Carmine Abate, il cantore della terra e il poeta delle radici, ha scritto un libro che sa di zagara e di polvere: “Un paese felice” (Mondadori).
Esistono
racconti tragici che si nascondono nelle pieghe della storia e che spetta alla
lirica della parola disvelare ad un mondo sonnolento e disincantato.
Vi
sono parole che possiedono la potenza evocatrice della profezia, come Eranova. Ci
sono paesini, chiusi dentro i confini della bellezza, fra l’orizzonte del mare e
l’arcipelago delle montagne, che sono destinati ad essere distrutti perché così
vuole l’insensatezza umana, l’ottusità che, in quanto tale, è già portatrice di
violenza.
Eranova è una parola. Eranova è un luogo, un
luogo fisico, un’espressione geografica, uno spazio dell’anima, una novella
Hora, una Carfizzi che non esiste più.
Sartre
nella parola Florence vi vedeva una città toscana, ma anche una bella
donna.
Nella
parola Eranova si intravede la fisica e la metafisica di un tratto di terra, si
scruta la dimensione rinchiusa nell’anima ove tutti noi amiamo rifugiarci.
Eranova
esisteva. Ora non esiste più.
1970-1971.
1983.
Un
paese viene cancellato, e la descrizione, lenta, implacabile, che ne fa lo
scrittore arbëreshë equivale ad un coltello tagliente che lentamente, molto
lentamente, entra nelle carni del lettore.
Questa
brutalità appare piano piano, fra un mare mozzafiato, profumi che magnificano l’aria
e una comunità vera, una comunità autentica, fatta di uomini, donne, ragazzi,
amori giovanili, famiglie, bambini che sciamano in spiaggia come atto di
resistenza.
E poi
si percepiscono odori di pietanze saporitose e piccanti e volti antichi
e occhi profondi e una umanità saggia sciolta implacabilmente in una cecità
densa.
Canti
bucolici latini che nidificano fra idiomi calabresi per germogliare dentro di
noi, oramai prigionieri del presente, desiderosi di avere ancora un passato che
non venga cancellato da un futuro arcigno e beffardo.
Abate usa
uno stile delicato, profumato, gustoso e soffice, per vibrare una coltellata
impietosa finale.
Il
dramma è che il set non è il proscenio di una tragedia greca, ma la
realtà di un paesino incantevole, abitato da genti vere, che oggi non esiste
più.
Eranova
è “la nostra storia, la nostra memoria. Senza, non siamo niente”.
Fabrizio
Giulimondi
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