“Un giorno devi
andare” del regista, sceneggiatore e soggettista Giorgio Diritti, già Autore del bel film L’uomo che verrà.
Non è facile
parlare di una opera di tal fatta, dove spiritualità e bellezza si intersecano
inscindibilmente,e la bellezza è quella della strenua e drammatica ricerca
dell’anima, e la bellezza è quella di luoghi stupefacenti, come le foreste
fluviali del Rio delle Amazzoni, ove l’immenso, l’infinito, l’assoluto si
manifestano attraverso il Creato. E lì che Augusta interpretata da Jasmine
Trenca si rifugia per scappare al dolore
della morte del figlio nel proprio grembo. E lì che Augusta con la zia suora e
missionaria, attraversando i poveri villaggi indios, cerca la risposte ad una domanda che
perseguita l’umanità da sempre e per sempre: perché il male, la ragione del
dolore. È una domanda a cui l’uomo non saprà mai darsi una risposta. E’ lo scandalo del male di cui ha parlato
Papa Benedetto XVI. E’ da quello scandalo che Augusta vuole fuggire; è a quello
scandalo che Augusta vuole dare un senso; è a quello scandalo che l’esperienza
caritatevole con la zia non fornisce un
fondamento. Augusta deve ancora andare, in un altro posto, in un altro luogo,
in una casa-famiglia in una favela: una vera comunità umana a cui la povertà,
il degrado dei luoghi, i tuguri che
scivolano nelle acque in piena, non
tolgono mai il sorriso. Allo sguardo iniziale perennemente triste di Augusta, alla assenza anche fugace
sulle sue labbra di un accenno di gioia, contrastano i volti sempre allegri di tuto mundo.
Il cadenzarsi
altalenante della storia fra un freddo e cupo paesino del settentrione d’Italia,
dove vivono la madre e la nonna di
Augusta e, la serena esistenza dei
villaggi brasiliani, macchiata dalla infamia della tratta di bimbi a scopi
pedofili o di espianto di organi, è
tratteggiato esteticamente da colori mesti e grigio-verdognoli nelle
inquadrature italiane e da colori lussureggianti nelle scene amazzoniche, tinte
sempre più accese e sorridenti, come gli occhi di Augusta quando lentamente si
immerge nella festosità dei bambini, nei loro sguardi, nelle loro braccia e
gambe in movimento. E sarà la tragedia che colpirà uno di loro che trascinerà
di nuovo negli inferi interiori Augusta.
L’incontro con una terza tappa del suo cammino la condurrà in una spiaggia isolata con una sabbia fina bianchissima,
simile al deserto della sua disperazione, perché il suo bambino era morto ancora dentro di lei. Ma le iridi luminose e
irradianti gioia di un fanciullo che le compare dinanzi all’improvviso e i
giochi che intratterrà con lui prenderanno per mano Augusta per accompagnarla colà dove deve
andare, perché “devi andare, devi essere, devi sperare”.
Spes contra spem
Fabrizio Giulimondi
Un film che fa riflettere: bellissime le immagini, inquietante il contenuto.
RispondiEliminaAl termine della proiezione, ho visto spettatori uscire dal cinema visibilmente commossi, altri stranamente silenziosi e turbati, altri ancora quasi seccati. Ognuno di noi, in quelle quasi due ore di “buio”, non ha potuto non confrontarsi con se stesso.
"Un giorno devi andare" appartiene a quel genere di film, di fronte ai quali nessuno può rimanere indifferente, essendo costretto, che lo voglia o meno, a denudarsi e a guardarsi dentro, spogliato di quell’abito rassicurante che una pseudo-cultura, fatta di alibi mediatici più che di verità, quotidianamente fornisce.
Natura vs Cultura è la prima coppia di categorie assiologiche che nel film si scontra; Uguaglianza vs Diversità, o meglio in altre parole, Appartenenza vs Non Appartenenza è l’altra.
Categorie di contrari che si intersecano, si sovrappongono, si allontanano per poi incrociarsi di nuovo.
Augusta, la protagonista del film, con l’anima devastata dalla morte nel suo grembo del figlio che aspettava, deve fare i conti con entrambe.
Drammatico, soprattutto perché taciuto, è il suo dolore, un dolore che si snoda per tutto il film come un fil rouge, come un lungo fiume.
E’ l’isotopia figurativa dell’acqua a veicolare, per l’appunto, la relazione di contrarietà tra Natura e Cultura: l’acqua del maestoso fiume, che scorre lento e imperturbabile, quasi sottratto alla realtà del tempo e l’acqua contaminata dai rifiuti, in cui si specchia colorata e cruda la favela, metafora di una civiltà che, avendo perso la propria identità, (e qui le due opposte coppie di categorie assiologiche si intersecano), “cade a pezzi”, mettendo a rischio la sua stessa sopravvivenza.
E sempre acqua, anche se questa volta in forma di neve, è quella che fa da sfondo alla purezza algida del monastero, lontano dal mondo reale, “perso” nella natura, tra le montagne, ma il cui gelo sembra riflettersi e simbolicamente materializzarsi sul volto contratto, quasi senza mimica, della madre dolente, che nel mondo, nascondendosi dietro la sua maschera “sociale”, è pur costretta a vivere.
La complessa costruzione dell’identità, perseguita nel difficile cammino che si snoda tra diversità ed uguaglianze, è l’altra chiave di lettura del film.
L’uguaglianza è vista nel suo risvolto sociale di appartenenza, la diversità è intesa come non appartenenza.
La sofferenza precipita l’animo nell’isolamento dalla realtà. E poco importa se il mondo è quello colorato dell'America Latina o quello grigio del nord Italia. La “non appartenenza” fa, comunque, perdere ogni senso al cammino, rende estranei ad ogni mondo, spinge a fuggire persino da se stessi, poiché la "tua" vita senti che essa stessa non ti appartiene più. Non sai dove andare, ma sai solo che "devi" andare, alla ricerca di una "appartenenza" a qualcosa o a qualcuno, senza la quale non puoi più riuscire a vivere.
Il tentativo di superamento del dolore da parte di Augusta si intreccia allora con la messa in discussione della sua stessa identità. Diventa faticoso percorso di ricerca di una identità nuova.
Emblematica l'ultima scena, con la canoa che si muove fendendo le alte erbe del fiume, lentamente … ma ben decisa ad andare avanti.
Franca Tribioli
Bellissimo!Grazie!
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