“Belle per sempre” del premio pulitzer
Katherine Boo (Piemme Voci editore),
è vincitore del National Book Award 2012, il più prestigioso premio letterario
statunitense.
E’ un romanzo – documentario, con un utile glossario in epilogo, per
stomaci forti e anime non troppo sensibili, di
morte e sofferenza indicibile, di quotidiane infamie contro inermi, di
una umanità senza umanità, di uomini e donne, ragazzi e ragazze, bambini e
bambine che conducono sin dalla nascita una esistenza animalesca.
Annawadi slum di Mumbai, uno dei tanti slum indiani, dove brulica la
disperazione.
Anno 2008.
Sono stato in India nel 1981 e ho visto il quotidiano orrore in cui vive
quel Popolo. Non pensavo che in trenta anni nulla fosse cambiato, a parte la
comparsa della tecnologia, dei computer e degli ipad.
Una famiglia musulmana, gli Husain -
centro di gravità introno a cui
gira il canovaccio narrativo del libro in esame - è specializzata in
individuazione, selezione e smercio di immondizia. L’immondizia che sta per
strada. L’immondizia che sta nelle cloache. L’immondizia dove ratti immondi e
maiali lerci si muovono e mordono i
volti dei bambini, le cui ferite si infettano e si riempiono di vermi.
Abdul Husain è un instancabile raccoglitore e commerciante di grande valore di lerciume e
aiuta la famiglia ad ottenere una leggera miglioria economica.
L’invidia credo sia, fra i sette peccati capitali, il più devastante,
perché induce gli essere umani ad annientare se stessi pur di distruggere l’altro.
Fatima è storpia, è indù, è dedita al sesso, per vizio, per rabbia, per
denaro e odia gli Husain solo perché sono migliori di lei: la loro determinazione li ha portati a cambiare
in meglio la propria condizione materiale e questo Fatima non può accettare.
Fatima si da fuoco e morirà fra atroci sofferenze attingendo però il suo
obiettivo: rovinare gli Husain, farli
incarcerare nelle ignominiose prigioni indiane con l’accusa di averle appiccato
il fuoco.
L’innocenza in India viene fatta valere se paghi: tangenti ad agenti di
polizia, a guardie penitenziarie, a giudici. Tutto è corruzione. La corruttela
e il puzzo dell’immondizia, dei lerci vicoli dello slum, degli animali e degli
uomini (non dissimili dai primi) trasudano dai pori delle pagine. Le sentite. Le vivete. Ne
rimanete sconvolti. Gli effluvi maleodoranti e ributtanti aleggiano come un
alone mefitico sul e intorno al libro.
Il processo agli Husain - e la
mente vola ai nostri Marò - si fonda su
falsità elevate a diritto. I giudici, i pubblici ministeri, gli avvocati e gli assistenti giudiziari Vi faranno percorrere un
leggero brivido lungo la spina dorsale.
In questa ignominia Abdul Husain è un ragazzo che cerca per il tramite
di un lavoro da paria
(gli intoccabili nella rigida
struttura in classi della Comunità indiana, tuttora vigente nonostante la
formale sua abrogazione legislativa) il
riscatto sociale della propria famiglia.
In questa normalità dell’ orrore Manju, una bella ragazzina indiana di quindici anni, contrappone se stessa alla amoralità della
madre, Asha, che incarna in tutto e per tutto i peggiori istinti dei bassifondi
indiani (forse anche quelli della high
society): la pratica prostituiva, tangenti per ottenere qualsiasi
risultato, anche il più comune, anche il più modesto, anche il più giusto;
chiudere gli occhi dinanzi anche la barbarie più inammissibile, se non giungono
nelle mani rupie, tante rupie, il più possibile rupie.
Manju si sta laureando. Manju insegna ai bambini poveri. Manju non vuole
un matrimonio combinato, come la maggior parte delle bambine e fanciulle delle
baraccopoli. Manju non vuole vivere una vita di stupri, violenza, pestaggi di
inaudita ferocia, crudeli mutilazioni e umiliazioni, di morte, di visi
deturpati dall’acido o dal fuoco. Gli abusi sessuali rappresentano la normalità
e non si fermano dinanzi a nessuno, alla età di nessuno, sino alla soppressione
della vittima: basta pagare per mettere a tacere tutto!
