È uscita
postuma “La città di vapore” (Mondadori), l’ultima opera dell’immenso
autore iberico Carlo Ruiz Zafón, morto
lo scorso anno.
Zafón è letteratura pura.
Zafón è architettura barocca
che si fa linguaggio e inchiostro.
“La città di vapore” è una summa di
storie tinte di mistero, imbevute di gotico, in cui il soprannaturale si
sostituisce al reale.
Il
lettore respira le stradine più nascoste di Barcellona e ne intravede scorci
scarsamente illuminati.
La
magia si fa parola e la parola alchimia e l’alchimia un fitto reticolato di
sonorità somigliante ad un arabesco linguistico, costituente la vera trama dei
racconti che si susseguono legati l’uno all’altro per essere, poi, tutti
insieme affasciati alla quadrilogia “Il cimitero dei libri dimenticati”. La
ricchezza dei vocaboli si interseca come in un tappeto persiano, in un arazzo
del ‘500 fiorentino finemente intarsiato, in una cuspide merlettata di una
cattedrale che si erge maestosa nei cieli francesi tardo medievali: la
narrazione è la parola stessa che, polimorfa, è forma e sostanza, mezzo e
contenuto.
Le
storie sono chiazze spettrali, rapidi colpi di pennello, abbozzi di personaggi,
bozzetti di caratteri.
L’ultimo
saluto letterario di Zafón è “un santuario, un cimitero di idee e
invenzioni, di parole e prodigi”.
I
grandi scrittori, in realtà, non muoiono mai perché vivono in eterno nei loro
libri.
Fabrizio Giulimondi
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