto livore ideologico in un “giallo”.
Fabrizio Giulimondi
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