Mentre ragazzi vengono ammazzati
come se nulla fosse e la causa della loro morte viene derubricata a “tubercolosi”, mentre i ragazzi vengono
devastati da ogni tipo di patologia, mentre i ragazzi hanno fame, tanta fame, gli
animalisti si preoccupano dello stato di salute di cavalli e zebre, come
denuncia la Boo.
La giornalista - scrittrice narra storie vere, storie che ha raccolto nella sua
lunga permanenza ad Annawadi, storie di moltitudini invisibili e pulviscolari di uomini e donne residenti in uno dei tanti slum
che sono prolificati intorno alle grandi città indiane nel corso degli anni,
zona non-luogo che dovrà essere demolita
al termine del racconto per fare spazio al vicino grande aeroporto
internazionale.
I miserrimi di Annawadi si
aggirano in mezzo alla putrefazione
animale e umana (il puzzo di alcuni quartieri di Madras è dopo trent’anni
ancora persistente nel mio naso!), nella melma, nel fango, negli escrementi, nella
putredine, nell’immondizia. L’immondizia è dappertutto, nelle strade, nelle
catapecchie, nei locali dell’aeroporto, negli spazi del tribunale, sulle e
dentro le persone. L’immondizia è il vero protagonista del racconto, perché
l’immondizia è onnipresente in ogni angolo della vita indiana, dalla nascita
alla morte ed è la più importante fonte di sussistenza degli abitanti dello
slum, che diventano “cittadini” solamente quando votano. Il voto per i poveri –
come ci ricorda l’Autrice - è fondamentale perché quell’atto li rende
visibili agli altri, li rende parte effettiva dello Stato indiano: ma anche la
registrazione, presupposto necessario ed imprescindibile per esercitare tale
diritto, è frutto di contrattazione illecita fra il ras locale e i disperati di turno. Gli ultimi fra gli ultimi, come li definiva Madre Teresa di
Calcutta, almeno per una volta sola vogliono
essere cittadini, uomini e donne, esseri umani, rispettati e rispettabili, almeno quando pongono la scheda nell’urna.
Superstizione, divinità induiste e costumi musulmani, odi etnici e religiosi, guerriglia tamil,
azioni terroriste maoiste, guerra jihdista, balli, feste,cibo, musica e cinema.
ll cinema. La produzione filmica in India è massiccia e gli indiani
vedono quel mondo come il paradiso, il riscatto della loro miseranda vita. Il
film indiani lunghissimi, colorati, malodrammatici e polpettoni, sono le lenti attraverso le quali i protagonisti
guardano gli accadimenti nelle proprie esistenze.
I magistrati, gli avvocati, i testimoni e gli assistenti di udienza del
processo di cui sono vittime innocenti
papà e figlia Husain sono osservati e
scrutati come attori di un film: alcuni se ne
discostano, destando lo stupore degli slummers
(ma come? la realtà giudiziaria è diversa da quella raffigurata in un film?);
altri li incarnano, rassicurando gli abitanti di Annawadi (ecco, la realtà è
come nel cinema, perché il cinematografo
è la sublimazione della realtà).
Mai quanto in India, mai quanto
in questa opera letteraria, gli eroi del grande schermo rappresentano una fuga
dalla quotidiana aberrazione.
Lo stesso titolo è segno della contraddizione della globalizzata società
indi: Belle per sempre è la
pubblicità di mattonelle di qualità che troneggia in mezzo a topi e scrofe, in
megalopoli ove convivono ricchezza e lusso estremo insieme ad un terzo dei poveri del mondo e ad un quarto
dei denutriti del globo.
La lettura di Belle per sempre
mi ha fatto rivivere l’allucinante “passeggiata” fra le strade di Calcutta
quando al ritorno nella missione-lebbrosario avevo piedi e gambe ricoperte da
liquame nero e gli occhi pieni di abissale miseria umana e deformità fisiche.
Belle per sempre ripercorre quella mia camminata nel
luglio del 1981.
Fabrizio Giulimondi
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