"Le madri non dovrebbero fare figli che soffrono. Non dovrebbero fare figli che muoiono. E non dovremmo fare figli cattivi".
Un'opera prima superba che sarà distribuita in 34 Paesi. Un'opera prima portentosa che dal freddo canadese penetrerà nel cuore di ogni lettore. "La spinta" di Ashley Audrain (Rizzoli) è un romanzo tragico, terribile e di grande bellezza e incisività sull'abbandono, sul trauma, sul disturbo da stress post-traumatico, sulla morte. Il dolore disgrega e più è grande e più è disgregante. L'abbandono è un fardello, una eredità piena di debiti, che si tramanda da generazione in generazione, da Etta a Cecila a Blythe e a Violet. Il rifiuto di scavare sui comportamenti non interrompe questo passaggio ma anzi lo aggrava, sino alla patologia psichiatrica, sino al crimine. La verità si evita, si nasconde, per poi vederla comparire sotto vestigia nefaste e dirompenti. Il dolore non affrontato lievita, nascostamente cresce, sempre di più, a dismisura, e ciò che non si voleva vedere si manifesterà in tutta la sua incomprimibile portata. L'immaginazione può essere un'ancora di salvezza, l'irrealtà come strumento di sopravvivenza ad una insopportabile realtà.
"La spinta" somiglia ad un mare prima solo leggermente increspato, poi mosso, dopo in tempesta, per tornare ad essere placido la cui superficie tranquilla, però, copre correnti turbolenti che esploderanno nell'uragano finale.
La lettura del passaggio di una decina di righe che descrive la moltitudine di azioni compiute in una giornata da una madre, fa scorgere all'orecchio un brano musicale ritmato dai colpi delle bacchette sulla batteria e dal suono delle corde di un basso elettrico pizzicate da dita esperte.
La protagonista parla in prima persona. Blythe si racconta e racconta della sua ascendenza, di sua nonna e sua madre, di suo marito e dei suoi figli, del passato e del presente, di un mondo contemporaneo che non può che essere l'inevitabile conseguenza di ciò che è stato ed è avvenuto.
Audrain compie uno studio rigoroso degli accadimenti interiori che travolgono le persone che vivono sofferenze imponenti e appariscenti, o minuscole e scarsamente visibili se non all'animo di chi le percepisce.
Alla scorrevolezza della narrazione e alla abilità stilistica si accompagnano capacità non comuni di penetrare l'"interno" delle donne, capacità che solo una donna può avere, forse perché l'Autrice, in qualche modo, è entrata in contatto con la sofferenza, l'ha vissuta, l'ha ruminata, e ne è uscita fuori dopo un duro percorso di morte e vita.
Un libro che chi non lo leggerà perderà molto.
"Mi ricordavo il brivido di scrivere sopra la miscela di musica e lacrime. Come si riempiva in fretta la pagina. Come mi batteva forte il cuore. Come mi vergognavo di essermi fatta sorprendere.".
Fabrizio Giulimondi
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