“Woman in gold” di Simon Curtis, film didatticamente interessante per avere il merito
di far conoscere un poco noto lembo di storia, ossia quello delle centomila
opere d’arte rubate dai nazisti (differentemente affrontato da George Clooney in Monuments men).
La
pellicola si alterna fra momenti carichi di pathos
e transfer e sprazzi noiosi e trenchant, senza dimenticare i riferimenti
giuridico-processuali che lasciano non poco perplessi gli addetti ai lavori.
I
trent’anni precedenti l’"anschluss" al
Terzo Reich sono fervidi di produzioni pittoriche, letterarie e nel campo della
psicanalisi. Il grande artista Gustav Klimt (1862 – 1918) dipinge il ritratto di Adele Bloch-Bauer (la “Monna
Lisa” austriaca), affascinante giovane donna ebrea dell’alta borghesia dell’epoca.
Il quadro andrà a finire nelle mani dei carnefici di quella famiglia, per poi abbellire, finita la guerra, le pareti del Museo Belvedere di Vienna.
La
nipote, dopo essere fuggita dalla barbarie nazionalsocialista e oramai residente da anni in California, si adopera per chiederne la consegna al governo
austriaco, il quale, in virtù di una legge, si era “fintamente” fatto carico della
restituzione ai legittimi proprietari di quanto loro sottratto per volontà delle
autorità hitleriane.
Il dipinto,
al termine di una lunga battaglia giudiziaria (molto mal rappresentata), dopo
sessantotto anni transiterà dalla Galerie
Belvedere al Neue Galerie
di New York.
Ovviamente
sotterranea (ma neanche troppo) v’è la morale erodotea: la scoperta del proprio
passato e di quello della propria famiglia
muta l’animo dell’avvocato - anch’esso ebreo e di origine austriaca - che passa dalla mera pulsione economica a quella dei
sentimenti e della custodia dei ricordi.
Cast
di attori di alto livello, con nomi del calibro di Helen
Mirren (Maria Altmann da anziana), Tatiana
Maslany (Maria Altmann da giovane), Ryan Reynolds (l’avvocato), Daniel Brühl (il giornalista
investigativo).
Fabrizio Giulimondi
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