"Varcato il confine i derelitti del treno ci
siamo buttati per terra piangenti a baciare al suolo della patria! Una
moltitudine di giovani straziati nelle carni, zoppicanti, orrendamente mutilati
al naso, orecchie, mani e piedi, sembravano rinascere a nuova vita e si piangeva
a dirotto per la gioia.".
Il
diario di un milite dell'ARMIR, "La
mia guerra. Diario di un reduce della Russia", scritto da Giuseppe
Deni e pubblicato in autoedizione senza alcuna correzione né ritocco.
Il
ricordo va al capolavoro di Giulio Bedeschi "Centomila gavette di
ghiaccio", ma la narrazione è molto più breve e asciutta, e parte dal 16
gennaio 1942, giorno in cui Deni lascia
la sua Calabria per andare a fare la guerra alla Russia. Il gelo penetra nelle
ossa del lettore che vede le infinite distese bianche dove migliaia di soldati
italiani, molto mal in arnese, soffrirono l'inenarrabile, e ai quali l'Armata
Rossa tributò di aver attraversato a ritroso, imbattuti ed indomiti, il confine
nazionale. Un racconto algido come il freddo micidiale e assassino di quelle
Terre, dove l'umanità però era calda, e calde erano le isba dei contadini russi nelle quali venivano accolti ragazzi senza
più dita, né piedi, né mani o arti, assetati e affamati, annientati dentro e
fuori.
L'Autore
appare distaccato, come se tutto quell'orrore non lo riguardasse: i traumi non
sono solo quelli scalfiti nella carne ma anche, e soprattutto, quelli nascosti
nell'animo e che l'equidistanza cerca di celare.
L'8
settembre, la Repubblica Sociale Italiana, la guerra civile e la brutalità partigiana
e nazi-fascista, la fine di tutto, e poi il ritorno al tempo e al luogo dove ogni
cosa era stata interrotta.
Il
passato era ancora rinchiuso nel cuore di Giuseppe
Deni e mai la forza dello scritto, mai, è stata così terapeutica come in
questo caso.
Fabrizio Giulimondi
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